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Respinti i ricorsi contro l'obbligo di vaccino contro Covid-19 per il personale sanitario. Per la Consulta sono "non irragionevoli, né sproporzionate, le scelte del legislatore adottate in periodo pandemico” Tratto da wired, di Kevin Carboni La Corte Costituzionale si è espressa sulla legittimità costituzionale dell'obbligo vaccinale, introdotto nel 2021 come strumento per arginare la pandemia da Covid-19 e causa di forti polemiche e ricorsi giudiziari fin dai suoi primi giorni di “vita”. La vicenda:
  1. Il giudizio
  2. I ricorsi
  3. Evoluzione dell'obbligo vaccinale
A dicembre scattano le multe per chi non ha rispettato l'obbligo vaccinale
La sanzione da 100 euro interesserà le persone over 50 e il personale delle categorie per cui era previsto l'obbligo dei vaccini contro Covid-19, come personale sanitario, delle forze dell'ordine

Il giudizio

Come si legge in una nota, “la Corte ha ritenuto inammissibile, per ragioni processuali, la questione relativa alla impossibilità, per gli esercenti le professioni sanitarie che non abbiano adempiuto all’obbligo vaccinale, di svolgere l’attività lavorativa, quando non implichi contatti interpersonali. Sono state ritenute invece non irragionevoli, né sproporzionate, le scelte del legislatore adottate in periodo pandemico sull’obbligo vaccinale del personale sanitario. Ugualmente non fondate, infine, sono state ritenute le questioni proposte con riferimento alla previsione che esclude, in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale e per il tempo della sospensione, la corresponsione di un assegno a carico del datore di lavoro per chi sia stato sospeso; e ciò, sia per il personale sanitario, sia per il personale scolastico”.

I ricorsi

Contro la legittimità dell’obbligo vaccinale, si sono schierati i tribunali di Brescia, Catania e Padova, il Tar della Lombardia e il Consiglio di giustizia amministrativa della regione Sicilia. In particolare lo scontro si è acceso sul decreto legge del primo aprile 2021 numero 44 (convertito, con modifiche, dalla legge 28 maggio 2021, numero 76) e su quello del 24 marzo 2022 numero 24, che hanno istituito l'obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari, pena la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, fino al 31 dicembre 2022, ma fatto cessare dal governo Meloni il primo novembre scorso, con il decreto legge del 31 ottobre 2022, numero 162).

Nel tentativo di fronteggiare le critiche crescenti per le violazioni dei diritti umani, il governo di Doha gioca la carta del “volto buono”. Ma ancora una volta elude i temi più scottanti.

Tratto da rainews, di Vittorio di Trapani "Ho provato qualcosa di dolce e mi piacerebbe condividerla con te”. E’ questa la frase scritta sull'adesivo di un pacchetto che, passeggiando per Doha, si può ricevere in regalo da un bambino in abiti tradizionali qatarini, accompagnato dalla sua mamma. Anche lei vestita con consueto abito nero. Stessa scena all'uscita dello stadio di una delle partite dei Mondiali. Si tratta di dolci o di datteri. “Scopri la nostra identità”, c’è scritto sull'adesivo. E poi c'è un Qr Code. Scansionandolo, porta al sito web del Ministero delle donazioni e degli Affari islamici del governo del Qatar. In particolare ad una pagina che propone il testo “comprendere l’islam” in 6 lingue diverse. Quindi, evidentemente, non un regalo, una attenzione per i tifosi. Ma un altro pezzo di propaganda da parte del governo qatarino, e in qualche modo anche di proselitismo in favore dell’Islam. Che, è bene ricordarlo, è uno dei doveri in capo a ciascun musulmano. E, come tutte le propagande che si rispettino, passa attraverso i canali che possono maggiormente far abbassare le difese all'interlocutore: quindi, la scelta di far consegnare questo regalo da un bambino, accompagnato dalla mamma. Nessuna presenza maschile. Per mostrare il volto buono, più accogliente di questo Paese.
L'intervento della moderatora della Tavola Valdese, Alessandra Trotta Tratto da chiesavaldese Torre Pellice, 24 Novembre 2022 «Sul tema dell'accoglienza e della benedizione delle coppie omoaffettive, la Chiesa valdese ha espresso ripetutamente una posizione netta e cristallina». Così la moderatora della Tavola Valdese, Alessandra Trotta, interviene sulle affermazioni del senatore Lucio Malan (esponente di Fratelli d'Italia e membro della Chiesa valdese) a proposito di diritti delle coppie omoaffettive anche in rapporto alla Bibbia, per rispondere a chi si chiede come mai la Chiesa valdese non parli. «Deluderemo tutti coloro che si attendono censure pubbliche nei confronti del senatore Malan. La censura non fa parte del nostro modo di essere chiesa – dice Trotta –. Ma questo non significa che la nostra Chiesa non parli. La nostra Chiesa parla attraverso i pronunciamenti ufficiali del nostro Sinodo che, al termine di un ampio e partecipato processo di confronto e condivisione, ha espresso, sul tema dell’accoglienza e della benedizione delle coppie omoaffettive, una posizione cristallina e lo ha fatto non per cedimento allo "spirito del mondo", ma ponendosi con serietà e senso di responsabilità davanti alla Parola, con una interrogazione attenta delle Scritture e nella fiducia della guida dello Spirito santo; insomma da credenti».
Tratto da ilpost Lunedì circa 300 donne hanno manifestato a Varsavia, in Polonia, davanti alla casa di Jaroslaw Kaczynski, il leader del partito di destra radicale Diritto e Giustizia che guida il paese dal 2015. La protesta era stata organizzata in seguito ad alcune dichiarazioni dello stesso Kaczynski, secondo cui il calo delle nascite in Polonia sarebbe riconducibile all’abitudine delle donne più giovani di bere troppo alcol, ma ha incluso anche una generale rivendicazione di maggior diritti, in modo particolare sui temi legati all’aborto. La polizia ha impedito alle manifestanti di avvicinarsi troppo alla casa di Kaczynski, mentre venivano urlati vari slogan e mostrati cartelli per chiederne le dimissioni.
L’elogio dell’umiliazione come dispositivo pedagogico è una triste novità: particolarmente grave, visto che proviene dal ministro che dovrebbe garantire una scuola libera e democratica per tutti Tratto da ilMulino, di Roberto Farné

Le recenti “esternazioni” del ministro dell’Istruzione (e del Merito, come ora viene definito), relativamente al rapporto fra giovani percettori del reddito di cittadinanza (RdC) e abbandono scolastico meritano qualche riflessione. Dice il ministro che dei 364.000 percettori del RdC nella fascia compresa fra 18 e 29 anni, 11.000 hanno solo la licenza elementare (o nemmeno quella) e 129 mila appena la licenza di scuola secondaria di primo grado. La conclusione del ministro è chiara: occorre portare questi soggetti (per amore o per forza, ma questo è un nostro inciso) a completare l’obbligo scolastico poiché, sono parole sue: «Questi ragazzi preferiscono percepire il reddito anziché studiare e formarsi per costruire un proprio dignitoso progetto di vita». Inoltre, continua il ministro: «Il reddito collegato all’illegalità tollerata del mancato assolvimento dell’obbligo scolastico […] è inaccettabile moralmente: significherebbe legittimare e addirittura premiare una violazione di legge» (il video con l’intervista è su Youtube e il testo è sul sito del ministero dell’Istruzione).

Si delinea così una relazione diretta fra abbandono scolastico / RdC / illegalità (cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia). Tale relazione, che non neghiamo affatto possa esserci, andrebbe non solo “proclamata” ma dimostrata sulla base di dati, poiché in questi casi la quantità assumerebbe valore di qualità nel definire il fenomeno. Il quale fenomeno, anche se riguardasse poche decine di soggetti sarebbe comunque grave e andrebbe affrontato; ma come…? Facile togliere il RdC (questo è ciò che il governo comincerà a fare), più difficile riportare a scuola quei soggetti che la scuola l’hanno abbandonata anzitempo: che cosa è avvenuto nella loro vita da condurli a questa decisione?

<<Facile togliere il RdC, più difficile riportare a scuola quei soggetti che la scuola l’hanno abbandonata anzitempo: che cosa è avvenuto nella loro vita da condurli a questa decisione?>>

Non credo che il ministro pensi di rimandarli a scuola scortati dai Carabinieri. Questi processi vanno governati dal basso, non dall’alto. Vorrei ricordargli l’importante lavoro dei “maestri di strada” a Napoli e delle molte realtà del terzo settore che nel nostro Paese hanno lavorato e lavorano sul piano educativo per contrastare le condizioni di marginalità e devianza che portano spesso all’abbandono scolastico. Forse il ministro ignora che a queste realtà i fondi sono stati tolti in passato, e con il solo volontariato non possono sopravvivere, perché sono ambiti difficili in cui servono professionalità e continuità. Una proposta semplice: fare una ricognizione su queste realtà, individuare le migliori, promuoverne lo sviluppo, finanziarle adeguatamente, monitorarne i risultati, nel tempo necessario per avere risultati.

Quando alla fine degli anni Cinquanta del secolo passato ci si accorse che uno dei problemi dell’Italia era l’alto numero di adulti analfabeti o semianalfabeti, non si esitò a mettere in campo un progetto straordinario che coinvolgeva il ministero dell’Istruzione e la Rai: circa 2.500 Posti di Ascolto Televisivo sparsi nel Paese con altrettanti maestri-tutor e un programma TV affidato ad un maestro elementare, Alberto Manzi: si chiamava “Non è mai troppo tardi”. Ando in onda dal 1960 al 1968, si calcola che circa un milione e mezzo di italiani presero la licenza elementare grazie a quel progetto; a “Non è mai troppo tardi” nel 1965 fu assegnato il Premio Unesco come miglior programma televisivo per l’educazione. Intendo dire che se l’abbandono scolastico e i rischi conseguenti sono un’emergenza allora ci vuole coraggio, come si ebbe allora, il coraggio di un progetto che vada incontro a quelle persone, non che le punisca poiché la punizione, per chi la commina, non è un atto di coraggio e, per chi la subisce, assai spesso non è nemmeno efficace.

Quasi il 25% della popolazione è fuggita cercando opportunità all’estero. Eppure Maduro è ancora al potere e gode di un discreto consenso. La dimostrazione della schizofrenia di un mondo che a parole difende i diritti calpestati, ma poi... Tratto da Huffpost, di Alfredo Luís Somoza Del Venezuela non si parla ormai da molto tempo. Il Paese sudamericano è uscito dai riflettori dei media internazionali all’inizio della pandemia, per scomparire definitivamente con l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Fondamentalmente ciò è accaduto perché gli Stati Uniti, fino a pochi anni fa impegnati in una campagna a tutto campo contro il governo di Nicolás Maduro, hanno concesso al Venezuela un’apertura che va letta integralmente nella logica della geopolitica del petrolio, scossa appunto dalla guerra Ucraina. È l’ennesima dimostrazione di come i diritti umani e politici si possano barattare senza rimorsi per garantirsi la continuità nei rifornimenti di materie prime strategiche. Sabato 26 novembre, a Città del Messico, l’opposizione e il governo venezuelano hanno raggiunto un accordo di minima per la ripresa del dialogo, agevolato dalla Norvegia in veste di mediatore e – soprattutto – dall’impegno statunitense sullo scongelamento dei capitali venezuelani all’estero, bloccati dalle diverse sanzioni accumulate negli anni dal Paese e dalla sua classe dirigente. I fondi dovrebbero essere investiti nella sanità e per l’alimentazione di un popolo ormai provatissimo: la crisi economica, infatti, risale addirittura a tempi precedenti alle sanzioni, quando fu innescata dall’incapacità dell’erede di Hugo Chávez di gestire l’economia nazionale. Intanto, il Venezuela è entrato nella storia come lo Stato americano che ha perso la maggior quota di popolazione nel minor tempo. Sono circa 7 milioni, secondo i dati delle Nazioni Unite, i venezuelani che negli ultimi 8 anni sono emigrati in altri Paesi latinoamericani, soprattutto Colombia e Perù, o verso gli Stati Uniti e l’Europa: significa che quasi il 25% della popolazione totale è fuggita cercando opportunità all’estero, un fenomeno che non si era mai verificato in tempi di pace. Eppure il governo di Maduro è ancora al potere e gode di un discreto consenso, ovviamente al netto dei dubbi sulla libertà di espressione e sulla trasparenza degli ultimi processi elettorali, come più volte denunciato.

La clausola da inserire in Costituzione è stata approvata alla Camera Bassa, grazie a un compromesso storico tra i centristi e la sinistra radicale. Più difficile il passaggio al Senato

Tratto da luce, di Graziano Davoli  “La legge garantisce l’efficacia e la parità di accesso al diritto di interrompere volontariamente una gravidanza” recita così la clausola, da inserire in Costituzione, approvata con 337 voti favorevoli, 32 contrari e 18 astenuti all’Assemblea nazionale francese. La risoluzione è frutto di un compromesso storico d’Oltralpe tra i centristi di Reinassance, partito del presidente Emmanuel Macron, e la sinistra radicale di La France insoumise, partito di Jean-Luc Mélenchon, che porta la Francia ad un passo dall’essere il primo Paese nel mondo a riconoscere l’aborto come diritto costituzionale. “Ci vorrebbe solo una crisi politica, economica o religiosa per mettere in discussione i diritti delle donne”, ha commentato entusiasta Mathilde Panot, capogruppo di La France insoumise alla Camera Bassa. La palla passa ora al Senato e qui le cose potrebbero complicarsi. La Camera Alta vede, infatti, la maggioranza dei seggi in mano alla destra neogollista dei Rébuplicains che, lo scorso ottobre, aveva già respinto la prima proposta. I conservatori non sono da soli, con loro anche l’estrema destra. Dal Rasemblement National di Marine Le Pen, che durante l’ultimo raduno del suo partito ha definito la proposta come “completamente fuori luogo”, sostenendo che il diritto all’aborto non è minacciato in Francia, al movimento Reconquête di Eric Zemmour per cui questa legge sarebbe “una perdita di tempo, pericolosa e inutile”. Ma il vento soffia in un’altra direzione come dimostra un sondaggio di Ifop commissionato dal think tank della Fondation Jean-Jaurès. Otto francesi su dieci sono favorevoli ad autorizzare l’aborto per legge, l’83% della popolazione ritiene che il diritto vada ulteriormente protetto attraverso una garanzia costituzionale.
Tratto da ekuonews TERAMO – Abbiamo appreso dalla stampa che l’Istituto Agrario di Piano d’Accio ospiterà una Cappellania scolastica Diocesana e vi si faranno diversi incontri su tematiche riguardanti: ”La nuova questione di Dio”. Lo ha dichiarato con entusiasmo la dirigente scolastica dell’IIS Di Poppa – Rozzi. L’intento sarebbe quello di consentire ai ragazzi di “raccogliersi in preghiera” e di fare “incontri  e riflessioni sui temi a loro più cari”. Si tratta di una decisione che non condividiamo e che ci preoccupa molto. Per una serie di ragioni. Innanzitutto ricordiamo che le attività nella scuola vengono decise  nel Piano dell’Offerta Formativa, deliberato dal Collegio dei docenti ed adottato dal Consiglio d’istituto. Non dall’ufficio diocesano per la pastorale. Non c’è traccia di alcuna discussione in merito a tale questione negli organi collegiali di questa scuola. E’ mancato qualsiasi coinvolgimento degli studenti e delle studentesse per verificare, eventualmente, quali fossero i temi di riflessioni “a loro più cari”. Non è stato previsto alcun incarico al personale ausiliario della scuola, considerato che si usa uno spazio interno, né sono state  stabilite regole per il suo utilizzo.