17 Mar REDDITO DI CITTADINANZA E FALSI MITI
Tratto da Today di Daniele Tempera
Detto fatto. Dopo anni di polemiche alimentate da politici e media, rivelazioni quotidiane di truffe ai danni dello Stato, retorica sugli imprenditori che non trovano lavoro a causa di quello che la Premier ha definito “metadone di Stato”, il reddito di cittadinanza chiude i battenti, come annunciato in campagna elettorale dalla destra. Il governo Meloni ha dapprima annunciato lo stop definitivo a fine 2023, dall’altro ha prospettato il battesimo di una nuova misura chiamata “Mia”. Secondo anticipazioni la nuova misura dovrebbe presentare una stretta decisa agli assegni di sostegno e alla loro durata, la netta separazione tra “occupabili” e “non occupabili”, un’accelerazione sulla tipologia di lavoro definito “congruo” (leggi “non rifiutabile”), la predilezione dell’aiuto alle famiglie rispetto a quella riservata ai “single”. Ma cosa è stato il Reddito di Cittadinanza? Forse a quattro anni di distanza dal suo battesimo è ora di fare, dati alla mano, chiarezza su una delle misure più discusse della nostra storia politica.
Il falso mito dei giovani sul divano
Per aiutarci ad avere un’idea più precisa di chi, negli ultimi anni, lo ha percepito possiamo far ricorso ai dati Inps. La platea dei nuclei familiari che hanno usufruito del reddito di cittadinanza dal 2019 a oggi è cresciuta costantemente. Dal mezzo milione del 2019 si è passati all’oltre un milione di fine 2022, ma l’importo per famiglia è stato sempre di poco superiore ai 500 euro e sempre inferiore ai 600 euro.
A ottobre 2022 l’età media dei richiedenti inoltre si attestava sui 50 anni (49,4 per la precisione). Ciò non esclude che anche giovani abbiano richiesto il sussidio, ma lo strumento sembra adattarsi maggiormente a persone di mezza età escluse dal reinserimento lavorativo per ragioni anagrafiche e spesso formativo – professionali. Il mito dei giovani sul divano che preferiscono prendere il reddito di cittadinanza insomma, propagato da molti politici, sembra essere abbastanza distante dalla realtà.
Ma c’è un grafico speculare a quello mostrato sopra. Parte dal 2005 e copre tutte le aree del Paese.
È quello dell’aumento della povertà assoluta tra le famiglie italiane, numeri che, dal 2005 in poi, danno davvero i brividi. In Italia le famiglie povere passano meno di 20 anni dal 3.5% al 7.5%. Parliamo di 1,9 milione di nuclei. E al Sud la percentuale arriva addirittura al 10%. Un andamento figlio della crisi finanziaria e pandemica che hanno interessato l’Italia fino al 2021 e di un lavoro che aiuta sempre meno a sopravvivere. E la dinamica potrebbe addirittura peggiorare come ricorda Marco De Ponte, segretario nazionale di Action Aid: “Oggi aspettiamo purtroppo un altro aumento legato all’inflazione, che colpisce tutti, ma soprattutto le fasce più deboli e molti rischiano di scivolare nella trappola della povertà. Ovviamente non è una dinamica solo italiana, ma restando a casa nostra ogni famiglia dovrebbe pagare solo in bollette circa 1500 euro in più l’anno, quindi le previsioni non sono rosee”.
In questo contesto, soprattutto durante la pandemia, un sostegno al reddito, come quello di cittadinanza, è riuscito ad arginare una deriva abbastanza pericolosa. Secondo l’Istat nell’anno della pandemia (2020) sono stati un milione i cittadini e circa 500 mila le famiglie che non sono finite in povertà grazie a una misura da sempre nell’occhio del ciclone. Un pericolo sempre presente: secondo l’istituto Nazionale di Statistica un italiano su 4 è a rischio di povertà ed esclusione sociale, mentre il reddito delle famiglie italiane è calato del 6,2% dal 2007.
Sud e Reddito di Cittadinanza
In molti ricorderanno Giuseppe Conte a Palermo in piazza con i percettori del reddito di cittadinanza. La visita non era ovviamente casuale: è stato il Sud negli anni a fare ricorso, molto più che Nord e Centro, alla misura. Un’evidenza che sembra figlia della distribuzione del reddito, come si può facilmente vedere dal grafico sotto.
Lo studio è stato realizzato dal centro Studi Tagliacarne – Unioncamere che ha misurato la capacità di spesa delle famiglie italiane nel corso del 2021; parliamo del reddito al netto di imposte e contributi. Come si può facilmente osservare, la differenza tra Nord e Sud è considerevole. In particolare nel Mezzogiorno la capacità di spesa è risultata del 25% in meno rispetto a quella della media del resto d’Italia. Una famiglia media di Enna ha un reddito di quasi tre volte inferiore a una milanese. La conseguenza? Molte di queste famiglie sono in povertà e un’integrazione al reddito risulta spesso fondamentale per sbarcare il lunario, come si vede dai grafici sotto.
È in Campania che si trova la platea più ampia di percettori del reddito di cittadinanza. Nella fattispecie è la provincia di Napoli a detenere, nel 2021, il record per quanto riguarda l’incidenza dei percettori. Qui ben 202 cittadini ogni mille abitanti usufruiscono del reddito o della pensione di cittadinanza. Ma scorrendo la lista delle province si scopre che sono essenzialmente Campania, Sicilia e Calabria quelle dove questa forma di sussidio svolgono un ruolo fondamentale. Come rilevato da Eurostat, del resto, nel Mezzogiorno ci sono più disoccupati di lunga durata che nell’intera Germania.
Ma malgrado gli appunti della ministra Calderone, non è vero che sono i single “campato” col reddito di cittadinanza più delle famiglie. Secondo l’Inps sono state circa 1 milione 280 mila le persone con minori a carico che hanno usufruito del sussidio nel solo mese di settembre 2022. Ma il reddito di citttadinanza è sicuramente una misura che combatte l’esclusione anche nel caso dei single, una prerogativa che il Governo Meloni non vede di buon occhio e che vorrebbe cambiare.
Un cambio che avrà sicuramente delle conseguenze: “La ministra Calderone ha affermato che bisogna dare maggiore attenzione alle famiglie piuttosto che ai singoli individui – osserva il segretario nazionale di Action Aid De Ponte – a parte che è abbastanza discriminatorio e anti-costituzionale, ma ciò creerà esclusione sociale. Tra i beneficiari del reddito ci sono per esempio circa 200mila extracomunitari che verranno probabilmente messi ai margini, perché sono quelli generalmente ‘soli’ in Italia”. E che spesso, a pari di molti nostri connazionali, svolgono lavori marginali che vengono integrati con il reddito. Sì, perché spesso la funzione principale è quella di paracadute rispetto a un reddito familiare da fame. Perché va spiegato bene: non sempre il reddito di cittadinanza è in contrasto con il lavoro e non sempre il lavoro in Italia è sufficiente per vivere dignitosamente.
Quando il lavoro non basta
Sfatiamo un mito: non tutti quelli che percepiscono o hanno percepito il reddito di cittadinanza erano o sono formalmente disoccupati. Secondo l’Inps circa il 20% di chi percepisce il reddito di cittadinanza svolge un’attività lavorativa (compatibile con il mantenimento del sussidio), una percentuale che sale al 40% se il campo si allarga ai nuclei familiari. Ma lo stereotipo dei furbetti del reddito che lavorano e rubano i soldi dallo Stato e agli onesti lavoratori è, ancora una volta, molto lontana dalla realtà. La stragrande maggioranza degli occupati con reddito di cittadinanza svolge attività con competenze definite dall’Anpal, l’Agenzia per le politiche attive per il lavoro, come basse o medio basse. Metà di loro ha contratti a tempo determinato o atipici, la maggior parte (anche se non esistono stime in tal senso) ha probabilmente forme di contratti part-time. Per queste persone il reddito di cittadinanza costituisce quindi un’integrazione fondamentale al reddito per non scivolare in una condizione di povertà. Del resto, come si evince dal prossimo grafico, il dramma del lavoro povero è una costante del nostro assetto occupazionale.
Il 16,5% dei lavoratori italiani ha un reddito che non arriva a 5mila euro l’anno, mentre quello del 40% degli occupati non è superiore ai 15mila, una dinamica che alimenta il fenomeno delle famiglie (e dei minori) in povertà. In questi contesti la percezione di un’integrazione al reddito diventa fondamentale e potrebbe avere un effetto benefico sull’intera economia. A dispetto delle denunce di molti imprenditori, che hanno lamentato in questi anni la scarsità di lavoratori da impiegare nelle loro imprese a causa dei soldi elargiti con questa misura, l’Inps suggerisce che il reddito potrebbe avere avuto un ruolo anche nel permettere a molte persone di non accettare lavori con salari da fame, spingendo così in alto le retribuzioni medie.
Quello che sembra evidente è comunque che il patto sociale per molti lavoratori sembra ormai saltato. “Questi lavoratori sono scarsamente legati alle associazioni sindacali che, a loro volta, spesso si sono ‘sedute’ o hanno comunque avuto difficoltà ad approcciarsi ai precari e alle nuove condizioni di sfruttamento – sottolinea De Ponte – servirebbe un nuovo contratto sociale che si basi ad esempio su un salario minimo universale, un sistema che renda conveniente l’emersione del lavoro nero, delle misure concrete di sostegno al reddito e dei sistemi di controllo per fare rispettare le leggi ed evitare le fisiologiche truffe. È un sistema complesso che va costruito con una volontà politica e strutturale precisa” precisa il leader di Action Aid Italia. Ma in discussione sembra forse anche il modello di sviluppo: ovvero se puntare sull’innovazione e la produttività o sull’abbassamento sistematico del costo del lavoro.
Siamo sicuri che il problema siano le politiche attive?
Uno degli argomenti più utilizzati dai detrattori del Reddito è l’evidenza che non abbia funzionato per quanto riguarda le politiche attive. A tenere i fili c’è l’Anpal ovvero l’agenzia nazionale delle politiche del lavoro che ci fornisce dei bollettini periodici sulla misura.
Se guardiamo unicamente al periodo compreso tra gennaio e giugno 2022 sono stati quasi 115 mila cittadini a dichiarare di avere un lavoro, dopo essere “usciti” dal reddito di cittadinanza. Equivale a circa il 20% del totale di chi ha perso, per varie ragioni, il diritto al sussidio nello stesso periodo. Una percentuale sicuramente non esaltante, anche perché non abbiamo informazioni sul tipo di rapporto di lavoro attivato.
Ma i dati vanno letti per intero. La stragrande maggioranza dei sottoscrittori del reddito di cittadinanza (oltre il 72%) è pienamente occupabile, ovvero è tenuto a siglare un patto per il lavoro con il Centro per l’Impiego territoriale. E i problemi cominciano esattamente qui. In primis perché solo il 42.1% dei beneficiari viene realmente preso in carico dagli uffici competenti (si passa dal 65,5% del Nord Est ad appena il 38,9% del Sud). Una dinamica che mostra l’evidenza di investimenti molto scarsi nella riforma del tessuto di Agenzie nazionali per il Lavoro, un fatto che aveva portato l’ex premier Mario Draghi a ipotizzare il coinvolgimento delle agenzie interinali private nel campo delle politiche attive.
L’altro nodo, evidentemente ignorato, è la tipologia di lavoratori che si vuole ricollocare. Secondo l’Anpal appena il 13% dei percettori del reddito ha avuto un contratto (di qualsiasi tipo) nell’anno precedente e solo il 27% nei tre anni precedenti. La maggior parte, circa il 73% non ha di fatto mai lavorato negli ultimi tre anni e si trova in una situazione di esclusione strutturale dal mondo del lavoro. La stragrande maggioranza (più del 70%) ha solo un titolo di studio di secondaria inferiore.
Per risparmiare 2 miliardi l’anno
E anche in questo caso la differenza la fanno le risorse messe in campo, quelle che il Governo Meloni dice di voler tagliare. “Il reddito di cittadinanza non nasce dall’oggi al domani, ma è figlio di un dibattito presente da anni nella società civile che ha portato, per esempio, al varo del Sostegno all’inclusione attiva o al Reddito di Inclusione sociale. In entrambi i casi non parliamo solo di soldi da mettere in tasca, ma di progetti personalizzati che mirano a reinserire socialmente e professionalmente il cittadino. Quello che cambia è l’entità dell’intervento, si è passati da 1 miliardo e mezzo di euro l’anno ai sette e rotti del reddito di cittadinanza, si capisce che l’entità dell’intervento è nettamente diverso – sottolinea il Segretario Generale di Action Aid Marco De Ponte che aggiunge – Il punto è essenziale è il percorso. Le statistiche dicono che per cercare lavoro in Italia servono almeno 15 mesi. Per quello che sappiamo dalle indiscrezioni, la fruizione del reddito dovrebbe essere portata a sette mesi. Ci saranno quindi persone che continueranno a cadere nella trappola della povertà per risparmiare 2-3 miliardi l’anno. Il reddito di cittadinanza era magari dispendioso e sicuramente perfettibile, ma permetteva una continuità nel contrastare una condizione di fragilità che il Governo non sembra interessato ad affrontare”
La sforzo per trasformare uno strumento di sostegno al reddito in un mezzo di accesso al lavoro passerebbe insomma sull’investimento pubblico in formazione e riqualificazione costante e sul potenziamento effettivo dei centri per l’impiego, una misura che le nuove misure pronosticate dal Governo non sembrano contemplare, ma che esiste in tutti i Paesi occidentali. L’augurio è quello di un Welfare che si confronti finalmente con un mercato del lavoro radicalmente cambiato e con cittadini e lavoratori senza nessun tipo di paracadute. In attesa che qualcuno si accorga che il ‘900 è finito definitivamente, anche in Italia.
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