La differenziazione prevista in Costituzione e insita nell’autonomia non può non essere messa in stretta relazione con tutti gli altri principi fondamentali con cui la Costituzione segna in modo irrevocabile la nostra Repubblica, in particolare con quello di uguaglianza sostanziale, che chiama in causa il pieno sviluppo della personalità di ciascuno e l’effettiva partecipazione di tutti alla vita economica, politica e sociale del Paese. Stiamo parlando del collante che consente alla nostra Repubblica di essere una e di restare indivisibile, di rendere permanente il processo di unificazione nazionale tramite la lotta alle diseguaglianze tra persone, tra gruppi e tra territori. Il regionalismo, dunque, pur se basato sulla differenziazione, non può assolutamente trasformarsi in un moltiplicatore delle diseguaglianze, pena il venir meno dell’adempimento dei «doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale» di cui all’art. 2 della Costituzione. C’è bisogno, quindi, di un regionalismo ripensato e organizzato su base solidaristica in grado di ridurre sempre più le disuguaglianze territoriali e non già di “fughe in avanti” verso differenziazioni territoriali ulteriori che potrebbero irrimediabilmente compromettere l’unità del Paese. Una unità che già scricchiola pesantemente sotto il peso delle attuali differenziazioni territoriali. A partire dalla scuola.
La recente sentenza sul caso Berlusconi è l'ennesimo segnale di un grande problema che attraversa il nostro tempo, ovvero quello della confusione tra la dimensione sostanziale della Legge e quella formale delle regole. L'assoluzione di Berlusconi è stata resa possibile da un vizio formale che si è rivelato, secondo i giudici, sostanziale. In realtà, anziché porre fine ad una persecuzione, come sostengono i fedelissimi di Berlusconi, questa sentenza occulta di fatto la sproporzione profonda che intercorre tra il senso della Legge e l'applicazione delle regole.
Si tratta, ripeto, di una tendenza generale del nostro tempo che travalica decisamente il caso Berlusconi. Non è una valutazione giuridica, ma etica: il nostro tempo ha perso il significato più profondo del senso della Legge cercando di rimediarvi accentuando il valore e la moltiplicazione delle regole. L'appello alla necessità del rispetto delle regole rimbalza, infatti, dalla politica alla pedagogia, dalla filosofia morale alla vita sociale come un vero e proprio mantra dei nostri giorni, come una sorta di invocazione collettiva. In realtà, l'oblio più drammatico non riguarda tanto il rispetto delle regole, ma il senso della Legge. Se le regole non vengono rispettate è perché il senso della Legge non viene trasmesso con efficacia da una generazione all'altra. Da questo punto di vista il berlusconismo ha indubbiamente inaugurato un'epoca. Non solo piegando il senso della Legge ad interessi personali - vedi le cosiddette leggi ad personam -, ma facendo, ben più gravemente, dei propri interessi personali l'unica forma possibile della Legge.
Mancano pochi minuti alla mezzanotte quando Fernando varca il cancello per entrare nel carcere di Bollate, nell’hinterland milanese. Fernando ha 43 anni, e la sua giornata da detenuto semilibero l’ha trascorsa prima nell’agenzia dove lavora come videomaker, poi facendo qualche ora di volontariato, e infine andando a salutare la famiglia. Fino a poco tempo fa la sua quotidianità si concludeva rimanendo a casa a dormire con la compagna. Ora invece deve ritornare in carcere.
È passato un anno dall’inizio della guerra di aggressione della Russia all’Ucraina. C’è chi ha perso tanto, chi tutto. Molti non ci sono più. Le Nazioni Unite riportano – sono dati di gennaio 2023 – settemila civili uccisi e undicimila feriti. È sempre più evidente che l’esercito russo ha compiuto atrocità di massa contro i civili. Otto milioni di ucraini hanno lasciato il loro Paese: quasi una persona su cinque è dovuta fuggire. Il numero dei morti militari è incerto, si parla di 100 mila vittime, sia tra i russi sia tra gli ucraini. Ma anche la statistica è ormai una delle tante vittime della guerra.
Poi ci siamo noi, che siamo rimasti attoniti, spaesati e poco alla volta ci stiamo forse abituando alla guerra. Quella guerra che è arrivata sui nostri schermi, sulle prime pagine dei quotidiani e nei discorsi a tavola con amici e familiari. Abbiamo addomesticato la guerra: sono ormai pochi gli italiani che hanno vissuto direttamente i bombardamenti, la fame e il terrore di un conflitto armato.
Da Milano a Bari chi riceve il sostegno economico si mobilita per smentire lo stereotipo del fannullone e per aiutare chi fatica ad arrivare a fine mese.
Quale può essere la spiegazione per questa duplice involuzione? In breve: la diffusa percezione di impotenza della politica e di irrilevanza delle istituzioni.
Guardiamo ai risultati delle elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia come agli ultimi punti di una serie storica. La prima tendenza impressionante è l’astensione in inarrestabile aumento negli ultimi decenni. Un’astensione con un nettissimo segno di classe. A tal proposito, le analisi delle precedenti tornate elettorali, amministrative e politiche sono inequivocabili. In attesa della scomposizione sociale del voto del 12-13 febbraio scorso, ne troviamo chiara conferma nell’affluenza a Roma, dove la quota di votanti in ciascun Municipio è direttamente proporziale al reddito medio in esso registrato. In sostanza, la nostra democrazia diventa, di fatto, “censitaria”.
La vicenda che sta mettendo l’attuale presidente statunitense Joe Biden in seria difficoltà e che potrebbe pregiudicare la sua ricandidatura alle prossime elezioni presidenziali ricalca un’analoga vicenda molto recente al centro della quale c’è l’ex presidente americano Donald Trump, attualmente sotto inchiesta. Entrambi sono stati colti in flagrante violazione delle severe norme di sicurezza che prevedono che i documenti di interesse nazionale, classificati, cioè segreti, non possano uscire dal palazzo del Congresso e dagli uffici in cui sono custoditi. Trump ne aveva in gran quantità nella sua smisurata dimora di Palm Beach. A margine si può osservare che la suddetta dimora non è affatto un luogo dalla privacy gelosamente custodita, come si potrebbe credere. Infatti di questa specie di Disneyland miliardaria in riva al mare Trump, per salvare un po’ le spese, affitta parti ad altri ricconi al prezzo di 200.000 dollari all’anno, come un qualunque ragioniere di Albenga farebbe con la sua casetta.
Secondo l’ultimo comunicato di Palazzo Chigi, il Consiglio dei Ministri ha «definito il percorso tecnico e politico per arrivare, in una delle prossime sedute del consiglio dei ministri, all’approvazione preliminare del disegno di legge sull’autonomia differenziata». In questo modo è stato messo sui binari il treno che porterà all’approvazione dell’insano progetto dell’autonomia differenziata sulla base della proposta di “legge di attuazione” dell’art. 116, 3 comma Costituzione presentata dal ministro Calderoli. Grazie all’attivismo del ministro leghista, il dibattito sull’autonomia differenziata è uscito fuori dalla clandestinità ed è diventato di pubblico dominio. Per questo è importante chiarire all’opinione pubblica in cosa consista l’autonomia differenziata e quali sono i pericoli che si prospettano.
La decisione del governo Meloni di ricorrere allo spoils system (cambiamento dei vertici pubblici per ragioni di affinità politica) ricalca una prassi diffusa nelle democrazie occidentali, a cominciare dagli USA. Tuttavia dovrebbe essere salvaguardato il principio di imparzialità, mantenendo la valutazione oggettiva di capacità e competenze
Ha destato inevitabili polemiche l’intenzione del governo Meloni di procedere alla sostituzione dei massimi dirigenti delle amministrazioni pubbliche, e degli enti comunque partecipati dallo Stato, con nominativi di fiducia. Il sospetto è che si vogliano cambiare i responsabili delle più importanti strutture pubbliche per avere funzionari in linea con gli orientamenti della nuova compagine governativa e capaci di perseguirne gli obiettivi. Così facendo si otterrebbe che la burocrazia, mastodontica in Italia, non sia di ostacolo e assecondi il nuovo corso.
Una finalità dunque strumentale rispetto all’interesse partitico, a dispetto dell’esigenza di imparzialità ed indipendenza che dovrebbe ispirare l’azione amministrativa. Quando non anche determinata da intenti puramente clientelari, sistemare gli affiliati in posti di potere. Persino risarcire i trombati alle elezioni o dare consolazione agli esclusi dai primi incarichi. Le vicende degli ultimi decenni hanno mostrato, ha scritto allarmato Sabino Cassese, che «la fame di posti della politica si è rivolta alla pubblica amministrazione» (Corriere, 10.1.23).