Ikram, Saman, chi sarà la prossima ragazza italiana a cui toccherà?

Giovani italiani, molto più spesso italiane, muoiono o vanno in carcere perché non siamo in grado di tutelare i loro diritti. Quasi sempre c’è di mezzo la pretesa delle religioni di decidere sulle scelte della nostra vita condizionando le leggi civili.

Luigi Manconi, con questo articolo pubblicato su Repubblica ci chiede di rompere il silenzio su Ikram Nazhi.

Chi è Ikram Nazih e perché si parla così poco di lei? Ikram è una ragazza italiana di 23 anni, reclusa in una cella del carcere di Marrakech, in Marocco. La sua colpa: aver condiviso su Facebook, nel 2019, una vignetta che ironizzava su una sura del Corano, cancellata poco tempo dopo. Un umorismo tanto innocuo da apparire quasi infantile, ma ciò non ha impedito a un’associazione religiosa marocchina di denunciare Ikram per blasfemia.

La giovane, nata a Vimercate da genitori marocchini, si è nel frattempo trasferita a Marsiglia per frequentare la facoltà di Giurisprudenza di quella università. Il 20 giugno scorso, recatasi in Marocco per visitare i parenti, viene arrestata, tradotta in carcere e condannata a una pena di tre anni e sei mesi. La fiducia in un possibile provvedimento di grazia, in occasione della Festa del Sacrificio, risulta delusa: centinaia di detenuti vengono liberati, ma non lei. E il fatto di essere titolare di doppia cittadinanza (italiana e marocchina) si rivela, paradossalmente, una complicazione.

La Convenzione dell’Aja del 1930 prevede che, in caso di doppio passaporto, uno Stato non possa attivare la protezione diplomatica contro l’altro Stato. Pertanto, si deve procedere esclusivamente per via negoziale. E speriamo che così si stia facendo e che il silenzio pressoché totale intorno alla sorte di Ikram sia dovuto a un intenso lavorio diplomatico e politico, che richiede, comprensibilmente, la massima riservatezza. Anche se vicende ancora più atroci (quale l’assassinio di Luca Ventre per mano di un poliziotto uruguaiano all’interno dell’Ambasciata italiana di Montevideo, il 1 gennaio del 2021) rivelano come la Farnesina non sia sempre particolarmente sollecita nel tutelare gli italiani all’estero.

Ma la storia di Ikram ci parla anche di altro, di molto altro. La ragazza appartiene a quella popolazione di 2 milioni e 700 mila musulmani residenti nel nostro Paese, tra italiani convertiti (circa 70 mila), stranieri naturalizzati e stranieri regolari. In particolare, si stima in circa 800 mila il numero dei giovani (fino ai 25 anni) che, in grandissima parte, presentano un livello assai avanzato di integrazione (il termine è quello che è, ma non se ne conoscono di migliori) e di inclusione nel sistema dei diritti di cittadinanza. Frequentano le nostre scuole e le nostre università, manifestano stili di vita e preferenze nei costumi e nei consumi in tutto simili a quelli dei loro coetanei autoctoni, flirtano con i correligionari non più spesso di quanto facciano i veneti e i sardi con i corregionali.

Infine, un significativo dato politico: sono alcune dozzine (in prevalenza donne) gli eletti nei consigli comunali. Detto ciò, non tutto fila liscio. Si può intravedere, all’interno di quella popolazione di musulmani, una sorta di “lotta di classe” su base generazionale, che ha per posta in gioco la piena emancipazione dal pesante retaggio che grava tuttora sull’Islam italiano a causa delle persistenti interpretazioni fondamentaliste e integraliste del Corano. Lo si era notato già nel caso della ragazza pachistana, Saman Abbas, presumibilmente uccisa dai familiari per essersi sottratta a un matrimonio forzato. E lo si scorge ora, appunto, nella reticenza e, in qualche caso, nella connivenza che circonda la condanna di Ikram. Davide Piccardo, italiano convertito e leader di una componente dell’associazionismo islamico, ha definito “scriteriata” l’italo-marocchina e, pur chiedendo che le venga concessa la grazia, si è augurato che “faccia tawba“: si penta, cioè.

Sembra configurarsi un caso di “doppia lealtà”: il formale rispetto per lo Stato italiano e le sue leggi e una qualche sensibilità per il destino di Ikram, ma, assai più forte, il vincolo di sudditanza verso la superiorità etica della legge coranica. È una posizione inaccettabile, fondata su una concezione teocratica dell’ordinamento giuridico. E tale concezione sembra confermare l’ambiguità di quella diffusa opinione che considera l’assassinio di Saman un ennesimo femminicidio; e afferma che “l’Islam non c’entra”. Un grave errore. È vero, piuttosto, che nella decisione di sopprimere Saman è stato determinante l’incontro tra una cultura patriarcale dai tratti arcaici e tribali e una interpretazione regressiva e oscurantista dell’Islam. Ed è proprio quest’ultima che fa della religione non una libera professione di fede e di rapporto con la trascendenza, bensì un apparato autoritario e oppressivo.

È contro tutto questo, rappresentato in genere dalle fasce più anziane (provenienti in particolare da Paesi come il Pakistan), ma presente anche in settori di giovani, che è in corso quella particolare “lotta di classe”. Dobbiamo seguire questo doloroso processo con attenzione e rispetto e favorire il percorso di costruzione, a opera di centinaia di migliaia di giovani, di un Islam italiano capace di convivere con lo Stato di diritto, senza mai metterne in discussione alcun principio o regola.

Le istituzioni e la politica possono fare molto. Riconoscere lo “Ius soli sportivo”, come richiesto dal presidente del Coni Giovanni Malagò, dovrebbe essere giusto una formalità, e solo lo sciovinismo più autolesionista e il caldo più torrido possono indurre a considerarlo un atto sovversivo. Al tempo stesso, la riforma della legge sulla cittadinanza, risalente a quando gli stranieri in Italia erano appena mezzo milione, non è solo un’urgenza giuridica e, direi, morale: è una questione di elementare buon senso.

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