La scuola non può imporre la religione: la laicità è un diritto acquisito

Tratto da ilriformista, di Giulia Milanese

Caro Riformista, vogliate accogliere questa mia, che, a partire da un’esperienza personale, ha l’illusione di porsi come una riflessione di più ampio respiro sulle sorti della laicità all’interno della nostra scuola pubblica. Parto dai fatti: i miei figli, 3 e 7 anni, frequentano una scuola statale napoletana, il primo all’infanzia, la seconda alla primaria, e per entrambi ho scelto la strada dell’esonerodall’Insegnamento della Religione Cattolica.

A prescindere dalle mie personali idee sulla religione, sono persuasa che a questa età, nella quale i bambini ancora non hanno definito i confini di cosa sia reale e cosa no, né possiedono gli strumenti critici per affrontarli, trattare questi temi sfoci irrimediabilmente nell’indottrinamento. Per mia (e non solo mia) fortuna, come ha precisato la Corte costituzionale con la sentenza 203 dell’11 aprile 1989, il principio di laicità rappresenta un principio «supremo» all’interno della scuola pubblica: una scuola plurale, di tutti e per tutti, che riconosce l’eguaglianza delle confessioni religiose, senza concedere particolari privilegi o riconoscimento ad alcuna di esse.

Alla prova dei fatti, purtroppo, le cose stanno diversamente. Mia figlia, solamente dopo mia segnalazione, è riuscita ad ottenere di non dover rimanere in classe, intrattenuta in altre attività, mentre tutti i suoi compagni erano impegnati nell’ora di religione. Solo oggi, invece, scopro che a scuola del piccolo ogni giorno, prima della merenda, c’è il momento della preghiera, con tanto di segno della croce. Una scoperta casuale, dovuta ad una maestra che mi ha chiesto di poter allontanare dall’aula mio figlio, in quanto esonerato, per permettere a tutti gli altri di pregare. Vorrei chiarire e ribadire che, seppur per molta gente sia considerato normale che nella scuola, soprattutto all’infanzia e al primo ciclo, si svolgano atti di culto (come preghiere, cerimonie e benedizioni), in realtà la legge non lo consente.

Due sentenze degli anni Novanta del TAR dell’Emilia Romagna del TAR del Veneto hanno accolto due ricorsi relativi a celebrazioni di cerimonie religiose durante l’orario scolastico. L’allora Ministro per la Pubblica Istruzione, Giancarlo Lombardi, commentandole, disse: “la materia in oggetto è stata esaminata in sede giurisdizionale e i TAR hanno avuto modo di affermare il principio che la laicità dello Stato porta ad escludere che pratiche religiose ed atti di culto possano aver luogo nei periodi destinati allo svolgimento delle normali lezioni”. Le sentenze, dunque, sono valide a tutti gli effetti.

Non starò a raccontarvi che ovviamente ho già messo in moto tutto quanto in mio potere per mettere fine a questa violazione, però vorrei esprimervi, in questa sede, il rammarico e l’amarezza di dover agire, per l’ennesima volta, a tutela di un diritto acquisito e completamente ignorato. Laicità all’italiana, mi verrebbe da commentare. Ma la laicità è un principio supremo che dovrebbe accomunare credenti e non credenti, allo scopo comune di perseguire una convivenza civile, a prescindere dalle diverse connotazioni di ciascuno, in materia religiosa, razziale, linguistica, etnica, di sesso e di orientamento sessuale.

Ognuna di queste scelte, compresa quella religiosa di cui qui vogliamo parlare, è una scelta intima, che attiene al singolo individuo, ed è necessario che uno Stato democratico e laico, così come le sue Istituzioni, si batta per preservare (e valorizzare) questo pluralismo. Come ebbe a scrivere il critico e saggista Claudio Magris: “laicità significa tolleranza, dubbio rivolto pure alle proprie certezze, autoironia, demistificazione di tutti gli idoli, anche dei propri; capacità di credere fortemente in alcuni valori, sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili.”

 

 

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