Gli attivisti ambientali di ultima generazione e l’emergenza climatica

Tratto da MicroMega di Alessio Salviato

Le proteste servono a convincerci che l’unico modo che abbiamo per risolvere il problema è agire tutti e subito. Perché soffermarsi sul dito mentre gli attivisti ci indicano la luna?

Negli ultimi mesi abbiamo visto decine di attivisti ambientali lanciare vernice fresca contro i quadri esposti nei musei, bloccare le strade romane, impedire la partenza dei jet privati. Alcune settimane fa gli attivisti di “ultima generazione” hanno colpito anche la facciata del Teatro alla Scala. Di fronte a questi atti, la reazione di dissenso e condanna da parte della società civile sembra unanime – basta leggere qualche commento nei social network per cogliere la rabbia collettiva. Qualche forma di sostegno l’hanno ricevuta solo gli attivisti di Linate, complice il recente dibattito sull’inquinamento dei jet privati, rei di consumare in quattro ore l’equivalente di un cittadino medio in un anno.

Ma immaginiamo di trovarci bloccati nel traffico mentre andiamo al lavoro o di dover ripulire le pareti che proteggono i quadri. Perché gli attivisti se la prendono con noi? Sarà mica Van Gogh responsabile del cambiamento climatico? Il primo argomento cui si appellano i detrattori di questa tipologia di attivismo è l’argomento del danno ingiusto: gli attivisti stanno colpendo le persone sbagliate, perché non solo non siamo noi cittadini i responsabili primari del cambiamento climatico ma spesso condividiamo le medesime istanze ambientaliste degli attivisti. Il secondo argomento è l’argomento dell’inefficacia: gli attivisti si starebbero impegnando in azioni totalmente inefficaci rispetto allo scopo ultimo. Non sembra infatti esserci alcuna correlazione causale tra l’azione ‘sporcare un quadro’ o l’azione ‘bloccare il traffico’ e il fine ‘combattere il cambiamento climatico’. Anzi, qualcuno precisa che bloccare il traffico per un lungo periodo generi un aumento delle emissioni di idrocarburi maggiore rispetto all’ordinario fluire delle auto.

Gli argomenti del danno ingiusto e dell’inefficacia vanno però riconsiderati alla luce della funzione – o meglio delle funzioni – di questo tipo di attivismo. La prima funzione è disturbante: la violenza del gesto è pensata per farci innervosire, scuoterci, scandalizzarci. Serve a interrompere violentemente l’ordinare e prevedibile fluire delle cose. La seconda funzione è catalizzatrice: gli attivisti vogliono attirare l’attenzione su di sé, vogliono che se ne parli, che la notizia passi nei giornali e nelle televisioni. Ci urlano “ehi siamo qua, guardaci e ascoltaci”. Una volta che ci hanno disturbato e catalizzato, queste proteste realizzano la loro funzione comunicativa. Ci comunicano che abbiamo un problema, ed è più grave di quanto possiamo immaginare, perché se non invertiamo subito la rotta il cambiamento climatico ci costringerà ad una lotta alla sopravvivenza.

A questo punto ci si potrebbe chiedere se tutto questo sia legittimo e giustificato. D’altra parte, si potrebbe obiettare che ci sono modi più convenzionali per sensibilizzarci sul cambiamento climatico: potremmo pubblicare grafici sull’aumento delle temperature, diffondere dati sull’estinzione delle api, impressionare con immagini di alluvioni e altre tragedie naturali. Ma non è forse quello che già stiamo facendo? Il problema è che, nonostante da anni tutte queste informazioni siano alla portata di tutti – e generano in noi rabbia, preoccupazione, risentimento – continuiamo a vivere come se nulla stesse accadendo. E quando gli incentivi tradizionali non funzionano, bisogna inventarsi un altro modo.  La violenza del gesto è una risorsa tutta umana per costringerci all’azione, come quando un amico non ci ascolta e allora lo scuotiamo per le spalle e gli diciamo: “ma mi vuoi sentire o no?”. Gli attivisti ci stanno prendendo per le orecchie, e certo ci dà fastidio, ma è forse l’unico modo per svegliarci dall’inanità.

Riconsideriamo ora gli argomenti del danno ingiusto e dell’inefficacia. Il danno sembra ingiusto perché sembra colpire persone innocenti: ma siamo davvero innocenti? È vero che nessuno di noi ha contribuito direttamente (nè aveva intenzione di farlo) al cambiamento climatico, per cui nessuno di noi – preso singolarmente – dovrebbe essere considerato moralmente responsabile. Il cambiamento climatico è piuttosto l’esito dell’azione collettiva di tutti gli agenti entro il sistema capitalistico, il quale è intrinsecamente strutturato per generare queste conseguenze disastrose. Per Nancy Fraser, infatti, dovremmo guardare al capitalismo come un soggetto cannibale che consuma voracemente tutto quello che lo nutre, in primis l’ambiente naturale (1). Ma se nessuno è responsabile, significa che lo siamo tutti, ma in misura indiretta. Ognuno di noi è complice di aver contribuito, anche fosse in minima parte, a generare e perpetuare quel sistema capitalistico che ha creato il problema. Imprese e governi sono certamente più responsabili di noi cittadini, ma queste istituzioni non fanno altro che rispondere alle preferenze (di consumo o politiche) dei singoli individui. John Mill la definiva la “sovranità dei consumatori”: le imprese producono quello che i consumatori chiedono loro di produrre – nulla più, nulla meno.

In secondo luogo, è davvero inefficace la loro protesta? Non lo è nella misura in cui ci rendiamo conto che l’unico modo per risolvere il cambiamento climatico è modificare il sistema che l’ha generato, cioè il capitalismo. E per trasformare strutturalmente il sistema serve il contributo di tutti. Quello che implicitamente gli attivisti ci stanno comunicando è che nessuno di loro – preso singolarmente – ha il potere di invertire la rotta. Allo scienziato che nel video (2) pubblicato da Repubblica invita gli attivisti a lavorare con lui, risponderebbero che non c’è nulla che ciascuno di loro possa fare, dentro un laboratorio o nelle aule di un Parlamento.

Il punto è che nessuno degli agenti all’interno della società capitalistica detiene una quota di potere così significativamente trasformativa da poter risolvere il problema. Nessuna impresa, nessun governo, nessuna alleanza di istituzioni – anche se lo desiderassero con le più oneste intenzioni. Se così non fosse, assumendo che gli attivisti siano agenti razionali, sceglierebbero di aiutarci a combattere il cambiamento climatico in sedi più opportune. Questo significa che la nostra responsabilità non si esaurisce nelle azioni sostenibili di cui sentiamo parlare sempre più spesso: ciò che ci viene richiesto è di impegnarci a riformare strutturalmente il sistema capitalistico in modo che non generi più queste conseguenze. La nostra responsabilità deve essere diretta sia verso il cambiamento climatico sia verso il sistema collettivo.

Facciamo un esempio pratico. Un’azione trasformativa del sistema capitalistico può essere banalmente quella di togliere il “follow” agli influencer che promuovono modelli iper-consumistici e insostenibili.  Con un “click” non sto contribuendo direttamente alla lotta climatica, ma sto contribuendo a togliere legittimità a persone che perpetuano le logiche consumistiche di quel sistema che ha generato il cambiamento climatico. Per poter azzerare il seguito di questi ambasciatori del capitalismo cannibale, tuttavia, bisogna che tutti facciano la loro parte. Come sostiene Yris Marion Young (3), infatti, possiamo affrontare i problemi del nostro tempo solo se ci comprendiamo e agiamo in concerto, consapevoli che ciascuno di noi ha una maggiore o minore responsabilità a seconda della propria connessione col sistema capitalistico, del proprio potere di influenzarlo, dei propri interessi agli affari del sistema e dei privilegi che deriviamo dal farne parte.

Appare ora chiaramente l’efficacia delle proteste: servono a convincerci che l’unico modo che abbiamo per risolvere il problema è agire tutti e subito, e per spingerci a farlo può essere strategico disturbare la nostra vita quotidiana al punto dal renderla intollerabile. A quel punto avremo due opzioni: o iniziamo a perseguitare gli attivisti, eradicandoli dalla società, oppure cominciamo ad agire per il cambiamento, prendendo seriamente l’invito di quell’attivista seduto sull’asfalto di una strada romana quando ci dice: perché vi soffermate sul dito mentre noi vi indichiamo la luna?

No Comments

Sorry, the comment form is closed at this time.