03 Mar ELLY SCHLEIN VISTA DA VICINO
Tratto da Domani di Elly Schlein
Quantə di noi vengono da storie e provenienze che si intrecciano fra diverse città, Paesi e continenti? Il frutto di possibilità offerte e non negate, di partenze scelte oppure forzate, di incontri casuali, di fiori che spaccano l’asfalto, di sinergie lasciate libere di crearsi e non soffocate. Di come avrebbe potuto essere ma non è stato, di come invece poi è stato, nonostante tutto. Così è anche la storia della mia famiglia.
Sono figlia di madre italiana, di Siena, e padre americano; nata e cresciuta in Svizzera da «straniera». Nipote di un nonno e una nonna paterni entrambi emigrati. Mio nonno si chiamava Herschel Schleyen, nato nel 1892 a Zolkiew (oggi Žovkva), una piccola città poco distante da Leopoli. All’epoca in cui mio nonno la lasciò era ancora sotto l’Impero austro-ungarico, mentre oggi si trova in Ucraina. Conta poco più di diecimila abitanti, ma ha una sua storia importante.
Quando mio nonno partì, l’ascesa del nazismo era ancora lontana, ma l’antisemitismo era già molto diffuso: gli ebrei venivano diffamati, esiliati, uccisi. Un fratello e una sorella l’avevano già preceduto emigrando negli Stati Uniti all’inizio del Novecento, e mio nonno deve aver deciso di seguirli per provare a dare un futuro migliore a sé e alla famiglia che sperava di costruire.
Secondo i documenti che abbiamo potuto rintracciare in vecchi archivi e catasti di New York, arrivò tra il 1911 e il 1914 a Ellis Island, dove, come usava, gli cambiarono il nome: diventò Harry Schlein. Sul documento che registra il suo ingresso c’è scritto che lavorava come sarto, quindi probabilmente questo è il mestiere che ha svolto finché è vissuto a New York. Dopo qualche tempo si sposò con mia nonna, Ethel Fox, la cui famiglia era emigrata nel 1907 dalla Lituania, e si trasferirono nel New Jersey, dove aprirono prima un piccolo negozio di gelati, caramelle e giornali, poi di vestiti.
A Elizabeth sono nati e cresciuti i loro figli Herbert e Melvin, mio padre. Non ho purtroppo mai conosciuto mio nonno e mia nonna paterni, lui è morto quando mio padre non aveva ancora vent’anni, lei prima della mia nascita. Ne conosco l’aspetto grazie alle poche fotografie rimaste, la postura elegante e rigorosa, il volto buono. So che il nonno lavorava tantissimo, dall’alba fino all’ora di cena. Tornava a casa stanco come può esserlo chi sceglie ogni giorno il sacrificio per offrire ai suoi figli le possibilità che non ha avuto, a costo di non vederli crescere.
In casa non si parlava di ciò che si era lasciato indietro, ma con i numerosi fratelli, sorelle e nipoti che erano rimasti a Leopoli, nel frattempo annessa alla Polonia, il nonno intratteneva un folto scambio epistolare. Fino a quando la situazione si è fatta drammatica, come testimonia una delle lettere che abbiamo rinvenuto e conservato.
Era di un suo giovane nipote, Marek, preoccupato per il clima sempre più ostile agli ebrei e per le prime leggi razziali. In quella lettera, scritta in inglese quasi perfetto, si capisce che il nonno e la nonna lo stavano aiutando a emigrare.
Cara zia e caro zio,
grazie molte per le vostre lettere e il gentile invito. La notizia della vostra decisione di aiutarmi ad arrivare in America mi dà grande gioia, perché la mia posizione in Polonia è veramente pessima. Come sapete in questi cinque anni ho lavorato in uno studio legale e, quando stavo per diventare avvocato, il governo ha chiuso gli albi e per questo è ormai impossibile per un ebreo diventare avvocato. È molto difficile, se non praticamente impossibile, ottenere qualsiasi altro impiego.
La situazione peggiora di giorno in giorno. Tutti coloro con cui parlo stanno pensando di emigrare da qui e trovare un posto qualsiasi nel mondo dove poter vivere più tranquillamente, senza la minaccia permanente della guerra e le quotidiane dimostrazioni antisemite. Persino persone che hanno lavori ben pagati ora sono alla ricerca di amici o parenti in tutte le parti del mondo, tramite cui ottenere un affidavit o un permesso di immigrazione. Le onde antisemite in Polonia stanno crescendo così rapidamente che non siamo in grado di prevedere cosa succederà domani. Qualsiasi lavoro, anche il migliore, per un ebreo non è altro che un sogno illusorio che potrebbe svanire domani.
Tutto questo mi ha indotto a pensare di lasciare la Polonia e di costruire il mio futuro in un altro Paese. Ma l’emigrazione dalla Polonia è molto difficile perché noi, ebrei polacchi, non siamo graditi nel mondo. Perciò vi sono molto grato che mi stiate rendendo possibile andarmene via da qui. Per quanto riguarda il mio futuro in America, al momento non so cosa farò una volta là. Sto imparando alcuni mestieri pratici, e ottenendo alcune raccomandazioni, credo che in qualche modo me la caverò.
Altrimenti, in America le porte dell’intero mondo saranno aperte per me e potrei andare più lontano, il che è impossibile dalla Polonia. Nel frattempo, la cosa più importante è ottenere un affidavit. Poi vedremo. Cara zia, ti prego di informarmi su quali documenti hai mandato al consolato degli Stati Uniti d’America a Varsavia e ti prego di mandarmene copia il più presto possibile, perché ne ho davvero bisogno. Da ultimo vi mando il mio nome e la data di nascita per evitare errori e problemi inutili: Marek Schlajen, 09/01/1911. Vi mando tanto amore dalla mia famiglia e da me.
Vostro, Marek
Purtroppo Marek non è mai arrivato. La lettera ingiallita dal tempo è della fine del 1938. L’anno seguente Hitler diede avvio all’invasione della Polonia, poi seguita dall’occupazione sovietica per effetto del patto Molotov-Ribbentrop. Così iniziò la seconda guerra mondiale, che interruppe ogni contatto del nonno con tutta la sua famiglia, di cui non abbiamo mai più avuto notizie.
Per quanto tempo, quanti anni, avrà provato a rintracciarli, dopo che erano stati spazzati via dall’orrore nazifascista? Tutto ciò che è rimasto sono lettere e cartoline, una manciata di fotografie in bianco e nero, con i volti espressivi e bellissimi di bambini che non sono mai cresciuti, i cugini di mio padre.
In Galizia, regione tra i Carpazi e la Vistola dove viveva una vasta comunità ebraica, si è scritta una delle pagine più atroci ed efferate dell’orrore dell’Olocausto. I nazisti organizzarono con la collaborazione dei nazionalisti ucraini dei pogrom massicci, di una violenza che non si può immaginare: ammazzavano anche 30.000 persone al giorno.
Decine di migliaia di ebrei furono rinchiusi nel ghetto di Leopoli, deportati al campo di concentramento di Janowska nell’immediata periferia della città oppure fucilati alla cava di argilla e sabbia nel bosco. A Leopoli morirono oltre 130.000 ebrei. Non riesco nemmeno a immaginare il dolore di mio nonno, cosa significhi perdere da un giorno all’altro le tracce di fratelli, sorelle e nipoti, se sia arrivato mai il momento in cui la speranza di ricevere una lettera abbia lasciato spazio alla consapevolezza di quel che poteva essere accaduto. Senza sapere mai.
E allora la sua partenza e le fatiche profuse nel lavoro per i figli assumono un significato ancor più forte. Mio padre ha potuto studiare in un Paese libero, ha avuto l’opportunità, con tanto impegno e dedizione, di costruirsi un futuro migliore. È così che è diventato professore universitario, ma se penso all’origine di quel forte senso del dovere e della responsabilità, della dedizione al lavoro che ci ha trasmesso, credo che le radici risiedano in quel che ha passato mio nonno.
Quando gli si è presentata l’opportunità di continuare i suoi studi in Europa, dopo la laurea negli Stati Uniti, mio padre l’ha colta ed è tornato. Ha fatto tappa in Austria, in Germania e in Italia, al Bologna Center of the School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University. Negli anni Settanta a un convegno sul federalismo ha conosciuto mia madre, Maria Paola Viviani, che già insegnava all’Università di Milano.
Dopo il matrimonio, per un’opportunità di lavoro si sono trasferiti a Lugano, dove hanno avuto tre figli: mio fratello Benjamin, mia sorella Susanna e me. Mia madre faceva quotidianamente la pendolare con Milano, dove insegnava Diritto costituzionale e pubblico comparato. A me ha insegnato molto di più, ma una cosa su tutte: provare a mettersi sempre nei panni dell’altro, anche in mezzo a una discussione. Provare a vedere le cose dal punto di vista di chi non la pensa come te.
Suo padre, Agostino Viviani, era l’unico laico e socialista in una bella e numerosa famiglia cattolica. Si laureò in Giurisprudenza a Siena nel 1933, unico studente a non essere iscritto ai Gruppi universitari fascisti e unico, nel giorno della laurea, a non indossare la camicia nera. Nel 1937 vinse il concorso per diventare procuratore legale. L’anno successivo vennero promulgate le leggi razziali, eppure lui continuò a difendere gli ebrei in tribunale.
Questa scelta aveva un prezzo: forti pressioni e insulti, una volta fu persino preso a sputi per strada. I vertici del Partito nazionale fascista lo diffidarono in più di un’occasione. Accadde, per esempio, quando assunse la difesa di un commerciante ebreo della città. Il nonno ignorò la diffida, si presentò comunque in tribunale ed esordì convinto: «Oggi non difendo il cliente, ma l’amico».
Durante la guerra, come tanti, si rifugiò con la famiglia nelle campagne per sfuggire ai bombardamenti. Aveva già sposato mia nonna, Elena Giraldi, con cui ebbe due figli, Mario e mia madre Maria Paola. Collaborava con la Resistenza: avvisava le famiglie ebree dei rastrellamenti imminenti, nel tentativo di sottrarle alla deportazione.
Nel 1943, grazie a una soffiata arrivata di notte, sfuggì a un tentativo di cattura dei fascisti: nel letto ancora caldo la nonna infilò i figli piccoli, mentre il nonno scappava da un passaggio segreto verso i campi. Nei giorni successivi i fascisti, per farlo costituire, arrestarono suo padre e alcuni suoi fratelli, che però vennero rilasciati nel giro di pochi giorni, solo grazie all’intercessione dell’arcivescovo.
Mio nonno nel frattempo riparò a Firenze, dove molto dopo lo raggiunse il resto della famiglia, tra le fatiche di nonna Elena di procurarsi cibo e quanto occorreva per vivere insieme ai due bambini, vendendo ogni cosa per non far loro mancare il pane e un po’ di frutta. Nel 1945, avuta notizia della Liberazione, l’intera famiglia fece ritorno nel senese.
Erano in tanti e avevano una sola bicicletta, che usava chi di volta in volta fungeva da vedetta e andava in avanscoperta per verificare che la strada fosse libera da insidie, mentre gli altri seguivano a piedi. Dopo la guerra il nonno fu tra i fondatori del Partito socialista del lavoro e fece parte della Consulta nazionale, insieme a Lelio Basso lavorò ad alcuni dei processi che segnarono la storia, come quello per i fatti di Abbadia San Salvatore e dei morti del 7 luglio 1960 di Reggio Emilia.
Quello politico fu un approdo naturale per lui, che non tollerava le ingiustizie e amava sostenere anche le cause più difficili, che altri direbbero perse. Fu presidente della commissione Giustizia del Senato, relatore della riforma del Diritto di famiglia del 1975 (che riconobbe diritti paritari ai coniugi e ai figli naturali avuti fuori dal matrimonio). Contribuì alla riforma penitenziaria e del codice penale, alla battaglia per la legalizzazione dell’aborto e a quella per la responsabilità civile dei magistrati.
In pessimi rapporti con Bettino Craxi, all’inizio degli anni Ottanta lasciò il Psi, militò nei Radicali, e poi concluse la sua carriera nel Consiglio superiore della Magistratura, del quale fece parte fino al 1998 come membro laico, arringando in modo appassionato tutta la vita per una giustizia giusta.
Due famiglie così diverse, quelle di mia madre e di mio padre, così lontane, eppure intrecciate dai grandi sconvolgimenti del secolo scorso e dagli incontri casuali, dai sacrifici fatti per assicurare un futuro migliore ai propri figli. Mio padre è americano, ma è uno dei più convinti europeisti che conosca. Forse perché la storia di questa nostra famiglia ricorda il motivo per cui si è fatta l’Unione europea. Per provare a costruire un futuro di pace in un continente che si è sempre fatto la guerra, per provare a condividere le risorse anziché litigarsele, per puntellare le fragili democrazie e porre fine agli orrori provocati dai nazionalismi e dai regimi autoritari.
Queste storie sono la fonte di silenzi e dolori che non conoscerò mai fino in fondo, e che però so aver segnato e formato le persone che amo, quindi anche me. Sono nata nel 1985, quando già esisteva il primo nucleo della grande Unione che conosciamo oggi, nell’unico Paese che non ne faceva parte, pur essendo geograficamente il suo cuore: la Svizzera.
Ho vissuto a Lugano fino a quando, diciottenne, mi sono trasferita a Bologna per frequentare l’università. Sono quindi cresciuta in un Paese in cui l’alta percentuale di stranieri presenti nella popolazione sin dagli anni Venti del secolo scorso non è bastata a evitare che si radicasse il seme del pregiudizio contro gli immigrati, che dà ancora oggi i suoi frutti avvelenati. Eppure, nonostante le battute di qualche compagno di classe facessero male, sono convinta che proprio l’esperienza di crescere in scuole che negli anni Novanta accoglievano i figli degli immigrati spagnoli, portoghesi o in fuga dalle guerre nei Balcani sia stata quella che più mi ha insegnato come tuttə siamo simili nelle nostre diversità, e dobbiamo essere eguali nei diritti e nelle opportunità. Dalle scuole, dalla crescita insieme, infatti, viene la più forte e concreta speranza per una maggiore inclusione sociale.
Mi hanno sempre chiamata Elly, un diminutivo che usavamo in famiglia, ma in realtà mi chiamo Elena Ethel, perché porto con orgoglio i due nomi delle nonne che non ho mai conosciuto. Sono anche io la somma di storie e appartenenze diverse e incompiute, e questo mi ha segnata. In parte ti mette alla ricerca costante di un modo per completarle, ma al contempo ti fa sentire di appartenere a qualcosa di più grande, ti fa sentire che cosa vuol dire essere cittadina europea e del mondo.
Per tantə giovani, in Italia e all’estero, non è così. Per chi nasce e cresce in un Paese che non lo riconosce. Per chi viene respinto. O per chi, non potendo ricordare qualcosa che non ha vissuto in prima persona e che non ha vissuto nessuno che conosce da vicino, ha bisogno di memoria, di musei, di libri, di testimonianze. Non sempre, però, ne trova.
A Leopoli, dove sono stata nell’autunno del 2018 insieme ai miei genitori per cercare tracce della famiglia di mio padre, senza purtroppo riuscire a trovarne, sembra che i pogrom non ci siano mai stati. La grande sinagoga di Zolkiew è miracolosamente ancora in piedi, imponente e bella, ferita e vuota, sfregiata, i muri densi e freddi che hanno visto e assorbito il male del mondo. Il silenzio rimbomba, lì dentro, fa un rumore sordo come la rimozione dell’accaduto.
A Leopoli non c’è un museo, non c’è un’indicazione sulla mappa per raggiungere quello che è stato il campo di concentramento dove i nazisti costringevano una piccola orchestra di ebrei a suonare, mentre ne venivano uccisi a migliaia. Come faranno le nuove generazioni a evitare i tragici errori del passato recente, se nessuno si preoccupa di tenerne viva la memoria?
Il nazifascismo è stato sconfitto, ma la minaccia del suo rigurgito non è mai sopita. E non è solo quella diretta, di chi ancora oggi nega, di chi ancora oggi esalta, di chi ancora oggi ha nostalgia di quel regime liberticida e assassino, ma anche quella indiretta. Fa bene l’Anpi a insistere che le organizzazioni neofasciste vengano sciolte, come chiede la Costituzione. C’è ancora tanto bisogno di antifascismo. Perché quell’ideologia cambia pelle e prova a tornare, e trae linfa vitale ogni volta che incontra l’indifferenza davanti alle ingiustizie. Ogni volta che qualcuno tace davanti a un insulto, una violenza, una prevaricazione, una discriminazione.
Mi spaventa assistere al riaffiorare ciclico degli argomenti pericolosissimi dello stesso becero nazionalismo che ci ha portato soltanto guerre, odio e massacri. Soprattutto oggi, quando è palese che le sfide della contemporaneità non possiamo affrontarle nascondendoci dietro le frontiere. La sfida climatica, quella migratoria, quella fiscale, la lotta alle diseguaglianze, la pandemia, la pace: non possono trovare soluzione piena nella sola dimensione nazionale. In un mondo così interconnesso, un battito d’ali di farfalla dall’altra parte della Terra può produrre conseguenze ovunque.
Vale per la pandemia da Covid-19, come è stato per la crisi economico-finanziaria del 2008-2009. Ma vale anche per l’evasione fiscale delle grandi multinazionali, che sbeffeggiano i sistemi fiscali di mezzo mondo; vale per le infiltrazioni mafiose, che ignorano con disinvoltura ogni frontiera; vale per la desertificazione, le tempeste extratropicali e l’innalzamento del livello del mare. Vale per le migrazioni, che si orientano là dove sembrano essersi concentrati diritti e prospettive, nonostante i muri che vengono eretti.
Si sono globalizzati i mercati, la finanza, l’innovazione tecnologica, il riscaldamento globale, la mobilità selettiva (che esclude i poveri), ma non si sono costruiti processi globali di avanzamento dei diritti e della giustizia sociale. Non c’è da stupirsi se c’è chi si mette in moto verso i luoghi dove si sono concentrati sempre di più ricchezze, diritti e opportunità. È la stessa cosa che fece mio nonno, ben prima della globalizzazione e della diffusione della rete.
È lo stesso motore che ha fatto partire i milioni di italiani emigrati tra Ottocento e Novecento in Argentina, negli Stati Uniti, nel Nord Europa o in Australia. La ricerca di una vita dignitosa è la stessa che fa partire oggi quelle centinaia di migliaia di giovani italianə che si trasferiscono all’este- ro in cerca di possibilità che l’Italia non garantisce più. Altri sono i protagonisti e altre le geografie, altri i contesti di partenza e le difficoltà del viaggio, ma la storia è simile, non fa che ripetersi. Siamo noi a doverne scrivere una diversa. Viviamo tempi segnati da ingiustizia sociale e ambientale.
Questo squilibrio ha azzerato le prospettive di cambiamento e generato sentimenti come paura, risentimento, rabbia e sfiducia. Certa politica li sfrutta per mietere facili consensi a suon di semplificazioni, e in questo modo non fa che aumentare il clima d’odio e frustrazione che respiriamo quotidianamente. Una politica diversa, oggi, deve riaccendere la speranza di emanciparsi e di migliorare le proprie condizioni materiali, stimolare l’energia con cui avviare e sostenere il cambiamento. Che è possibile, benché difficile, perché non siamo arrivati a questo punto per caso.
Se oggi ci troviamo di fronte ad aziende capaci di innovare, rispettare le tutele di chi lavora e pagare salari equi, e ad altre che riescono a sopravvivere solo nell’illegalità e nello sfruttamento; se i giovani si barcamenano in un mare di lavori precari e poveri; se le diseguaglianze sono in continua crescita mentre i sistemi di welfare si sono ristretti, lasciando le persone anziane e con disabilità più sole; se le emissioni climalteranti continuano a soffocare il pianeta; se le discriminazioni di genere ancora colpiscono ogni aspetto della vita delle donne e frenano la società, non è accaduto per caso, ma a causa di precise scelte politiche che sono state fatte. Per certi versi è una buona notizia: significa che facendo scelte diverse e politiche diverse possiamo invertire la rotta.
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