TORINO: UNA DELIBERA SBAGLIATA, UNA SENTENZA GIUSTA

Tratto da il manifesto di Francesco Pallante

Tra le più nefaste conseguenze del sotto finanziamento del Servizio sanitario nazionale (Ssn), particolarmente pesante è quella che, da molti anni, si abbatte sui malati non autosufficienti. Nonostante la loro condizione di malattia, il più delle volte certificata dalle stesse strutture del Ssn, sempre più numerosi sono i non autosufficienti lasciati privi di assistenza sanitaria, specialmente a causa degli atti amministrativi con cui le regioni e i comuni aggirano, violandole, le leggi attuative del diritto costituzionale alla salute (esse stesse, peraltro, oggi minacciate dal progetto di legge sulla non autosufficienza).

Le strategie poste in essere dagli enti territoriali sono le più disparate: l’inserimento dei malati in sterminate liste d’attesa o di rivedibilità; la subordinazione della presa in carico al ricorrere di requisiti privi di rilevanza sanitaria (le condizioni economiche, la mancanza di familiari, l’isolamento sociale); l’ascrizione di prestazioni aventi natura sanitaria all’ambito, meno tutelato e soggetto alla compartecipazione alla spesa, dell’assistenza sociale; la predeterminazione della durata temporale dell’erogazione delle cure sanitarie a prescindere dall’effettiva guarigione; la richiesta, al malato o ai suoi famigliari, di rimborso delle spese sostenute per le cure; sino alla pura e semplice negazione del diritto per motivi di incapienza del bilancio.

L’illegittimità di tali comportamenti è evidente, al punto che quando i malati o i loro familiari reagiscono ricorrendo alla magistratura è facile ottengano il riconoscimento del diritto e la conseguente condanna dell’amministrazione a prestare la tutela costituzionalmente prevista e a rifondere le spese eventualmente sostenute dai ricorrenti a titolo privato.

È quanto accaduto, da ultimo, al Comune di Torino, condannato, il 24 febbraio scorso, a risarcire gli eredi di una malata ricoverata in residenza sanitaria assistenziale (Rsa), cui era stata negata la copertura del 50% della retta (la c.d. quota alberghiera) che, date le disagiate condizioni economiche della malata stessa, la normativa poneva a carico dell’amministrazione municipale.

Come attentamente ricostruito dal Tribunale del capoluogo piemontese, Sezione lavoro, che ha pronunciato la sentenza, mentre l’assistenza ai non-autosufficienti erogata nella fase acuta (o intensiva) è totalmente a carico del Ssn, l’assistenza erogata nella successiva fase estensiva grava, infatti, in parti uguali sul Ssn e sul comune di residenza del malato. Al comune è data facoltà di stabilire la compartecipazione del ricoverato alla spesa, ma a condizione che sia rispettata la normativa statale sull’Isee (Indicatore della situazione economica equivalente), da calcolarsi in riferimento al nucleo familiare.

Il Comune di Torino – in forza di una delibera approvata nel 2012 dalla giunta Fassino e mai modificata dalle giunte successive – utilizza invece un criterio differente, per cui non può beneficiare dell’intervento comunale chi, a prescindere dal suo Isee, risulta proprietario di un immobile del valore pari o superiore a 51.645,69 euro (definito ai fini Imu). Così facendo, tuttavia, opera in senso più penalizzante per gli utenti, dal momento che la norma nazionale prevede che il patrimonio immobiliare sia conteggiato nell’Isee solo per la parte eccedente il valore di 52.500 euro e che questa parte sia considerata nella misura del 20% dei due terzi.

Il risultato, per i torinesi, è che basta risultare proprietari di un alloggetto in una zona periferica per rimanere privi del sostegno comunale, come avvenuto nel caso oggetto della recente sentenza, in cui l’Isee della malata ammontava ad appena 6.869,18 euro (a fronte di una retta per la quota alberghiera del costo di 18mila euro all’anno).
C’è ora da augurarsi che il Comune di Torino colga l’occasione, nonostante le difficoltà finanziarie in cui notoriamente versa, ma che comunque non possono giustificare la negazione di un diritto, per trovare il modo di rimuovere la delibera del 2012 (la pronuncia del giudice ordinario non può, infatti, annullarla con effetti generali, ma solo disapplicarla nel caso oggetto del giudizio) e uniformarsi all’Isee nazionale.

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