SUL CLIMA SIAMO TUTTI NEGAZIONISTI

Tratto da Il Mulino di Michele Bellini

Che cos’hanno in comune le reazioni alla direttiva europea per l’efficientamento energetico degli edifici e quelle seguite alle azioni dei giovani attivisti per il clima?

Entrambe rivelano un grande fenomeno di negazione collettiva – volontaria per alcuni, involontaria per altri, incolpevole per molti – di quanto sta accadendo. Almeno per mitigare gli effetti negativi del riscaldamento globale – fermarli completamente è ormai impossibile – servono azioni senza precedenti, per urgenza, radicalità e pervasività. Eppure, davanti a una realtà che non potrebbe essere più evidente, entrano in gioco meccanismi di diversa natura che ci impediscono di cogliere fino in fondo le implicazioni del surriscaldamento globale.

Non si tratta, però, di una questione di semplice consapevolezza del fenomeno: basta aprire la finestra per rendersi conto che il clima sta già cambiando. Pochi giorni fa, l’Organizzazione meteorologica mondiale ha certificato che il 2022 è stato per l’Italia l’anno più caldo di sempre (dal 1800), registrando oltre 3,5°C in più rispetto al periodo pre-industriale.

La negazione non riguarda, dunque, solo l’esperienza sensoriale, ma la comprensione del fenomeno nella sua totalità: questo richiede di andare ben oltre l’osservazione empirica. Proprio per questo, anche solo il pensare l’idea del cambiamento climatico è terribilmente complicato. Siamo abituati a reagire alle esperienze dei nostri sensi, a ciò che vediamo e sentiamo, ma non a un graduale processo di accumulo di gas invisibili nell’atmosfera. Possiamo comprendere la gravità dei sempre più frequenti eventi meteorologici estremi, ma facciamo più fatica a dare importanza a tutto il resto; questo perché la stragrande maggioranza del fenomeno non la vediamo, ma possiamo solo pensarla. La tromba d’aria o la siccità sono solo la punta dell’iceberg del cambiamento climatico; il resto del ghiaccio sfugge ai nostri sensi, non è davanti a noi e, perciò, è indeterminato.

La negazione non riguarda, dunque, solo l’esperienza sensoriale, ma la comprensione del fenomeno nella sua totalità: questo richiede di andare ben oltre l’osservazione empirica

Lo scrittore indiano Amitav Gosh associa al cambiamento climatico il termine «spaesante». È una parola che ricorre spesso in Freud e Heidegger e, non a caso, il pensatore tedesco lo collega a uno dei concetti chiave della sua filosofia, l’angoscia: «Nell’angoscia, noi diciamo, uno è spaesato». Le parole che Heidegger dedica all’angoscia, in Essere e Tempo, possono aiutarci a capire meglio le difficoltà legate alla comprensione della crisi ecologica. Mentre la paura, secondo il filosofo, si prova davanti a qualcosa di determinato, l’angoscia è spaesante proprio perché legata all’indeterminatezza, perché ciò che la causa non ha un nome: «L’angoscia non ha occhi per vedere un determinato qui o là da cui si avvicina ciò che è minaccioso. Ciò che caratterizza il davanti-a-che dell’angoscia è il fatto che il minaccioso non è in nessun luogo. L’angoscia non sa che cosa sia ciò davanti-a-cui essa è angoscia (…). Nel davanti-a-che dell’angoscia si rivela il nulla e in-nessun-luogo». È l’angoscia la chiave per un’esistenza autentica, poiché attraverso di essa si rivela il nulla, cioè la morte; ed è solo davanti alla morte che, sempre secondo Heidegger, l’Esserci conosce sé stesso e la sua vera identità.

Ne consegue che, al contrario, quella inautentica sia un’esistenza che (metaforicamente) fugge dal pensiero della morte. Ma ciò non è la condizione di vita quotidiana per quasi ognuno di noi? Riusciamo, infatti, a vivere le nostre vite (più o meno) senza impazzire perché rimuoviamo il pensiero che un giorno lasceremo questo mondo (c’è da dire che non sapere il come e il quando della nostra dipartita facilita il processo di rimozione). Rifiutando il pensiero della fine della nostra esistenza terrena, per associazione tendiamo a negare ciò che genera angoscia.

Del resto, che cos’è il cambiamento climatico se non un grande fenomeno di scomparsa collettiva? Con la «piccola» aggravante che, in questo caso, la scienza è in grado di fornire parecchi dettagli sul come e il quando. Per il 48% delle specie animali e vegetali, infatti, si parla letteralmente di alto rischio di estinzione, mentre per gli esseri umani, già oggi, la vita di 3,3 miliardi di persone è altamente vulnerabile all’alterazione del clima, con una probabilità di morire a causa di eventi climatici estremi quindici volte maggiore.

Pensare il cambiamento climatico richiede anche uno sforzo di concettualizzazione spaventoso, forse sovrumano. Si tratta, d’altro canto, della sfida più difficile che la nostra specie si sia mai trovata ad affrontare: per sfiorarne la portata, basti pensare che è la prima volta che le azioni dell’uomo sono arrivate a interferire con le forze della geologia, nel giro di pochissimi anni.

Un simile livello di complessità rende inadeguati categorie e strumenti ordinari. È un fenomeno estremamente profondo e trasversale a tutti gli ambiti della nostra esistenza: persino l’unità di misura della vita umana, il respiro, produce anidride carbonica. Ogni nostra azione, gli stili di vita, l’organizzazione della società, i sistemi di produzione, le dinamiche politiche e geopolitiche, i fondamenti stessi della morale comune: il cambiamento climatico tocca davvero tutto e calcolarne ogni singola implicazione richiederebbe forse un super-computer. D’altra parte è una complessità inevitabile, perché è impossibile trovare qualcosa di più fondamentale delle condizioni che garantiscono la vita sulla Terra.

Non possono aiutarci troppo i modelli economici prevalenti, in quanto non sono in grado di catturare tutte queste sfaccettature, senza considerare, poi, che non spetta all’economia dirci se prendere decisioni così importanti, come quelle relative al contrasto del surriscaldamento globale. Nemmeno concepire la sfida esclusivamente in termini etici risolve tutti i problemi: i concetti di responsabilità, colpa e danno possono spiegare solo in parte un fenomeno che ha conseguenze lontane nel tempo e nello spazio e per il quale è problematico assegnare responsabilità individuali (le emissioni del singolo sono irrilevanti).

Provare a concepire a fondo il cambiamento climatico implicherebbe, infine, una serie di ammissioni molto scomode. Bisognerebbe essere pronti a mettere in discussione alcune fondamenta della modernità, con effetti certamente destabilizzanti tanto a livello individuale quanto per la collettività. Richiederebbe, per esempio, di dire ad alta voce che se noi, in Italia e nell’Occidente, possiamo permetterci di vivere in una casa riscaldata ed elettrificata è solo ed esclusivamente perché ci sono miliardi di persone nel mondo che non se lo possono permettere, né oggi, né mai. Dovremmo dire ad alta voce anche che molto di quanto ci ha consentito di raggiungere livelli di benessere e progresso inimmaginabili è diretta conseguenza di un paradigma di dominio della nostra parte di mondo sul resto, che trae fondamento nei combustibili fossili.

Vederla attraverso le lenti della geopolitica, aiuterebbe, tra l’altro, a capire le enormi difficoltà delle negoziazioni internazionali sul clima: durante le conferenze delle parti delle Nazioni unite (Cop) non si discute «solo» di come ridurre le emissioni, ma è prima di tutto uno scontro tra vecchie e nuove potenze, in un’eterna logica di dominio.

Che cosa ci rimane, dunque? La verità scomoda per eccellenza: non abbiamo fatto, non riusciamo o non vogliamo fare i conti fino in fondo con le implicazioni e le scelte che la crisi ambientale ci impone. Permacrisis, che indica uno stato di crisi permanente, è la parola dell’anno 2022 secondo il celebre dizionario Collins. Naturalmente, tra i tanti sconvolgimenti citati, non poteva mancare quello che fa da sfondo a tutti gli altri: il riscaldamento globale. È la crisi permanente per eccellenza: sarà la costante dei prossimi decenni, la cornice all’interno della quale le nostre vite si svolgeranno e con la quale le nostre società inevitabilmente, che piaccia o meno, dovranno fare i conti.

Il riscaldamento globale è la crisi permanente per eccellenza: sarà la cornice all’interno della quale le nostre vite si svolgeranno e con la quale le nostre società inevitabilmente dovranno fare i conti

È con tutte queste considerazioni in mente che possiamo tornare al quesito iniziale. Se accettiamo premesse e implicazioni del cambiamento climatico, non si può pretendere che contrastarlo sia una passeggiata defaticante. Allora non ci si può nemmeno sorprendere troppo se – con gli edifici responsabili del 40% del consumo energetico e del 36% delle emissioni – un piano finalizzato a contrastare il riscaldamento globale indichi la necessità di migliorare l’isolamento energetico degli immobili. Come non può nemmeno stupire più di tanto se – con i trasporti responsabili di circa un quarto delle emissioni di Co2 in Ue (e più del 70% di queste prodotte dal trasporto su gomma) – lo stesso piano preveda una migrazione verso tecnologie più pulite. Come dovremmo diminuire le emissioni altrimenti?

Ed è, tra l’altro, assolutamente normale che questo piano europeo, il Green Deal, si limiti a indicarci le azioni da intraprendere, senza mettere becco su come suddividere l’onere che esse richiedono. Pressoché tutto ciò che attiene ad azioni redistributive, infatti, rimane saldamente una competenza nazionale, proprio perché lo hanno deciso gli Stati membri, non le istituzioni europee!

La questione è senza dubbio al cuore della lotta al cambiamento climatico: la ripartizione degli investimenti necessari per rendere le nostre società «a prova di clima» non può prescindere dalla capacità di ognuno di contribuire. Deve essere, cioè, improntata secondo criteri di equità per essere – citando Alexander Langer – «socialmente desiderabile». Protezione dell’ambiente e giustizia sociale insieme: è il nesso fondamentale alla base della crisi ecologica, identificato anche da papa Francesco in Laudato si’.

Che dire, infine, delle azioni di Greta e dei giovani attivisti? Anche in questo caso, non può esserci troppa sorpresa. Gli ultimi arrivati su questa Terra sono probabilmente coloro che, più di tutti, riescono a vedere le cose per come sono, e, di conseguenza, compiono azioni di protesta per esprimere quell’angoscia e quello spaesamento che il cambiamento climatico genera. Reazioni di profonda disperazione, davanti ad azioni considerate insufficienti, troppo lente e talvolta anche ipocrite. Non è un caso che siano sempre più frequenti fenomeni catalogati sotto al termine eco-ansia. Esiste, infatti, un legame tra cambiamento climatico e salute mentale; un nesso che ha spinto l’Organizzazione mondiale della sanità a consigliare agli Stati di includere il sostegno al benessere psicologico nelle strategie per gestire la crisi climatica.

Il contrasto al riscaldamento globale, allora, richiede forse di saper accettare meglio quell’angoscia climatica che uno sconvolgimento così profondo può generare. Aiuterebbe anche a uscire dallo stato di negazione e vedere meglio quanto sta già accadendo: un primo passo su cui costruire società più sostenibili. Si rischia, altrimenti, di scivolare in un enorme paradosso: che un’epoca, la nostra, «così fiera della propria consapevolezza – tornando a citare Amitav Gosh – in futuro verrà definita l’epoca della Grande cecità».

Ecco che cos’hanno in comune gran parte delle reazioni alla direttiva europea per l’efficientamento energetico e quelle seguite alle azioni dei giovani attivisti: che noi, chi più e chi meno, chi consapevolmente e chi inconsapevolmente, chi intenzionalmente e chi incolpevolmente, siamo tutti negazionisti.

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