20 Gen RES Publica Spoils System
Tratto da nonmollare di Angelo Perrone
La decisione del governo Meloni di ricorrere allo spoils system (cambiamento dei vertici pubblici per ragioni di affinità politica) ricalca una prassi diffusa nelle democrazie occidentali, a cominciare dagli USA. Tuttavia dovrebbe essere salvaguardato il principio di imparzialità, mantenendo la valutazione oggettiva di capacità e competenze
Ha destato inevitabili polemiche l’intenzione del governo Meloni di procedere alla sostituzione dei massimi dirigenti delle amministrazioni pubbliche, e degli enti comunque partecipati dallo Stato, con nominativi di fiducia. Il sospetto è che si vogliano cambiare i responsabili delle più importanti strutture pubbliche per avere funzionari in linea con gli orientamenti della nuova compagine governativa e capaci di perseguirne gli obiettivi. Così facendo si otterrebbe che la burocrazia, mastodontica in Italia, non sia di ostacolo e assecondi il nuovo corso.
Una finalità dunque strumentale rispetto all’interesse partitico, a dispetto dell’esigenza di imparzialità ed indipendenza che dovrebbe ispirare l’azione amministrativa. Quando non anche determinata da intenti puramente clientelari, sistemare gli affiliati in posti di potere. Persino risarcire i trombati alle elezioni o dare consolazione agli esclusi dai primi incarichi. Le vicende degli ultimi decenni hanno mostrato, ha scritto allarmato Sabino Cassese, che «la fame di posti della politica si è rivolta alla pubblica amministrazione» (Corriere, 10.1.23).
Può destare allarme il cambiamento radicale specie se porterà ai vertici personalità di modesto spessore, qualificate soltanto dall’appartenenza allo schieramento vincente. Ma non si tratta di una novità, né di per sé di un abuso, piuttosto di una prassi diffusa nelle democrazie occidentali, che trova formale riconoscimento nella legislazione italiana a partire dal 2002-2006, quando fu sancito il principio della cessazione automatica degli incarichi di alta e media dirigenza, trascorsi 90 giorni dalla fiducia al nuovo governo.
In precedenza, già dagli anni ’90, si era manifestata tale tendenza abbinata alla scelta del sistema maggioritario a livello nazionale (la legge Mattarella) e soprattutto a quello locale. L’istituto avrebbe dovuto trovare la ragion d’essere nella necessità di armonizzare amministrazione e politica, come presupposto del buon andamento dell’azione pubblica.
Alla prassi, riconosciuta dalla legge, non sono rimasti estranei, qualunque fosse il colore, i governi precedenti, che vi hanno fatto largo ricorso. È quanto avvenuto quando a Palazzo Chigi c’era il Pd di Matteo Renzi e, dopo, allorché vinsero i 5Stelle, che, trovando arduo l’obiettivo di «aprire il parlamento come una scatoletta di tonno» come avevano promesso, si sono adattati più pedestremente a mutare solo le alte dirigenze.
In ogni caso può essere giustificato che un nuovo esecutivo voglia scegliere le persone adatte alla realizzazione del programma politico vincente. Semmai si tratta di valutare la dimensione del fenomeno, il livello dei cambiamenti, la qualità del personale chiamato ai nuovi incarichi. Insomma gli esiti pratici di una rivoluzione di una certa portata.
Fuori dall’Italia, la prassi – denominata spoils system – ha visto una prima applicazione negli Usa a partire dall’inizio ‘800, inevitabile (e opportuna) conseguenza delle vittorie elettorali su base maggioritaria. Al vincitore, disse il senatore William Marcy nel 1832, spetta «il bottino del nemico», cioè appunto il potere esercitato nei vari settoridell’amministrazione, appannaggio delle precedenti compagini. In applicazione di ciò, il nuovo Presidente nei primi 60 giorni provvede alla nomina di 200-300 posti chiave della sua amministrazione, un ricambio in base all’omogeneità di vedute. Per evitare che si formino grumi di resistenza, diretta o involontaria, all’attuazione del programma.
Tutto normale allora, e persino funzionale al disegno di migliorare l’efficacia dell’azione amministrativa? Si può escludere che la prassi non sia viziata da clientelismo? Conviene rinunciare alle garanzie del merit system, basato sulla valutazione oggettiva della capacità, attraverso concorsi pubblici? Infine non c’è qualcosa di stonato nel qualificare come «bottino» il potere pubblico, quando dovrebbe essere considerato un servizio al cittadino, e dunque allo Stato?
Come spesso accade lo status del paese nel quale vige una regola giuridica oppure è adottata una prassi alla fine fa la differenza. In Italia, a differenza degli Usa, il sistema elettorale è “relativamente” maggioritario e non assicura affatto la stabilità dei governi per la durata della legislatura.
Inoltre la durata dei governi è mediamente breve, inferiore ai cinque anni, spesso con composizioni eterogenee (si pensi all’alternanza tra governo giallo-verde di 5Stelle+Lega e giallo-rosso di 5Stelle+PD). La conseguenza è devastante, perché la classe dirigente amministrativa non ha tempo di studiare i dossier, impostare una linea e metterla in pratica che deve fare le valigie. Vive nell’instabilità.
Per altro verso, in Italia – a differenza per esempio della Francia – pesa un difetto strutturale e culturale. Mancano le scuole di eccellenza per la formazione degli amministratori pubblici, e latita la cultura dell’imparzialità e del merito, che trova il referente costituzionale nell’articolo 54 (i cittadini ai quali sono affidati funzioni pubbliche devono esercitarle «con disciplina ed onore»), e nell’art. 97 (l’accesso agli incarichi pubblici avviene di regola mediante concorso pubblico, e così si accertano in modo oggettivo capacità e competenze).
La delicatezza insita nell’esercizio di questo potere traspare nelle pronunce della Corte Costituzionale. Il principio del ricambio dirigenziale è stato fatto salvo da una sentenza del 2006, che ne ha sottolineato l’utilità per il buon andamento dell’amministrazione. Quanto poi all’altro criterio (l’imparzialità), la Corte ha ribadito la necessità che non sia pregiudicata l’indipendenza dell’azione amministrativa.
La combinazione delle due esigenze forse esige di limitare l’intervento della politica ai vertici apicali (più strettamente a contatto con la politica), lasciando inalterata la struttura interna (quella che svolge l’azione diretta e quotidiana). In modo che ai governi spetti di dettare le linee guida e al corpo amministrativo di realizzarle autonomamente, senza interferenze operative.
A prescindere dunque dagli interessi di parte e persino dalla bramosia (comprensibile ma pericolosa) di chi è stato lontano dal potere nei settantacinque anni della Repubblica, non è l’acquisizione del «bottino del nemico» il modomigliore per far funzionare a dovere la macchina amministrativa.
Rimane sempre la centralità dei valori di merito e la necessità di un meccanismo che premi esperienza e competenze in modo imparziale. Quali che siano le finalità (pur legittime) di ciascuna compagine governativa, il Paese ha bisogno di una classe dirigente idonea, e neutrale rispetto ai fini di parte.
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