Libero fino all’ultimo respiro

di Silvio Lavalle

Con la scena della sua morte, scelta come si sceglie il finale per una storia, Godard ha terminato il suo viaggio nella vita, che è stato un viaggio nel cinema, ossia nel mondo delle immagini. Un mondo delle immagini, lui diceva, in cui tutti ci muoviamo e ci costituiamo, ricomponendo gli infiniti riflessi che giungono da infiniti schermi che, restituiscono sempre e solo l’immagine di chi li guarda, per questo “les miroirs devraient réfléchir, avant de renvoyer une image”.

E lui forse era stanco della sua immagine, ormai ferma, mentre il suo cinema, come la sua vita, non hanno mai smesso di trasformarsi e diventare altro, rappresentazione plastica del fondamentale principio buddista dell’impermanenza.
Un cinema nomade e volatile, il suo, anche quando è stato militante e ideologico, perché sempre libero, sempre onestamente in ricerca, mai compiaciuto, mai diventato maniera, anche se ha influenzato tutti i migliori registi arrivati dopo di lui attraverso il suo unico dogma: il rifiuto di ogni dogma.  Probabilmente il cinema di Godard è il più dialettico e interlocutorio che  abbiamo avuto perché rappresenta un’ininterrotta e spericolata ricerca che attraversa territori sempre nuovi, guidato dalla stella dell’unico potere ammesso, quello dell’immagine. Un potere al cui servizio ha dedicato tutta la sua  arte.
Così ha fatto anche quando ha abbandonato quella grande città così povera di immagini potenti che per lui era diventata Parigi, per ritirarsi nella campagna Svizzera. Nel piccolo paese che aveva scelto voleva dedicarsi alle immagini più essenziali e potenti, filmando alberi, persone e animali e lasciandosi catturare dagli occhi profondi dei cani. Ne avevano tanti lui e la sua compagna; dentro quegli occhi, diceva, si poteva  vedere un mondo intero di cose, mentre quelli umani gli parevano da tempo vuoti e inespressivi.

Tags:
,
No Comments

Sorry, the comment form is closed at this time.