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PregheRai. Come il nuovo accordo con la Cei rafforza il clericalismo sulla tv pubblica

Tratto da uaar.it, articolo di Federico Tulli

«Oggi il servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale, pur in un mercato fortemente diversificato, resta garanzia di pluralismo e democrazia, e trova ancora il suo fondamento nella vocazione di settant’anni fa». L’inizio del 2024 ha portato la Rai a varcare il suggestivo traguardo dei 70 anni di attività e questo è stato uno dei passaggi più significativi del messaggio di auguri della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

L’occhio ci è subito caduto su tre paroline: “garanzia di pluralismo” e a noi di Nessun dogma sono risultate parecchio stonate. Forse perché poco meno di un mese prima la Rai aveva prolungato di altri cinque anni la convenzione con la Conferenza episcopale italiana per la trasmissione di contenuti religiosi?

Chiariamo subito, la risposta è “sì”. Come in altri ambiti di cui ci siamo occupati (esempio i fondi pubblici per l’editoria elargiti a testate giornalistiche che fanno riferimento alla Cei e/o di chiara matrice cattolica), infatti, anche in quello radiotelevisivo pubblico la posizione dominante della chiesa cattolica rispetto ad altre confessioni religiose, oppure a organizzazioni portatrici di idee e valori non religiosi, è evidente, ben radicata e, come vedremo, sostenuta da dati inconfutabili. Di qui la perplessità per le parole scelte da Meloni.

Restiamo dunque sul rinnovo dell’accordo Rai-Cei la cui notizia è stata riportata dai media italiani senza che si alzasse un solo sopracciglio. Esso prevede la trasmissione della messa domenicale, del programma A Sua immagine – Le ragioni della speranza e di «altri speciali su eventi particolari della Chiesa», come genericamente recita il comunicato ufficiale. (L’accordo tra l’altro garantirà la copertura del prossimo Giubileo a spese dei contribuenti. Qui infatti a differenza dell’8×1000 per il quale, sapendolo, si può scegliere a chi destinarlo, non si scappa: la pagheremo tutti, atei e non, cattolici e non, con una quota parte del canone).

Acriticamente sono state riportate anche le parole del cardinale Zuppi, presidente della Cei, in occasione della firma: la convenzione permette «di far risuonare le parole e gli appelli di papa Francesco, dando spazio e voce a numerose realtà che spesso rimangono nell’ombra e rischiano di essere dimenticate».

Quali siano queste realtà “censurate” non è dato di saperlo, Zuppi non ha fatto nomi e nessun giornalista presente glieli ha chiesti. Quel che sappiamo noi è che a livello mediatico la Cei può già contare sul canale Tv2000 (la messa di Natale va per esempio in simultanea su Rai 1, Tv2000 e Telepace) oltre che su centinaia di testate giornalistiche locali e nazionali, solo per fare degli esempi, mentre il Vaticano, dopo la “rivoluzione” del dicastero della comunicazione realizzata da papa Francesco, trasmette urbi et orbi tramite Telepace, Vatican media Hd, Radio vaticana Italia, Radio vaticana Europa, Radio vaticana America, Radio vaticana Africa e Radio vaticana Asia. C’è davvero bisogno di lasciar dilagare la Chiesa anche in Rai?

Ma se Zuppi porta acqua al proprio mulino (d’altronde, chi al posto suo avrebbe disdegnato visibilità e propaganda garantite gratuitamente dalla televisione pubblica?), desta sconcerto la “visione” proposta dall’amministratore delegato della Rai, Roberto Sergio, in occasione della ratifica. «Credo fortemente nel valore di questa collaborazione – ha detto Sergio –… Il rito domenicale della Messa è una tradizione che continua a essere “servizio” per il pubblico, mentre trasmissioni come A Sua immagine e gli altri speciali Rai sulla vita della Chiesa sono appuntamenti molto seguiti anche per la capacità di trasmettere messaggi davvero universali». Anche qui, cosa ci sia di “universale” in un messaggio religioso non è dato di saperlo. E nessun giornale ha fatto notare all’ad Rai che un messaggio religioso non è e non può essere universale per sua natura.

Che il rapporto Rai/Cei non sia né garanzia di pluralismo, tanto meno di produzione di contenuti dal carattere universale, l’Uaar ne è convinta da sempre, come del resto dimostra l’esposto che presentò nel 2014 all’Agcom (l’Autorità garante nelle comunicazioni) contro la Rai facendo notare che nei suoi palinsesti la chiesa cattolica arrivava a quasi il 100% di presenze sul totale dei soggetti confessionali e che non vi era nessuno spazio dedicato alle opinioni atee e agnostiche.

In quell’occasione l’Uaar accusò pertanto la televisione pubblica di violare il contratto di servizio che impone di rendere disponibile a ogni cittadino «una pluralità di contenuti, di diversi formati e generi, che rispettino i principi dell’imparzialità, dell’indipendenza e del pluralismo» nonché di «avere cura di raggiungere le varie componenti della società, prestando attenzione alle differenti esigenze di tipo generazionale, culturale, religioso, di genere e delle minoranze, nell’ottica di favorire una società maggiormente inclusiva e tollerante verso le diversità».

E come andò? L’Agcom bocciò il ricorso Uaar con motivazioni che ancora oggi appaiono… incredibili. In primo luogo, rispose l’Agcom, a differenza di quanto avviene per la comunicazione politica non c’è obbligo di par condicio in ambito religioso. In secondo luogo, la valutazione in ordine alla completezza dell’informazione «non può essere effettuata in base al tempo televisivo fruito da ciascun soggetto portatore di determinati interessi o al numero di presenze degli stessi, ma alla luce della completezza dei temi oggetto di informazione».

In buona sostanza secondo Agcom non c’era nulla da eccepire perché nel palinsesto Rai si riservava una significativa attenzione alla tematica religiosa in generale. Addirittura (si fa per dire) su Rai 2 erano presenti ben due programmi dedicati a confessioni differenti da quella cattolica (Protestantesimo, curato dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia, e Sorgente di vita, curato dall’Unione delle comunità ebraiche italiane). E poi la perla finale dell’Autorità garante: «Le tematiche atee, agnostiche o razionaliste appartengono a un ambito culturale talmente vasto da non poter essere ricondotte ad alcuno specifico soggetto, sono pertanto riassorbite nell’insieme degli argomenti non religiosi trattati dalla stessa Rai nella sua articolata programmazione».

Dicevamo all’inizio dei dati. Numeri e statistiche inconfutabili, che sconfessano l’Agcom e danno ragione alla Uaar, sono pubblicati da oltre 12 anni con cadenza annuale dalla Fondazione Critica liberale sul periodico Critica liberale sotto il titolo Rapporto sulle confessioni religiose e tv, realizzato sui principali canali televisivi, pubblici e privati.

In attesa del nuovo rapporto che come sempre analizza gli stessi dati di Geca Italia monitorati dall’Agcom e che mentre andiamo in stampa non è ancora uscito, ecco in conclusione alcuni dei nodi più significativi di quello precedente (pubblicato nel 2023 e riferito al periodo settembre 2020 – agosto 2021). Si tratta di numeri che ben riflettono quale sia il concetto di pluralismo in Rai, e non solo.

Partiamo dalle presenze dei soggetti confessionali in alcuni dei programmi di informazione/attualità più seguiti: Unomattina, Porta a porta, Agorà, Cartabianca, Report, Quarta repubblica, Dritto e rovescio, Omnibus e Dimartedì. Ebbene, questa è la classifica: su 223 presenze totali distribuite nei vari canali, 188 (di cui ben 60 a Unomattina) sono di fede cattolica (84,3%), seguono 23 di religione musulmana (12,1%), 7 di religione ebraica (3,1%) e una protestante (0,4%). Per quanto riguarda la durata dei loro interventi, basti citare quella degli ecclesiastici per farsi un’idea: su 11 ore 57 minuti e 36 secondi totali hanno parlato 9 ore 12 minuti e 41 secondi.

Andiamo avanti e occupiamoci del Numero puntate e durata delle trasmissioni religiose per emittente televisiva. Risultato: su 643 puntate 555 (86,3%) sono andate in onda sui tre canali Rai, le restanti 88 su Canale 5 e Rete 4. Se scorporiamo il dato delle puntate per confessione religiosa questo è il risultato: cattolica, 432 (67,2%); protestante 81 (12,6%); ebraica 77 (12%); altre cristiane 52 (8,1%); musulmana 1 (0,3%). In termini di durata delle puntate, il dato in favore della religione cattolica è ancora più marcato andando a coprire il 79,3% del tempo totale di trasmissione.

Un altro numero molto interessante riguarda le fiction religiose, programmi che indubbiamente raggiungono il grande pubblico più facilmente di una puntata di A sua immagine. Ebbene, nell’anno preso in questione sono state 318, quasi una al giorno per un totale di oltre 269 ore. Di queste 318, 296 sono state fiction religiose di matrice cattolica, le restanti 22 giudaico-cristiana. Ben 184 (57,8%) sono state trasmesse dalla Rai. Già queste cifre fanno impressione ma se pensiamo che nel 2015 andarono in onda 901 fiction religiose quasi c’è da essere contenti, se non altro per il trend che è in netta diminuzione.

Concludiamo con uno sguardo ai telegiornali. Qui si va oltre ogni immaginazione. In termini percentuali rispetto alle altre confessioni, il tempo di parola concesso a rappresentanti di quella cattolica incassa percentuali da Corea del nord, sebbene con qualche sorpresa.

In cima alla classifica infatti non ci sono i tre Tg Rai (rispettivamente 98,74%; 98,43% e 99,74% contro 1,26, 1,57, e 0,26% di spazio per la confessione ebraica, le restanti non pervenute) ma Tg La7 e Tv8 entrambi con il 100% dello spazio di parola per le confessioni religiose concesso a quella cattolica. Seguono: SkyTg24 con il 99,84%, RaiNews con il 99,80%. Il tg meno genuflesso, anche qui a sorpresa, risulta essere stato quello di Rete4 con il 94,89% a favore della religione cattolica e il restante 5,11% di quella ebraica. Ma qui siamo in ambito privato.

Resta il fatto che nei quattro tg nazionali Rai lo spazio medio concesso alla religione cattolica rispetto alle altre confessioni è pari al 99,18%, dunque non può che rimanere immutata l’indignazione per l’assenza di pluralismo e la genuflessione a reti unificate della televisione pubblica.

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