pena di morte

Pena di morte, un italiano su tre la vorrebbe: l’attrazione per il boia colpisce laici e talebani

Tratto da l’Unità, articolo di Domenico Bilotti

Siamo abituati a credere che l’abbandono della pena di morte sia tipico di società avanzatamente secolari e che la sua ignominiosa pratica derivi invece da contesti teocratici e confessionali. Sul piano storico, giuridico e religioso, ovviamente sappiamo che non è così.

La pena di morte è tutt’oggi eseguita nella Repubblica popolare cinese – che adotta una costituzione ateistica e fortemente accentrata, dove ridotto è anche lo spazio per la libertà religiosa individuale.

Sopravvive in non pochi Stati federali negli USA, che hanno una costituzione separatista, improntata al libero esercizio del culto e al divieto di sanzione ufficiale di qualsiasi fede. La applica l’Iran sciita come faceva lo Stato Islamico tra Siria e Iraq, ma molti Paesi prevalentemente musulmani sono almeno giunti a una abrogazione di fatto.

Le condanne a morte non formalmente abolite sono tuttavia non irrogate nella pratica in paesi come l’Algeria, la Mauritania, il Mali e altri. Il divide tra laicità e religiosità non è più sufficiente a descrivere correttamente la lotta nonviolenta e senza quartiere contro il boia di Stato.

L’istituto demoscopico SWG documenta, in un report reso noto lo scorso 23 febbraio, che quasi un italiano su tre (circa il 31% degli intervistati) sarebbe favorevole al ritorno della pena di morte nel nostro Paese. Gli abolizionisti non arrivano al 60.

Cosa determina tutto ciò: il nostro retaggio conformista, a volte bigotto? Il nostro aver tolto invece ogni sacralità alla vita? Se guardiamo le ipotesi di reato per cui i peones delle condanne vendicative sarebbero pronti a riarmare il boia, ci rendiamo conto che gli argomenti spirituali c’entrano davvero poco.

C’è chi la propone, ad esempio, per il furto in abitazione. Quanto hanno contato le tendenziose, insistite, sciocche, polemiche che politici preparati ad arte imbastiscono scambiando con dolo legittima difesa e uso sproporzionato e privato della violenza e della forza?

Per non parlare dello sciacallaggio su reati particolarmente esecrabili, quali la violenza sessuale avverso i minori, che però i corifei acchiappaconsensi risolvono sbraitando inapplicabili (e non producenti) proposte sulla castrazione chimica. Anche stavolta: non c’è dietro alcuna etica della sessualità, nessun effetto deterrente, nessuna idea educativa, nessuna presa sociale.

Del resto, molti di quegli stessi agitatori dimostrano una concezione delle donne e della minore età che farebbe invidia ai mostri dell’horror anni Ottanta. Parziali spinte controtendenziali non mancano, e quanto noi consideriamo periferia richiama una centralità democratica che meriterebbe ben altra attenzione.

La piccola repubblica presidenziale dello Zimbabwe, dallo scorso febbraio, ha adottato di iniziativa parlamentare una commutazione universale delle condanne a morte in carcerazioni a vita – variamente emendabili in corso d’esecuzione con alcune forme di premialità.

La popolazione è essenzialmente composta da cristiani convertiti, animisti e tribalisti. Dall’altro capo del mondo, la Louisiana, un tempo avamposto di controculture nella Cintura della Bibbia, sudista e repubblicana, ha invece autorizzato l’uso dell’azoto, ulteriormente liberalizzato la circolazione delle armi e nuovamente ristretto gli istituti della liberazione condizionale.

Nel Giappone tenacemente non teista e imbevuto di cultura scintoista, a opporsi al boia sono soprattutto buddhisti, minoranze laiche, ex detenuti. La pena di morte per impiccagione è all’opposto trasversalmente difesa da cospicue correnti interne ai due partiti principali: sia la destra nazionalista del Partito Liberal Democratico sia i moderati del Partito costituzionale.

A ben vedere è perciò in atto ovunque nel mondo una pericolosa alleanza sistemica tra due culture uguali e contrarie: fondamentalisti e indifferenti si riscoprono complici e sodali nel cammino di abbattimento della dignità umana.

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