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Premio Nobel per la pace all’attivista iraniana Narges Mohammadi. “Non smetterò mai di lottare anche se passerò il resto della mia vita in carcere”

Vicepresidente del Centro per la difesa dei Diritti Umani, da anni si batte contro la pena di morte e per i diritti delle donne. È tuttora detenuta nel carcere di Evin a Teheran

Tratto da La Repubblica

Al mondo fuori che ora finalmente la vede, Narges Mohammadi fa una promessa: “Non smetterò mai di lottare per la democrazia, la libertà e l’uguaglianza in Iran, anche se trascorrerò il resto della mia vita in prigione”. Sono passati pochi minuti da quando l’accademia di Oslo le ha conferito il premio Nobel per la pace 2023 e la sua voce coraggiosa buca ancora una volta le mura del carcere di Evin, a Teheran, dove è rinchiusa. “Resterò in Iran al fianco di tutte le coraggiose mamme e donne iraniane – scrive in un messaggio consegnato alla famiglia – contro la discriminazione, la tirannia e l’oppressione di genere del regime religioso finché non saremo libere. Il Premio Nobel mi renderà più resiliente, più determinata, più ottimista e più entusiasta in questo percorso”.

Dentro e fuori dal carcere

Prigioniera, ma mai doma, Mohammadi è la tigre della battaglia per i diritti umani, civili e politici in Iran. Dagli anni ‘10 entra ed esce dal carcere, l’ultima condanna le è stata inflitta a novembre del 2022 dopo un processo lampo: con uno sparuto gruppo di attivisti partecipava a una commemorazione per i morti delle proteste del 2019, il bloody aban, il novembre di sangue, lo chiamano gli iraniani. Le hanno dato dieci anni per propaganda contro lo Stato, poi sono arrivate altre accuse, compresa quella di lavorare contro la sicurezza nazionale, altri due anni. Ma la sua leadership morale, intatta, ha continuato a ispirato una intera generazione di giovanissimi che  un anno fa, dopo la morte di Mahsa Amini mentre era in custodia della polizia morale, sono scesi in piazza per chiedere giustizia, verità, la fine della Repubblica Islamica e un nuovo regime politico, la democrazia.

La risposta del governo è stata repressione brutale, oltre 500 vittime, più di 20mila arresti, torture e abusi in carcere denunciati dagli avvocati, i pochi, che hanno potuto assistere i loro clienti. Mohammadi non è rimasta in silenzio. Dal braccio femminile di Evin ha denunciato le aggressioni sessuali subite dalle giovani manifestanti per costringerle al silenzio. “Non ho mai visto così tante nuove ammissioni nel nostro reparto come negli ultimi cinque mesi”, testimoniò un mese in una lettera al New York Times. “Ma più ci rinchiudono più diventiamo forti”.

L’infanzia e l’attivismo

Cresciuta a Zanjan, nel Nord Ovest dell’Iran, in una famiglia di classe media, si avvicina all’attivismo da bambina, quando uno zio e due cugini vengono arrestati dopo la rivoluzione islamica del 1979. Narges ha 8 anni e l’immagine di sua madre che ogni settimana andava a far visita al fratello in prigione con un cesto di frutta diventa uno dei suoi primi ricordi politici. Studia fisica nucleare all’università di Qazvin, fonda gruppi di impegno femminile, scrive per alcuni giornali riformisti. E’ a Qazvin, durante una lezione clandestina sull’attivismo civile, che incontra Taghi Rahmani, dissidente e futuro marito. Prima di lasciare il Paese e rifugiarsi a Parigi con i loro due gemelli, Rahmani ha trascorso 14 anni in carcere. I figli, Ali e Kian, oggi sono adolescenti, Narges non li vede da otto anni. Lei non ha mai voluto lasciare l’Iran. Nell’ultima lettera prima di lasciarli andare, scrisse: “Amatissimi Ali e Kiana, avete il diritto di non vivere in un Paese in cui i suoi leader non riconoscono la vostra infanzia e persistono nel ferire il vostro spirito puro. Forse in un’altra terra troverete pace e sicurezza anche in mia assenza”.

Nel 2003 comincia a lavorare con il Centro dei difensori dei diritti umani di Teheran fondato da un’altra premio Nobel iraniana, l’avvocatessa Shirin Ebadi, ne diventa il braccio destro, scende in piazza con il grande movimento riformista dell’Onda verde nel 2009. Arrivano le prime condanne e gli arresti, nel 2011, nel 2015, ma continua a battersi contro la pena di morte e per i diritti civili, credendo nelle riforme. Il bloody aban segna un punto di non ritorno. Il silenzio e anzi l’ avallo dell’ex governo moderato di Rouhani alla repressione delle piazze azzera in molti riformisti la speranza che il sistema possa cambiare dall’interno.

Narges e le proteste per Mahsa

Quando iniziano le manifestazioni per Mahsa Amini, Mohammadi organizza sit-in e proteste in carcere, raccoglie le testimonianze delle ragazze aggredite. A marzo, per il capodanno persiano, registra un messaggio audio con un gruppo di detenute a sostegno del movimento Donna-Vita-libertà: il cambiamento “è irreversibile”, dice. Il messaggio si chiude con un canto emozionato: è “Bella Ciao” in farsi. E non è un paradosso. “Il braccio femminile è tra i più resistenti e gioiosi del carcere di Evin”, ha sempre detto Mohammadi.

Forse solo oggi, nel giorno concesso alle detenute per chiamare i familiari, i suoi figli potranno sentirla e condividere con lei la gioia per il Nobel. “Un premio che riconosce anche le centinaia di migliaia di persone che, nell’ultimo hanno, hanno manifestato contro le politiche di discriminazione e oppressione del regime teocratico iraniano nei confronti delle donne”, scrive il comitato di Oslo. “Il motto adottato dai manifestanti – ‘Donna, Vita, Libertà’ – esprime adeguatamente la dedizione e il lavoro di Narges Mohammadi”.

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