Turchia

Le due anime della Turchia divise su laicità e diritti. Ma in politica estera l’imperialismo le unisce

Tratto da Repubblica, articolo di Lucio Caracciolo

L’opposizione prende l’occidente del Paese mentre Erdogan perde anche con gli islamisti. Nel 2028 la sfida finale

La netta sconfitta del partito di Erdogan nel voto amministrativo turco, che ha coinvolto gli elettori di tutte le 81 province della Repubblica, apre una fase di incertezza in questa nazione chiave alla ricerca di nuove glorie imperiali. Premessa: la leadership del presidente appena rieletto nel maggio scorso con il 52% dei voti non è in questione. Le prossime elezioni presidenziali e parlamentari si terranno nel 2028. Erdogan stesso ha annunciato che saranno le sue ultime. Ma se aveva immaginato una riforma della Costituzione per consentirsi l’ennesimo mandato, oggi deve rivedere i suoi piani. Inoltre, il voto di domenica indica che se l’opposizione avesse schierato contro di lui un candidato meno scolorito di Kemal K?l?cdaroglu, ad Ankara oggi sarebbe insediato un altro leader. Il suo nome: Ekrem Imamoglu, trionfatore a Istanbul, dove è riconfermato sindaco con la maggioranza assoluta dei voti.

La prima lezione di questo voto è che la faglia fra le “due Turchie” emerge più nitida e forte. La Turchia profonda, di tono islamista, dunque in maggioranza schierata con Erdogan e con il suo partito della Giustizia e dello Sviluppo, e la Turchia occidentale e costiera, più laica e liberale, soprattutto interessata a uno stile di vita aperto, ai diritti civili e delle donne, sono due realtà consolidate. La metà dei turchi che non ama Erdogan ne contesta la politica economica, con l’inflazione galoppante e i tassi di interesse alle stelle. E l’approccio dei turchi di Istanbul o Smirne alla questione curda si distingue per disponibilità al dialogo e attenzione alle ragioni della massima minoranza etnica, il cui Partito democratico ha ottenuto un discreto successo nel suo canonico Sud-Est.

Il confronto fra la carta elettorale delle ultime presidenziali e quella del voto amministrativo attuale disegna l’arretramento della Turchia conservatrice e islamista. Mentre nel 2023 Erdogan aveva lasciato all’allora capo del Partito repubblicano del popolo (Chp) quasi solo la Turchia costiera e curda – oltre ad Ankara e alla megalopoli Istanbul – nelle urne di domenica l’Akp perde quasi tutta la Turchia occidentale, compresa Bursa, quarta città turca.

La differenza fra l’insuccesso dello scorso anno e questa vittoria è in gran parte dovuta alla figura del presidente, tuttora popolare, e dello sfidante di allora, assai modesto, quasi incarnazione del perdente nato. Stavolta però non si votava la figura politica, ma il suo partito decisamente meno attraente del capo. La povertà della classe dirigente locale e nazionale dell’Akp è confermata dal fatto che il governo attuale vede ministri tecnici in tutti i dicasteri chiave.

Un fattore importante nella disfatta erdoganiana è l’affermazione del Partito della Nuova Prosperità, guidato da Fatih Erbakan, figlio di Necmettin, primo ministro di piglio radicalmente islamista rovesciato dai militari nel 1997. Il travaso di voti dall’Akp a questa scheggia estrema dell’islamismo è stato considerevole: il 6,2% su base nazionale, decisivo per il sorpasso del Chp sull’Akp. Erbakan junior accusa Erdogan di non essere abbastanza duro contro Israele. Eppure il presidente dopo il massacro del 7 ottobre si è subito schierato con Hamas e passa il tempo a stramaledire Netanyahu. Non abbastanza per chi vorrebbe lanciare le Forze armate turche contro Gerusalemme.

La faglia delle “due Turchie” non ha un chiaro profilo geopolitico. O se ce l’ha, deve ancora emergere. Una cosa è esigere più libertà, democrazia e diritti civili, altra esprimere una visione del ruolo turco nel mondo altro rispetto al vigente. Uno dei compiti che attendono Imamoglu nel quadriennio che lo separa dal probabile confronto con il futuro leader dell’Akp – sempre che Erdo?an si ritiri davvero – è di proporre una sua politica estera. Come sindaco di Istanbul, non certo una priorità. Ma come aspirante alla massima magistratura dello Stato, indispensabile. Qui la religione conta poco: Imamoglu non è certo meno musulmano di Erdogan, tanto che nei comizi ama recitare brani del Corano. La questione è se e come vorrà o non vorrà mutare l’approccio della Turchia alle guerre che la sfiorano a Nord (Ucraina contro Russia) e a Sud (Israele contro Hamas). E in generale quale postura geopolitica vorrà proporre per la sua eventuale presidenza.

Per Erdogan si tratta di gestire questa fase finale della sua parabola più che ventennale in modo tale da passare alla storia come un sultano di successo, paragonabile ai grandi della storia imperiale.

Quattro anni sono un’eternità ai ritmi con cui la storia ha preso a galoppare. Resta la sensazione che la strategia turca, chiunque sia al timone della nazione, non sarà troppo diversa dall’attuale. Il consenso nazionale sul ritorno della Turchia al rango di grande potenza, già avviato, appare robusto. L’idea imperiale resta prevalente nel corpo della nazione e soprattutto negli apparati, non solo militari. Ankara si sta ritagliando un suo spazio di influenza molto vasto, che nella sua accezione massima corre dall’Asia centrale all’Adriatico, dal Mediterraneo orientale all’Africa via Medio Oriente. Sulle questioni chiave – dispute con la Grecia, sostegno ai palestinesi, penetrazione in Siria e in Iraq, riscoperta delle radici turchesche e musulmane dell’Asia ex sovietica, fino al Turkestan orientale (Xinjiang cinese) – le differenze sono di tono, non di sostanza. Il corpo turco ha due anime sul fronte interno, una sola di fronte al mondo.

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