L’AFFIDO COMPIE 40 ANNI

Tratto da Vita di Sara De Carli

Il 4 maggio 1983 veniva approvata la legge 184, che sancisce il diritto di ogni bambino a crescere in una famiglia: in quegli anni in Italia c’erano 230mila minori in istituto. Oggi i ragazzi fuori famiglia sono circa 28mila e la metà di loro sta crescendo in una famiglia affidataria. Uno strumento preziosissimo, che però non è riuscito a dispiegare tutte le sue potenzialità e che anzi sempre più spesso viene messo sotto attacco. I numeri, le criticità e le sfide per il futuro in un’intervista a sei voci.

Erano passati appena sette mesi dall’approvazione della legge che aveva introdotto l’affido familiare: il 15 dicembre 1983 un’assistente sociale telefonò a Valter Martini e gli proposte di accogliere in affido un ragazzino di 12 anni, l’ultimo rimasto di cinque fratelli che andavano collocati urgentemente. Per gli altri quattro, la giovane assistente sociale era già riuscita a trovare delle coppie, ma l’affido di quell’ultimo poneva qualche difficoltà in più. «La mia esperienza di accoglienza familiare è iniziata così. Da allora non c’è stato mai un giorno che non abbia avuto ragazzi in casa. Quando mi sono sposato, nel 1985, avevo già tre ragazzi in affido: siamo diventati subito una casa famiglia», racconta Valter Martini, segretario del Tavolo Nazionale Affido e membro della Comunità Papa Giovanni XXIII. Anche oggi con Valter e la moglie Anna vivono sei ragazzi, di cui alcuni ormai adulti: «Due sono con noi da quando avevano 2 e 6 anni. Sono cresciuti insieme alle nostre due figlie. Ci chiamano mamma e papà, fanno parte della famiglia». E il ragazzino che ha accolto quarant’anni fa? «Siamo ancora in contatto, è del paese, si è fatto la sua vita». È un fiume in piena Valter quando racconta la ricchezza della vita in famiglia come balsamo per le ferite di tanti piccoli: «I bambini che arrivano entrano in una rete familiare, mia mamma per esempio ha fatto da nonna a tutti i ragazzi che abbiamo accolto, è stata una risorsa importante per loro, così come lo sono state le nostre figlie». Accadono continuamente cose incredibili dentro la quotidianità dell’affido. Nei giorni scorsi per esempio due fratelli che sono in affido in due famiglie diverse e lontane, di 15 e 14 anni, si sono incontrati per la prima volta da quando avevano 2 e 3 anni: «Non ci sono neanche parole per raccontarlo».

La legge sull’affido – la numero 184 del 4 maggio 1983 – compie quarant’anni. Qual è il bilancio? Uno strumento così prezioso è riuscito a dispiegare appieno le sue potenzialità? Perché oggi è così spesso sotto attacco? Un’inchiesta.

Quanti affidi in quarant’anni? Non lo sa nessuno
Nel 1983, alla vigilia dell’approvazione della legge che ha introdotto l’affidamento familiare, in Italia erano 230mila i minori che vivevano in un orfanotrofio o in un istituto. Oggi i minori fuori famiglia sono poco meno di 28mila. I dati sono comunque vecchi, risalgono al 31 dicembre 2019, ma sono i più aggiornati che abbiamo: e questo è un primo problema, che tutti denunciano da anni. Non tanto per i numeri in sé ma perché non avere il polso della situazione impedisce di leggere correttamente la realtà e conseguentemente di mettere in campo politiche più adeguate.
I minori fuori famiglia dove vivono? 14.053 sono collocati in un servizio residenziale, mentre 13.555 sono in affidamento familiare a singoli, famiglie e parenti. Di questi, il 57% sono in affidamento etero-familiare e il 43% in affidamento a parenti: nel 2019 per la prima volta è avvenuto il sorpasso, storicamente gli affidi a parenti sono sempre stati la maggioranza. Gli stranieri sono il 20,5% dei minori in affido: uno su cinque. Nessuno dei due dati comprende invece i minori stranieri non accompagnati: nel dicembre 2019 i Msna erano 6.054 mentre oggi sono quasi 20mila (per l’esattezza 19.640 al 31 marzo 2023, di cui 4.755 dall’Ucraina). Nel 2019, dice il Ministero, i Msna collocati in affidamento familiare erano poco meno di 500: in questi ultimi anni diversi progetti hanno lavorato all’obiettivo di rendere l’affido in famiglia una possibilità concreta anche per i minori migranti soli, ma questa opzione resta comunque di fatto rara. Le regioni in cui l’affidamento familiare risulta più praticato sono la Liguria e il Piemonte, con valori superiori ai 2 casi per mille minori residenti. Sul fronte opposto ci sono la Provincia autonoma di Bolzano, la Campania, la Provincia autonoma di Trento, il Friuli-Venezia Giulia, che stanno sotto un minore in affido per mille minori residenti. Quattro affidamenti su cinque sono decisi da un Tribunale per i Minorenni: quasi l’80%. Due minorenni su tre, tra quelli in affido, lo sono da oltre due anni. Tra i bambini e gli adolescenti che hanno concluso l’affidamento familiare nel corso del 2019, solo il 34% è rientrato nella famiglia di origine, che sarebbe sulla carta l’esito naturale del percorso. Sulla carta, appunto: nella realtà invece il 12,6% dei minori è andato in affidamento preadottivo; il 10% è stato collocato in un’altra famiglia affidataria; il 15% è entrato in una comunità; il 4,5% ha raggiunto una vita autonoma. Per gli altri, non si sa nulla.

«La questione dei dati è un problema, per comprendere ciò che accade e per individuare vie di miglioramento», afferma Paola Ricchiardi, professoressa di Pedagogia sperimentale all’Università di Torino. Al convegno organizzato alla Camera dal Tavolo Nazionale Affido per celebrare i quarant’anni dell’affido, lei terrà la relazione sullo “stato dell’arte dell’affido nei numeri”, ma in verità – dichiara – «nessuno sa dire quanti siano i minori che hanno vissuto un’esperienza di affido in questi 40 anni, né quante siano le famiglie affidatarie. I dati sui minori fuori famiglia vengono raccolti nella forma che conosciamo oggi solo dal 1998/99 e comunque i dati presentati così, in maniera aggregata, ci aiutano poco: pur mantenendo l’anonimato ci servirebbe avere dati che raccontino le traiettorie di vita dei minori, sapere dove è stato il bambino prima dell’affido, dove va quando l’affido termina. È l’unico modo per fare delle correlazioni, comprendere le dinamiche, migliorare l’efficacia dello strumento». Due osservazioni quantitative la professoressa comunque le fa: la prima riguarda il Piemonte, di cui si conoscono i dati relativi al 2021 e che conferma come questa regione, dopo essere stata quella che l’affido lo ha visto nascere prima ancora della legge, ne sia ancora oggi una “culla”: «A dispetto del clima dell’orientamento politico che in questi ultimi anni ha condotto la regione ad approvare una legge battezzata “Allontanamenti Zero”, anche nel 2021 c’è stata una ulteriore crescita della percentuale di minori in affido anziché in comunità. Negli anni più recenti invece la tendenza nazionale è quella di una aumento del ricorso alle comunità, lo si vede in tantissime regioni in maniera trasversale: Toscana, Sicilia, Puglia, Lombardia, Marche, Liguria, Lazio», conclude Ricchiardi.

Una famiglia in più: sei voci per rileggere quarant’anni di storia
Ecco quindi un dialogo a sei voci per i quarant’anni della legge sull’affido. Si tratta di Valter Martini, segretario del Tavolo Nazionale Affido, vive da sempre in una casa famiglia della Papa Giovanni XXII e accoglie sei ragazzi; Frida Tonizzo, presidente della Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie-Anfaa, è stata affidataria di una ragazza oggi ultraquarantenne e ha un “nipote affidatario”, suo figlio di 12 anni; Liviana Marelli referente dell’area minori del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza-CNCA; Marco Giordano, presidente di Progetto Famiglia Onlus, docente universitario, già segretario del Tavolo Nazionale Affido, ha avuto 5 minori in affido insieme alla moglie e in questo momento sono “zii sociali” di una ragazza di 22 anni che da bambina era stata affidata a loro; Marco Chistolini, psicologo e psicoterapeuta che da 35 anni lavora su affido e adozione, in servizi pubblici e nel privato sociale, seguendo la formazione di operatori e famiglie; Stefano Ricci, sociologo, ha lavorato a lungo al Centro nazionale di documentazione e di analisi per l’Infanzia e l’adolescenza, esperto di politiche e servizi per l’infanzia e l’adolescenza, genitore affidatario.

Qual è il clima che ha portato alla legge?

Frida Tonizzo: Il clima è quello della deistituzionalizzazione da una parte e dall’altro del riconoscimento dei diritti dei bambini. Le esperienze di affidamento erano cominciate ben prima della legge ed è proprio sulla base di quelle esperienze pilota realizzate da enti locali particolarmente illuminati e con il forte stimolo delle associazioni, che è nata la legge. Il primo servizio di affidamento familiare in Italia è nato presso la provincia di Torino 1971, io ero una giovanissima assistente sociale, e il primo regolamento di quel servizio fu scritto da Francesco Santanera e Giuseppe Andreis. Si ispirarono alla pratica degli affidamenti familiari realizzata in Francia, però diedero subito una connotazione diversa: mentre nell’esperienza francese l’affidamento era una considerata un’attività tra virgolette lavorativa, l’affidamento familiare in Italia si caratterizzò subito come una scelta di accoglienza volontaria da parte di famiglie o di singoli. Nel 1976 nacque a Torino il primo servizio di affidamento da parte di un Comune e anche questa esperienza fu ulteriormente innovativa perché stabilì che l’affidamento familiare riguardava sia minori sia adulti con disabilità sia anziani. Negli anni Settanta poi in Lombardia partì anche un’esperienza pilota con l’ospedale di Limbiate dove Guido Cattabeni, Giuseppe Cicorella e Maria Nova iniziarono a lavorare sull’affido in famiglia per i figli di pazienti psichiatrici ricoverati. Un po’ abbiamo perso questa capacità di mettere il bambino al centro, oggi va per la maggiore una visione più adultocentrica. In Parlamento invece sicuramente “le due mamme” della legge 184 sono Giglia Tatò Tedesco del Pci e Rosa Russo Iervolino della Dc, che si sono lasciate consigliare molto, dal punto di vista anche della scrittura, da due grandissimi come Alfredo Carlo Moro e Giorgio Battistacci.

Qual è il principale cambio di sguardo culturale che la legge 184 ha segnato?

Marco Giordano: Il passaggio importante di quegli anni, di cui la legge 184 è uno degli esempi, è l’aver messo il bambino al centro. Viene sancito il fatto che i minori sono portatori di diritti propri e non sono appendici degli adulti: non hanno dei diritti in quanto figli ma di per se stessi. L’adozione per esempio nella disciplina precedente era pensata per dare un figlio a chi non lo aveva, non per dare una famiglia al minore: inserendo questa prospettiva, invece, cambia tutto. Le norme precedenti dicevano che fino ad una certa età non potevi adottare, era solo la “dimostrazione” di essere giunto ad una certa età senza aver avuto figli tuoi che ti “autorizzava” ad adottare uno. C’è anche un altro elemento che non si ricorda quasi mai: noi pensiamo alla 184 come ad una legge che riguarda le famiglie fragili e che ha introdotto l’affido, mettendo in campo uno strumento per dare una famiglia in più al minore che temporaneamente non può stare nella sua famiglia, ma la legge dice innanzitutto che un genitore – anche non vulnerabile – non può decidere che i propri figli crescano altrove, fuori dalla famiglia, per più di sei mesi. Oltre quel termine deve essere informata la procura. È stato un passaggio importante perché molte famiglie benestanti prevedevano un collocamento dei figli all’esterno della famiglia, per scelte professionali o per posizionamento geografico… L’idea forte della legge è che il bambino prima ancora del diritto a crescere in una famiglia ha diritto di crescere nella sua famiglia e che i suoi genitori sono vincolati ad esercitare la propria genitorialità senza delegarla a terzi. Questo diritto del bambino a crescere nella propria famiglia non lo abbiamo capito fino in fondo oppure lo abbiamo frainteso: non è la preminenza assoluta del legame di sangue, ma la responsabilità di dare sostegno preventivo e supporto promozionale al benessere delle relazioni tra genitori e figli. Questo dovrebbe essere al centro delle nostre politiche. Invece l’affido è stato utilizzato spesso come uno strumento riparativo. Oggi si parla tanto di “allontanamento zero”, ma la questione non è l’allontanamento zero: la questione è l’abbandono zero. Nel momento in cui hai fatto tutto il possibile e il recupero non avviene, l’allontanamento non è una punizione ma una grandissima opportunità. Il paradosso è che anziché prendersela con l’agente patogeno (l’abbandono), ce la si prende col farmaco (l’allontanamento) e ci si costruisce sopra una rendita politica.
Oggi quel clima culturale si è perso?

Valter Martini: Nei primi anni della legge c’era un grande desiderio di portare un vero cambiamento nella vita dei bambini che vivevano in istituto, c’era un’etica che accompagnava quella legge. Gli operatori erano tutti estremamente motivati e interessati a costruire qualcosa di nuovo, avevano una spinta valoriale profonda, dai magistrati agli operatori dei servizi. Oggi siamo più esperti dell’affido dal punto di vista tecnico, ma si è persa la bellezza di quell’entusiasmo, non c’è più il sogno di portare i bambini fuori dagli istituti. Dal punto di vista delle famiglie affidatarie, constatiamo con preoccupazione come le famiglie con figli non si candidino quasi più all’affido familiare. Questa inizialmente era la tipologia di famiglia d’elezione per l’affido ed è stato così per molto tempo: oggi invece arrivano all’affido molte coppie senza figli che non riescono ad adottare oppure arrivano coppie dello stesso sesso o single. Indubbiamente tutte queste persone sono una risorsa, però c’è da lavorare di più sulla motivazione: talvolta magari si avvicinano all’affido sperando che nel tempo possa diventare un’adozione.

Frida Tonizzo: Le leggi di quegli anni – penso anche alla legge sull’adozione qualche anno prima – si sono tutte scontrate con quello che era il grossissimo pregiudizio dell’epoca, cioè l’idea che i figli sono dei genitori. Certo i genitori hanno diritti e doveri, ma i figli non sono una proprietà dei genitori e se questi non sono in grado di rispondere alle loro necessità la priorità è dare al bambino la possibilità di crescere in un luogo sano e sicuro. Il tabù che queste leggi infrangono è quello del sangue. Adesso invece c’è di nuovo una grossa rivalutazione di questo legame biologico. L’interesse della famiglia d’origine viene sempre più spesso fatto coincidere con l’interesse del minore, ma non è così: non c’è sempre una perfetta sovrapponibilità tra i due. Errori ne sono stati fatti sicuramente, ma quando una famiglia nonostante gli aiuti che le si danno non ce la fa, è importante lavorare con lei per trovare una soluzione insieme, che può essere anche un affido diurno residenziale consensuale, in una dimensione solidaristico collaborativa. L’affidamento familiare è una famiglia in più, non una famiglia al posto di quella di origine. Per questo credo che si debba lavorare molto più in ottica preventiva, ho visto affidamenti familiari con situazioni familiari anche molto difficili avere successo: i genitori erano molto rassicurati dal fatto che il figlio fosse cresciuto in una famiglia, piuttosto che attendere e infilarsi un percorso di affido giudiziario. Ma l’ottica preventiva, con questa demonizzazione degli allontanamenti, diventa ancora più difficile.

Qual è l’aspetto più bello e prezioso dell’affido?

Liviana Marelli: L’affido è un istituto da incentivare, non solo perché la norma prevede che sia la prima opzione per un minore che temporaneamente non può stare nella propria famiglia ma soprattutto perché gli esiti ci dicono che la famiglia affidataria “non molla” e rimane un riferimento per la vita di questi ragazzi. Le famiglie mantengono l’accoglienza anche quando non c’è il prosieguo amministrativo e restano nella storia dei ragazzi anche una volta che sono diventati adulti. L’occasione dei 40 anni della legge 184 deve sottolineare l’importanza e l’utilità dell’affido per il benessere del minore e la necessità di ritornare a sostenerlo in maniera più appropriata. Occorre tornare a guardare l’affido non come “ultima spiaggia” ma come modalità con cui una comunità esprime la responsabilità della cura dei piccoli: occorre investire di più sull’affido preventivo perché oggi il fatto che l’80% degli affidi siano giudiziari ci dice arriviamo troppo tardi, con la famiglia di origine sulle barricate e la famiglia affidataria a cui si chiede di fare miracoli. L’affido funziona se ognuno fa il suo pezzo.

Frida Tonizzo: I migliori testimonial sono i ragazzi che hanno vissuto questa esperienza. I ragazzi e le ragazze di Agevolando e del Care Leavers Network con le loro testimonianze restituiscono con grande efficacia quanto l’affido abbia cambiato loro la vita e il fatto che la segnalazione sia un passo determinante. Loro raccontano sovente di interventi fatti troppo tardi, di operatori che non hanno saputo leggere i messaggi che i bambini mandavano. Bisogna avere il coraggio di segnalare. In questo modo noi possiamo spezzare una catena che altrimenti potrebbe portare di generazione in generazione a non uscire mai da una condizione difficile. Significa donare futuro a un bambino.

Quali sono i principali limiti nell’attuazione della legge?
Stefano Ricci: L’affido ha 40 anni ma non li dimostra, nel senso che a quarant’anni dovrebbe essere maturo e invece purtroppo è ancora un adolescente. Anzi, in alcuni territori neanche quello. Il limite più grande è l’eterogeneità dell’applicazione sul territorio nazionale, che può essere comprensibile (perché tutta una serie di competenze sono passate alle regioni e in questo modo il livello centrale non è mai riuscito a dare unitarietà ai territori) ma che non è accettabile. Io sono stato uno dei coordinatori del tavolo che ha portato alla stesura delle Linee di indirizzo del 2012 sull’affidamento familiare, che sono ancora un elemento importante, ma quelle Linee di indirizzo non sono linee guida proprio perché il Governo non può dare indicazioni in tal senso.

Marco Giordano: Il limite principale dell’affido è che è tardo-riparativo e i numeri continuano a dimostrarlo in modo drammatico, visto che oltre l’80% degli affidi è decretato dal Tribunale. Esistono casi virtuosi in cui si lavora in accordo con i genitori anche nel caso di una tutela giurisdizionale ma va detto che l’ingresso di un giudice nella famiglia è sempre una questione forte, è difficile che il genitore a quel punto riesca a vedere l’affido come un’opportunità. Questo rende l’affido inaffidabile dal punto di vista dei genitori e “affibbiativo” dal punto di vista degli affidatari: tu accogli ma non hai idea di quanto resterà con te quel minore, dai una disponibilità “in bianco”. Se gli interventi fossero più precoci, più in ottica preventiva e promozionale, sarebbe diverso. L’altro limite è che salvo alcune zone virtuose – Torino, alcune zone della Liguria, dell’Emilia Romagna e del Veneto – i minori fuori famiglia stanno ancora nei servizi residenziali, non in famiglia. I numeri dei report dicono che grossomodo la metà è in affido e la metà in comunità, ma in quel conteggio ci sono anche i minori che sono in affido a parenti mentre per capire se il sistema pubblico di accoglienza in famiglia dei minori fuori famiglia funziona devi guardare a quelli che sono in una famiglia terza, fuori dalla cerchia familiare.

Marco Chistolini: Oggi la legge non riesce a dare risposte a quei bambini e ragazzi che non sono dichiarati adottabili ma allo stesso tempo non possono rientrare nelle loro famiglie e restano in un affido permanente. Si continua a fare finta che l’affido è temporaneo, mentre i dati ci dicono che la maggioranza degli affidi sono definitivi. Questo costringe i bambini a vivere in una condizione di precarietà: vivo in una famiglia che non è la mia, ma non vado via. È logico che si chiedano di chi sono figlio, quale è la mia famiglia. La legge non ne tiene conto, bisogna dare maggiori garanzie a questi bambini e ragazzi. Io sono dell’idea che dopo due anni fuori famiglia, per tutti i bambini vada valutata l’adottabilità. Il diritto a crescere nella propria famiglia c’è, ma se la famiglia non ce la fa, non funziona, ha troppi problemi… non è che stare nella propria famiglia sia la cosa buona in assoluto. La relativizzazione del crescere in famiglia però si è persa: le ultime sentenze anche della Corte di Cassazione, con il riferimento alla Cedu, insistono sul crescere in famiglia e dimenticano che la cosa importante per un bambino è crescere in un contesto sano, che risponde ai suoi bisogni. Stare nella propria famiglia non è bene il bene assoluto. Questa è un’ossessione che ha come conseguenza il fatto che non si prendano mai decisioni, che si vada avanti per anni in situazioni incerte e precarie in cui “non sono di nessuno”. Questo è un danno che si fa ai bambini. Ricordiamoci che la variabile del tempo per i bambini pesa tantissimo.

L’adozione aperta è una possibilità in questo senso?
Marco Chistolini: È sicuramente una soluzione e una possibilità da considerare e la legge dovrebbe inserirla. Non però come forma spuria di adozione mite, come ora, ma in una forma più ufficiale e legittimata. Anche in questo caso però ricordiamo che mantenere i rapporti con la famiglia di origine è potenzialmente positivo ma non sempre e necessariamente. Bisogna che si decida caso per caso se mantenere i rapporti sia davvero di vantaggio per quel minore oppure possa essere un danno. Il rischio anche qui è quello di una posizione ideologica per cui – sempre nella logica per cui il rapporto con famiglia di origine sia la cosa più buona del mondo – prima non dobbiamo allontanare i minori, poi dobbiamo tenerli in affido e non in adozione, poi se decidiamo (tardi) per l’adozione dobbiamo mantenere i rapporti con la famiglia d’origine… Io sono favorevole all’adozione aperta, ma quando questa è la cosa più utile per i minori. Non che diventi l’opzione base per tutti.

Oggi solo un minore fuori famiglia su due è in affido (peraltro spesso in affido a parenti): gli altri sono ancora in comunità. Si dice che è sempre più difficile trovare famiglie affidatarie disponibili. È così?
Frida Tonizzo: Potenzialmente famiglie disponibili ce ne sono e ce lo dimostrano tanti affidamenti che abbiamo in corso, con famiglie che hanno accolto anche bambini con situazioni molto complesse o con disabilità. Il problema è che bisogna attivarsi per cercarle queste famiglie, per valutarle e per supportarle. Se invece di fare gli affidamenti facciamo gli “affibbiamenti”, come sono stati fatti, è chiaro che le famiglie non ci sono.

Marco Giordano: Questa è la seconda criticità e insieme una grande sfida per l’affido. Se parli con gli assistenti sociali o gli operatori che lavorano nei servizi affido, tutti affermano che la principale criticità dell’affido oggi è la mancanza di famiglie disponibili. Veramente pensiamo che famiglie disponibili a questa scelta si trovino stampando volantini e organizzando serate informative a cui partecipa solo chi è già interessato? La verità è che le famiglie disponibili non si trovano perché le cerchiamo male. L’incontro informativo va fatto ma è la “ciliegina sulla torta”: la torta invece è il lavoro sociale di comunità, il fare in modo che i minori fuori famiglia non siano invisibili nel territorio in cui vivono ma vivano un percorso per cui gli adulti che li incontrano siano raggiunti da azioni metodologicamente fondate che gradualmente li coinvolgono. Non si tratta di fare “lo zoo” dei bambini fuori famiglia, ma di fare in modo che i genitori dei compagni di classe di un bambino che vive in comunità, gli allenatori, gli adulti che incontra quotidianamente possano diventare per lui una rete di socialità seria, all’interno della quale poi spontaneamente prendono forma anche delle disponibilità ad accogliere. Quando un adulto sano incontra gli occhi sofferenti di un bambino, spesso risponde. Però risponde agli occhi di quel bambino, non a un volantino. Allora dobbiamo chiederci quali sono le azioni di contesto che favoriscono questi incontri e il fiorire di queste disponibilità. Ci spostiamo dall’affido come prodotto da pubblicizzare a un lavoro di tessitura di vicinanza e di parentela sociale: fare in modo che coloro che non hanno tra i propri familiari ciò che gli serve, trovino nella società adulti di riferimento aggiuntivi, disposti a fare gli zii. Il “piano Marshall” del lavoro sociale per i 12mila bambini fuori famiglia sarebbe inserire nel loro PEI una voce obbligatoria che preveda per ciascun minore un’azione di tessitura di legami sociali integrativi. Lo abbiamo sperimentato con il progetto Bond Building for teen, ci eravamo dati l’obiettivo di far partire 80 affiancamenti in un anno e ne sono partiti di più. Funziona. In questo momento la Regione Campania ha individuato 7 territori e stanziato 350mila euro all’anno per un progetto di affido per i ragazzi che stanno in comunità da tempo e per cui non si prevede un rientro in famiglia: si elabora un piano intensivo di costruzione di legami sociali per quel ragazzino, mettendoci operatori e risorse.

Marco Chistolini: Intanto va detto che rispetto a 40 anni fa, quando l’affido era un’esperienza pensate in termini di solidarietà e volontariato – tutte motivazioni ancora molto presenti e belle – oggi però non sono sufficienti, abbiamo sempre più bisogno di coppie e persone che accanto a questo abbiano anche competenze più solide di accompagnamento e di relazione, perché abbiamo sempre di più bambini con storie molto complicate. L’affido come supporto alla famiglia in difficoltà temporanea è una casistica oggi molto limitata, i dati ci dicono che la maggior parte dei minori non rientra a casa. Parte del problema del non trovare famiglie è legato anche al fatto che continuiamo a dire che gli affidi sono temporanei e che il loro obiettivo è il rientro dei minori in famiglia, quando la realtà non è più questa. Noi abbiamo da un lato un’eccedenza di coppie che vogliono adottare, molte di più di quanti siano i minori adottabili, e d’altra parte abbiamo migliaia di minori in comunità per cui non si trovano famiglie: dobbiamo mettere in contatto queste due realtà, pensare che molte di queste coppie che vogliono adottare possano essere una risorsa valida anche per l’affido: certo però dobbiamo dare certezze in modo che si possa costruire una famiglia stabile, seppur con il mantenimento – dove serve e dove è bene per il minore – di un rapporto con la famiglia biologica. Dobbiamo permettere al minore di mettere radici nella famiglia dove è stato accolto. So che è un tema complicato, ma dobbiamo intenderci su cosa è l’affido. Se ragioniamo sull’affido come dovrebbe essere, sono d’accordo anche io che la famiglia che vuole adottare probabilmente non è idonea all’affido temporaneo, ma se invece ragioniamo sull’affido come oggi è dobbiamo dire che le famiglie che vogliono adottare vanno più che bene.

La legge 184, dopo 40 anni, ha bisogno di essere aggiornata?
Valter Martini: No, è una legge ancora validissima tant’è che le leggi successive in materia di affido e di adozione – penso alla 149/2001 o alla 173/2015 – non hanno abolito la legge 184 ma l’hanno solo modificata. È una legge che ha tutta la sua attualità e la sua freschezza, ancora da realizzare. Certamente un tema importante è riuscire a concretizzare l’aiuto alle famiglie di origine. L’altra sfida è che il tempo della contrapposizione è finito: la strada è lavorare insieme. Auspico per esempio che nasca un tavolo nazionale delle famiglie di origine per ragionare insieme: troviamoci insieme, parliamoci. Lo stesso con la magistratura.

Marco Chistolini: Sì, la legge va cambiata per dare risposte alle criticità di cui dicevo prima a cominciare dalla necessità di dare stabilità ai bambini, la possibilità di mettere radici in una famiglia che sia la loro. Occorre dare più sostegno alle famiglie affidatarie, economico e psicoeducativo, molto di più di quello che oggi avviene, soprattutto se si tratta di affidi tardivi di bambini grandi. E c’è bisogno di riconoscere il ruolo degli affidatari, che oggi sono le cenerentole del sistema. Anche sul fronte adozioni, di cui pure la legge 184 si occupa, ci sarebbero dei cambiamenti, a cominciare dalla possibilità di adottare per le coppie dello stesso sesso e per i single o per chi adotta il figlio del coniuge: ma qui parliamo di adozioni.

Da cosa vanno difesi oggi la legge 184 e l’affido?
Valter Martini: Dal pensare che le famiglie affidatarie le puoi prendere, usare, strapazzare. La famiglia affidataria è una risorsa preziosissima. Ma mentre una comunità per minori se hai le risorse la costruisci, le famiglie non puoi costruirle. La mia preoccupazione è che le famiglie affidatarie vengano meno per via del clima accusatorio e di sospetto che ci sta accompagnando in questi anni… Va riconosciuto il ruolo delle famiglie che si aprono all’accoglienza oppure resterà l’affido come istituto ma non ci saranno più famiglie affidatarie.

Quali sono le sfide per il futuro dell’affido?
Marco Giordano: Occorre riposizionare la tutela minorile e di conseguenza l’affido su fronti di promozione e preventivi. Cosa occorre per riuscirci? Che i servizi per l’affido pubblici, le associazioni e gli Ets impegnati nell’affido siano dentro un disegno che veda l’affido riconosciuto come un livello essenziale delle prestazioni sociali. Deve diventare un Leps. Dalla dimensione tardo-riparativa si esce solo con investimenti adeguati, stabili e sistematici. Per ogni 100mila abitanti bisogna dire quanti operatori di servizio affido servono e quante ore devono fare, altrimenti va a finire che ogni territorio fa quel che può e dopo 40 anni siamo ancora qui a dire che l’affido va rilanciato. Gli interventi sulla vulnerabilità familiare sono entrati nei Leps, sul fronte della prevenzione primaria si tratta di un importante passo avanti: ci vorrebbe un Leps specifico sui servizi affidi, di prevenzione secondaria, una “batteria di risorse” che possano essere dispiegate tempestivamente dove la prevenzione primaria non è riuscita.

Stefano Ricci: Fare memoria deve essere anche un “ritorno al futuro” e questo è il momento giusto perché l’affidamento familiare possa diventare – il mio giudizio è che debba diventare – un livello essenziale delle prestazioni sociali (Leps). È un obiettivo che oggi è alla portata. Oggi esiste un Leps – con aumento di risorse – per l’intervento a sostegno delle famiglie fragili, così da evitare l’allontanamento dei minori: andrebbe affiancato da un Leps per l’affidamento familiare, quando l’allontanamento non si riesce ad evitarlo. Nelle linee di indirizzo ci sono già tutti gli elementi per arrivare a questo Leps, a cominciare per esempio dalla costituzione delle équipe integrate sociosanitarie per ogni ambito territoriale sociale previsto dalla 328/2000. È qualcosa di possibile. Oggi ci sono i soldi e ci sono le opportunità – per esempio c’è in corso l’assunzione di 40mila assistenti sociali: si può fare e si deve farlo.

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