LA STORIA SECONDO LA RUSSA

Tratto da MicroMega di Antonio Caputo

«Ora e sempre Resistenza». In quanti hanno cercato di non udire, di non capire, forse anche di dimenticare trascinati dal vento di un revisionismo non giustificato.
«L’attentato di Via Rasella non è stata una delle pagine più gloriose della Resistenza partigiana: hanno ammazzato una banda musicale di altoatesini, sapendo benissimo il rischio di rappresaglia al quale esponevano i cittadini romani, antifascisti e non»: queste ora le parole di Ignazio La Russa, Presidente del Senato, ospite di Terraverso, il podcast di Libero Quotidiano.

Il presidente del Senato insiste nel voler riscrivere la storia, danneggiando in tal modo l’immagine del Paese, di cui è importante esponente, e le stesse istituzioni della Repubblica, nata dalla Lotta di liberazione nazionale dal fascismo e dalla occupazione militare delle armate hitleriane.
In quella tragedia mondiale chiamata guerra, il 24 marzo 1944 rimane scolpito nella pietra. A Roma, in via Rasella, i partigiani compiono un attentato contro un battaglione tedesco: 33 morti.
Per rappresaglia, 21 ore più tardi alle Fosse Ardeatine sono trucidate 335 persone, molti gli ebrei. Comandava quei tedeschi Eric Priebke, allora trentunenne. Quando lo processarono, in un editoriale del 6 aprile 1996, Vittorio Feltri affermò che “non era certo peggiore di alcuni partigiani, in quanto questi avevano agito al solo scopo di provocare la rappresaglia tedesca e la sollevazione popolare”.

Il Giornale allora diretto da Feltri, pubblicò una serie di articoli nei quali i partigiani finivano per essere paragonati ai nazisti e i tedeschi uccisi, del battaglione SS Bozen, venivano visti come “vecchi militari disarmati”.
La sentenza numero 17172 del 7 agosto 2007 della Cassazione smentì Feltri, affermando che “si trattava di soggetti militari pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e pistole” e “i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica”.
La Corte affermò che quella bomba non fu una provocazione dissennata, ma “un legittimo atto di guerra rivolto contro un esercito straniero occupante e diretto a colpire unicamente dei militari”.

Falso, ancora, che dopo l’attentato, fossero stati “affissi manifesti che invitavano gli attentatori a consegnarsi per evitare rappresaglie”: al Minculpop premeva, infatti, di tenere nascosto il fatto.
Feltri e Il Giornale, per inciso, vennero condannati al pagamento di 45 mila euro. Più avanti nel tempo, nel 2009, la a Corte di Cassazione, accogliendo un ricorso presentato da Elena Bentivegna, la figlia dei gappisti Rosario Bentivegna e Carla Capponi, contro il quotidiano Il Tempo, ha sentenziato che via Rasella fu un “atto di guerra contro l’esercito nazista occupante”, sconfessando così la tesi che definiva i partigiani “massacratori di civili”. Il Tempo l’aveva sostenuta ritenendo che tra i caduti del reggimento Bozen delle Ss ci potesse essere qualche passante.

Ancor prima, in una storica sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, del 1957,n.3053,  in un processo che vide chiamati in giudizio Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei e Carlo Salinari, Sandro Pertini, Giorgio Amendola e Riccardo Bauer, quali esecutori o mandanti dell’attentato di Via Rasella, poi assolti, affermò :“nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano i partigiani debbono essere considerati belligeranti, dato che apposite disposizioni di legge li hanno qualificati combattenti (D. L. Lt. 5 aprile 1945, n. 158); hanno denominato le loro operazioni contro i tedeschi e i fascisti quali atti di guerra (D. L. Lt. 12 aprile 1945, n. 194); hanno previsto per essi ricompense al valore e il trattamento riservato ai caduti, ai mutilati, ai feriti e agli invalidi di guerra (D. L. Lt. 21 agosto 1945, n. 518) e hanno ritenuto fatti di guerra, ai fini del risarcimento dei danni conseguenti, i fatti da essi posti in essere in relazione alle operazioni belliche, con assoluta equiparazione delle formazioni volontarie alle forze regolari ([D. L. C.p.S.] 6 settembre 1946, n. 226). Gli atti di guerra sono assolutamente discrezionali e, in quanto tali, si sottraggono ad ogni valutazione da parte del giudice. D’altra parte, la dichiarazione 31 luglio 1943 di ‘Roma città aperta’ fu atto unilaterale del governo italiano, mai accettato dagli anglo-americani; la dichiarazione non fu mai rinnovata nei confronti dei tedeschi. Il Governo legittimo non diede disposizioni per evitare in Roma atti di guerra in danno del tedesco occupante, atti che invece rientravano nella lotta contro il tedesco. La lotta partigiana è stata considerata dalla legislazione italiana quale legittima attività di guerra; qualora risulti, pertanto, che un’azione dei partigiani si riallacci alle finalità della resistenza, è improponibile l’azione di risarcimento dei danni derivati dall’azione medesima contro coloro che la concretarono, né il giudice può sindacarne l’opportunità.
Tale principio trova applicazione anche per gli attentati compiuti dai partigiani nella città di Roma durante lo stato di guerra dichiarato nell’ottobre 1943 contro la Germania debbono essere riferiti allo Stato legittimo”.

A riprova di ciò, sul piano del diritto internazionale bellico è stato giudicato, da tutte le corti militari britanniche e italiane, che hanno processato e condannato gli ufficiali tedeschi responsabili delle Fosse Ardeatine, un atto illegittimo in quanto compiuto da combattenti privi dei requisiti di legittimità previsti dalla Convenzione dell’Aia.
Occorre che il senatore La Russa, recuperando il significato patriottico neorisorgimentale di quella pagina di storia e il senso più profondo della Istituzione  che rappresenta  mediti su queste parole della Cassazione: “l’attentato non fu ispirato da finalità personali, ma solo da quella di compiere un atto ostile verso le forze armate della Germania, che era in stato di guerra con l’Italia dal 13 ottobre 1943 e che aveva instaurato una vera e propria occupazione militare bellica di gran parte del territorio nazionale; posto che il governo legittimo italiano aveva incitato gli italiani delle zone soggette a quell’occupazione a ribellarsi all’occupante ed a compiere ogni possibile atto di sabotaggio e di ostilità, al fine di cooperare alla liberazione, per la quale combattevano, a fianco delle Nazioni Unite, le forze armate regolari, non sembra che possa seriamente dubitarsi che si trattasse di un atto di guerra.

Lo ha confermato nel modo più solenne la successiva legislazione, che ha riconosciuto la qualità di patrioti combattenti ai componenti delle formazioni volontarie che avevano partecipato alle operazioni belliche (D. L. Lt. 5 aprile 1945, n. 158); ha qualificato azioni di guerra tutte le operazioni compiute da patrioti per le necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell’occupazione nemica (D. L. Lt. 12 aprile 1945, n. 194); ha autorizzato la concessione di ricompense al valore militare ai partigiani, agli appartenenti al G.A.P. e alle squadre cittadine indipendenti, ed ha attribuito a quelli tra essi che caddero o riportarono mutilazioni o infermità, le qualifiche di caduti di guerra, di mutilati o invalidi di guerra, con tutti i benefici relativi (D. L. Lt. 21 agosto 1945, n. 518); ha considerato fatti di guerra, ai fini del risarcimento dei danni conseguenti, i fatti coordinati alla preparazione e alla esecuzione di operazioni belliche, oppure semplicemente occasionati da queste, con assoluta equiparazione delle formazioni volontarie alle forze regolari ([D. L. C.p.S.] 6 settembre 1946, n. 226).

Lo Stato quindi ha considerato i partigiani come legittimi belligeranti, al pari degli appartenenti alle forze armate regolari, previste dall’art. 26 della citata legge di guerra. Tale qualificazione avrebbe potuto essere negata dal nemico, per difetto dei requisiti formali atti ad identificare i combattenti stessi, ma non può essere posta in dubbio nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano, nei rapporti tra quei partigiani ed altri italiani.
Quanto alla storia, La Russa la lasci agli storici. Veda, piuttosto, di assolvere con equilibrio responsabile all’ufficio di presidente del Senato della Repubblica, seconda carica dello Stato.

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