Pace

La pace più lontana, la pace più necessaria

Articolo di Paolo Naso

Oggi stiamo con Israele. Non possiamo considerare azione di guerra per la liberazione di un popolo una carneficina che, con un calcolato scempio di corpi a sostegno di una macabra propaganda interna, ha colpito ragazze e ragazzi, anziani e turisti indifesi. Senza una logica militare e strategica ma con il solo obiettivo di lasciare una scia di sangue, più lunga e larga di quelle prodotte dalle decine di attentati suicidi pianificati nei decenni scorsi. Quello che Israele ha vissuto nei giorni scorsi è, in rapporto alla sua popolazione, un 11 settembre 10 volte più violento e sanguinoso, una tragedia che ferisce la coscienza e la dignità di ogni persona.

Stare con Israele significa riconoscere il suo diritto alla sicurezza, affermare che Israele è uno stato legittimo e sovrano,  che ha il diritto e il dovere di difendere e proteggere i suoi cittadini, siano essi ebrei, musulmani o cristiani, immigrati o da sempre residenti in questi territori.

Stare con Israele non significa condividere la politica dei suoi governi e, soprattutto, non implica schierarsi contro il popolo palestinese, ignorandone i  diritti, le  sofferenze e la legittima aspirazione a uno stato anch’esso pienamente legittimo e sovrano. I terroristi che offendono l’islam nel nome di una guerra teocratica non hanno compiuto un atto criminale soltanto contro Israele ma anche contro i milioni di palestinesi  che vivono in quella prigione a cielo aperto che, ormai da anni, è  diventata la striscia di Gaza, nell’angolo più isolato  e più affollato del mondo. L’orrore degli sgozzamenti di donne e bambini, le violenze contro civili inermi e la propaganda ingannevole sulla distruzione dell’ “entità sionista”, infatti, non produrranno alcun cambiamento nella vita di chi è segregato nella striscia, delle donne e degli uomini privi  di cure mediche e di possibilità di studio o di lavoro all’esterno del confine, letteralmente isolati dal resto del mondo. Al contrario, i palestinesi piangeranno nuove vittime e le loro case distrutte senza incassare un solo dividendo dell’esibizionismo militarista di Hamas. Nella striscia di Gaza, in  quel recinto di disperazione e violenza, continuerà così a crescere una gigantesca fabbrica dell’odio e dell’antisemitismo, una bestia ferita nutrita da interessati patroni geopolitici, questa volta – pare – i teocrati di Teheran: sciiti, eretici per i sunniti e i fondamentalisti che hanno formato i quadri di Hamas, eppure oggi in apparenza alleati e finanziatori, fomentatori di una guerra dalla quale i palestinesi non hanno nulla da guadagnare.

È, del resto, un copione già visto: altre volte nella storia, egiziani, giordani, siriani, sauditi, qatarini si sono serviti della ‘giusta causa palestinese’ per scrivere la loro agenda geopolitica, fare i loro interessi e tessere le loro trame. In questa pericolosa partita che dal 1948 prosegue con poche varianti, i palestinesi sono stati e restano oggi  una  mera e strumentale comparsa. Nella polarizzazione islamista che contrappone iraniani e sauditi, i primi giocano la carta dell’insurrezione antiisraeliana,  i secondi quella della pacificazione e di una economicamente  interessata normalizzazione tra mondo arabo e Israele. In mezzo i palestinesi, privi di una leadership o- meglio – lacerati tra due prospettive: quella islamo-nazionalistica di Hamas a Gaza, e quella laico-negoziale dell’Anp – o di ciò che ne rimane – a Ramallah, e quindi nei territori della Cisgiordania. Un drago ferito, con due teste e per questo sempre più contraddittorio, inaffidabile e pericoloso sia per i palestinesi che per gli israeliani.

Oggi siamo con Israele, ma proprio perché riconosciamo la sua piena legittimità di stato sovrano e difendiamo il suo diritto alla sicurezza, non possiamo tacere sul tragico errore che, insistentemente – dal fallimento degli accordi di pace di trent’anni fa ad oggi – le sue diverse leadership politiche hanno ripetuto: puntare tutto ed esclusivamente sulla soluzione militare, ridicolizzando o boicottando ogni proposta di pace che non fosse il mantenimento dello status quo: centinaia di migliaia di coloni nei territori della Cisgiordania, impenetrabilità di un muro che sancisce l’impossibilità di qualsiasi intesa e accordo,  assimilazione di ogni palestinese ai terroristi e ai fondamentalisti di Hamas. Il mito dell’ invincibilità militare di Tsahal, l’esercito israeliano,  ha azzerato la volontà politica di cercare una soluzione negoziata al conflitto, ha dissolto i pur importanti movimenti pacifisti nati all’interno della società israeliana e ha consegnato l’anima del paese ai partiti religiosi e il governo politico allo spericolato autoritarismo di Netanyahu.  Da anni lo denunciano noti scrittori israeliani ed oggi lo ribadisce il quotidiano progressista Haaretz che invoca la rimozione del premier –  per altro del tutto  irrealistica in una situazione di guerra  – e chiede misura e legalità nella ritorsione militare. L’imbarazzante defaillance dell’esercito più forte del Medio Oriente, beffato dai deltaplani e dai quad con la bandiera islamista, farà saltare qualche testa graduata e forse metterà in crisi il sistema di potere familistico del premier, ma difficilmente potrà aprire una nuova strada verso la pace. Per costruire una cultura di pace occorrono generazioni e personalità cariche di una visione di cui oggi difettano sia gli israeliani che i palestinesi. E così, mentre i vertici politici di Israele cercano la rivincita militare e i capi di Hamas su tik tok celebrano tronfi una  effimera e sanguinaria vittoria, i due popoli continueranno a soffrire.

Si dirà che sono i popoli a eleggere e sostenere le leadership, e che quindi anch’essi hanno le loro responsabilità. È vero, ma in questi anni questi popoli, tutti e due meritevoli del nostro cordoglio e del nostro sostegno nel loro diritto alla sicurezza e alla pace, sono rimasti prigionieri e abbacinati da promesse impossibili: la sicurezza senza riconoscere i diritti dei palestinesi per Israele; il mito di una nazione islamica con la bandiera verde che sventola sulla cupola di Al Aqsa per i palestinesi.

Intorno, il silenzio. L’Europa, le Nazioni Unite, gli Stati Uniti e perfino i paesi arabi hanno dimenticato la ‘questione palestinese’ e lasciato che i contendenti nutrissero i loro sogni impossibili che, in assenza di proposte e pressioni per costruire un percorso di pace, oggi sono diventati il peggiore degli incubi. Il rischio è che questi soggetti “terzi” cadano nella trappola che invoca l’isolamento di tutti i palestinesi, negando loro aiuto e soccorso. Sarebbe una scelta di ulteriore e brutale disumanità.

La logica ci dice che oggi la pace è ancora più lontana e, considerando come sono finiti gli accordi del 1993, potrebbero aspettarci decenni di conflitto a bassa intensità. Il cuore e l’amore per i due popoli ci fa sperare che, toccato il fondo dell’orrore, qualcuno metta seriamente mano per costruire il cantiere della pace.

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