luigi bettazzi

La morte di Monsignor Bettazzi l’uomo del dialogo tra cattolici e comunisti

Tratto da Linkiesta.it

Il vescovo di Ivrea, morto il 16 luglio a 99 anni, occupa un posto nella storia delle idee e della politica del nostro paese. Nel 1976 scrisse una lettera allo storico segretario del Pci per trovare dei punti di contatto e superare i rispettivi pregiudizi.

Lo scambio di lettere tra monsignor Luigi Bettazzi, il vescovo di Ivrea spentosi l’altra notte alla fatidica soglia dei cento anni, e il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer (1976-1977) è uno dei fatti politico-culturali più importanti dell’ultimo mezzo secolo. Stiamo parlando di un’altra Italia rispetto a quella di oggi. Gli steccati tra cattolici e comunisti – le due grandi “chiese” italiane – erano stati sempre alti soprattutto a livello religioso e dottrinario (sul piano strettamente politico le cose furono, diciamo così, più dinamiche) ma da entrambe le “chiese” veniva avanti ormai da almeno un decennio un avvicinamento lento, un parlarsi guardingo, uno sfrondare antiche inconciliabilità.

Il Concilio Vaticano II aveva aperto nuovi orizzonti e dall’altra parte l’ultimo Palmiro Togliatti, soprattutto col discorso di Bergamo del 1963, si era interrogato sul «destino comune» dinanzi al pericolo atomico. Berlinguer era andato oltre, spinto dal suo consigliere ideologico Franco Rodano, grande intellettuale diremmo oggi catto-comunista se il termine non suonasse dispregiativo, e dal suo segretario particolare, il cattolico Antonio Tatò.

Ma fu monsignor Bettazzi a prendere l’iniziativa: «Onorevole – scrive il vescovo di Ivrea il 6 luglio 1976 (due settimane prima il Partito comunista italiano aveva preso il trentaquattro per cento dei voti alle elezioni, ndr) Le sembrerà forse singolare, tanto più dopo le ripetute dichiarazioni dei vescovi italiani, che uno di loro scriva una lettera, sia pure aperta, al Segretario di un partito, come il Suo, che professa esplicitamente l’ideologia marxista, evidentemente inconciliabile con la fede cristiana. Eppure mi sembra che anche questa lettera non si discosti dalla comune preoccupazione per un avvenire dell’Italia più cristiano e più umano».

Bettazzi fa un discorso molto giovanneo: «Tanti, soprattutto operai, immigrati, diseredati, guardano a voi come a una speranza di rinnovamento, in una società in cui essi non trovano sicurezze per il loro lavoro, per i loro figli, per una loro sia pur minima infiuenza nelle decisioni che coinvolgono tutti. Penso a quelli che hanno votato per voi e sono cristiani, e non intendono rinunciare alla loro fede religiosa, che anzi – forse nella sofferenza per la “disobbedienza” alla gerarchia – pensano così di promuovere una società più giusta, più solidale, più partecipata, quindi più cristiana». Dunque Bettazzi cerca di capire le ragioni del successo del Pci anche tra i cattolici e ritiene di intravederle nella aspirazione dei deboli a una società migliore, in oggettiva convergenza con il pensiero conciliare, aspirazione talmente forte da porre in secondo piano gli aspetti più stringenti dell’ortodossia (di qui la “disobbedienza” – si notino le virgolette – alla gerarchia).

Insomma una mente illuminata come quella del vescovo di Ivrea comprende forse anche con un tocco di meraviglia che nella realtà storica certi steccati religiosi sono di fatto già saltati forse anche perché il Pci «sembrerebbe tendere a realizzare un’esperienza originaria di comunismo, diversa dai comunismi di altre nazioni», scrive riferendosi alle recenti affermazioni di Berlinguer, prima di inviargli la richiesta di «una particolare coerenza» a proseguire sulla strada del rinnovamento ideologico avendo cura di superare atteggiamenti e condotte antireligiose che vivevano soprattutto nella base comunista. Bettazzi sceglie un atteggiamento che rifiuta di lasciarsi dominare da timori legati a esperienze passate, si mostra sensibile ai fermenti operanti nel presente, è aperto a una ragionevole speranza per il futuro, e, più in radice, è fiducioso nell’uomo e nella sua naturale capacità di aprirsi al bene.

Il segretario del Pci risponde dopo un anno (e se ne scusa) forse aspettando il maturare degli eventi politici nel senso di un ulteriore intensificazione del dialogo con la Dc e con Aldo Moro in particolare, un percorso, come ormai sappiamo, piuttosto difficile. E certamente Berlinguer avrà istruito il lavoro per la risposta al vescovo con un lungo lavoro che coinvolse altre personalità del mondo cattolico, tra le quali probabilmente i cattolici eletti nelle liste del Pci come indipendenti, una questione che aveva allarmato settori della Chiesa. E alla fine coglie ben volentieri la sollecitazione del vescovo di Ivrea.

La risposta è molto articolata. È evidente che la scrittura è la sua così come sono chiaramente suggeriti certi riferimenti “alti”: ed è eminentemente una risposta politica tutta tesa ad affermare la laicità del partito e a confermare non solo l’interesse verso le pulsioni più aperte del cattolicesimo così come scaturivano dal Concilio, dalla Pacem in terris e poi alla montiniana Gaudium et spes ma anche la necessità, ideale e storica, di un incontro tra cattolici e comunisti, che d’altronde era il succo del compromesso storico elaborato nel 1973.

È il Berlinguer che sulla scorta di Rodano legge le ultime elaborazioni di Giovanni XXIII e – meno – Paolo VI secondo una lente anticapitalista, quella che accomuna per lui cattolici e comunisti. Non mancano gli aspetti rassicuranti esposti con tono diciamo così definitivo: «Per quanto riguarda il Pci – scrive Berlinguer – Lei non troverà mai in noi, signor Vescovo, le astrattezze settarie o il freddo statalismo di certi ministri francesi della fine del secolo scorso, quali un Ferry o un Combes. Per quanto riguarda i cattolici e le loro organizzazioni, il nostro auspicio è che essi, invece di farsi soltanto i custodi gelosi delle loro istituzioni, soprattutto si impegnino e partecipino al buon funzionamento democratico e al rigore economico dei fondamentali servizi di una società democratica. Noi comunisti vogliamo una società organizzata in maniera tale da essere sempre più aperta e accogliente anche verso i valori cristiani; non vogliamo, però, una società “cristiana” o uno Stato “cristiano”: e non già perché siamo anticristiani, ma solo perché sarebbero anch’essi una società e uno Stato “ideologici”, integralisti».

È questo il Pci «né teista, né ateista, né antiteista». Laico e non laicista. Dalla lettera di Bettazzi insomma Berlinguer trae ulteriori motivi per insistere sulla strategia del compromesso storico preparando ulteriori strappi sulla strada del revisionismo ideologico: nel 1979 il XV Congresso del Pci abolirà (con qualche anno di ritardo) il riferimento al marxismo-leninismo, premessa per la rottura definitiva con il comunismo sovietico (1981).

Ecco dunque perché la figura di monsignor Luigi Bettazzi occupa un posto di assoluta importanza nella storia delle idee, se possiamo dir così, oltre che nella stretta vicenda politica: la sua lettera a Enrico Berlinguer resta un snodo di altro valore culturale e morale nella vicenda italiana.

Tratto da Pacelink

Monsignor Luigi Bettazzi è scomparso questa mattina prima dell’alba a 99 anni (ne avrebbe compiti 100 anni il 26 novembre) è stato un uomo disponibile e aperto al dialogo. Garbato anche quando, per esempio sull’obiezione fiscale alle spese militari, assumeva posizioni scomode, di rottura.

Era nato a Treviso ma si era trasferito da giovane a Bologna dove aveva ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 4 agosto 1946Il 10 agosto 1963 la nomina a vescovo ausiliare di Bologna cui seguì il 4 ottobre la consacrazione episcopale.

Una settimana prima però ci fu l’emozione del Concilio Vaticano II di cui prese parte, accanto al cardinale Giacomo Lercaro a tre sessioni, iniziando dalla seconda, il 29 settembre 1963. Concluse le assise conciliari, fu nominato vescovo di Ivrea, prendendo possesso della diocesi il 15 gennaio 1967. Parallelamente al servizio nella Chiesa locale cresceva l’impegno per la causa della non violenza, fino ad essere nominato nel 1968 presidente di Pax Christi, vivendo in maniera così profonda quell’incarico da ricevere il premio internazionale dell’Unesco per l’educazione alla pace. Ma al di là delle tappe ufficiali di una biografia molto ricca, restano i gesti rimasti nell’immaginario collettivo: la scuola di laicità, come amava definirla, accanto agli studenti della Fuci, la vicinanza ai lavoratori dell’Olivetti, della Lancia e del cotonificio Vallesusa, lo scambio epistolare con il segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer.

Un dialogo sul rapporto tra la fede cattolica e l’ideologia marxista ma soprattutto sul valore della laicità. Bettazzi scrisse a Berlinguer il 6 luglio 1976, avendone risposta un anno dopo: il 14 ottobre 1977. «Mi scusi – scrisse Bettazzi – questa lettera, che molti giudicheranno ingenua, e non pochi contraddittoria con la mia qualifica di vescovo. Eppure mi sembra legittimo e doveroso, per un vescovo, aprirsi al dialogo, interessandosi in qualche modo perché si realizzi la giustizia e cresca una più autentica solidarietà tra gli uomini. Il “Vangelo”, che il vescovo è chiamato ad annunciare, non costituisce un’alternativa, tanto meno una contrapposizione alla ‘liberazione’ dell’uomo, ma ne dovrebbe costituire l’ispirazione e l’anima». «Lei – rispose Berlinguer – ha sollevato problemi la cui soluzione positiva è molto importante per l’avvenire della società e dell’Italia, per una serena convivenza fra tutti i nostri concittadini, non credenti e credenti, oltre che, in particolare, per lo sviluppo di quel dialogo, per amore del quale ha pensato di rivolgersi a me, come lei dice, in quanto segretario del Partito comunista italiano».

 

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