20 Ott La guerra non può essere giusta: don Milani e il dovere di disobbedire
Tratto da volere la luna
“L’obbedienza non è più una virtù”: l’insieme dei documenti che ricostruiscono le ragioni di don Lorenzo Milani al processo per apologia di reato, non è solo un documento storico centrale nella lotta italiana per il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, ma anche un insieme di scritti “profetici”, intendendo per profezia, secondo l’insegnamento capitiniano, l’anticipazione della realtà futura nella presente attraverso l’educazione all’impegno morale necessario a realizzarla. È un’azione intenzionale, pedagogica e politica contro i “meccanismi del disimpegno morale” studiati dallo psicologo sociale Albert Bandura. Tra questi hanno un ruolo rilevante e diffuso – in particolare nel giustificare la partecipazione alle guerre e ai crimini che ne derivano – quelli volti a depotenziare la responsabilità individuale, attraverso il suo spostamento su qualcun altro, occultando o minimizzando il proprio ruolo (è la linea di difesa dei gerarchi nazisti a Norimberga o di Eichmann a Gerusalemme) e la diluizione della responsabilità su più soggetti agenti, perché “lo hanno fatto tutti” (è il meccanismo di discolpa nella violenza di “branco”). Le lettere ai cappellani militari e ai giudici elaborate da don Lorenzo Milani insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana, due anni prima della più famosa Lettera a una professoressa, rappresentano invece i principi della formazione all’impegno morale contro la guerra.
Com’è noto, le vicende che portarono al processo a don Milani hanno origine dal comunicato stampa dei cappellani militari in congedo della Toscana pubblicato su La Nazione il 12 febbraio 1965. In esso, dopo aver accomunato in un omaggio «referente e fraterno» tutti i caduti d’Italia, auspicando che «abbia termine ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise» (con un implicito riferimento alla riabilitazione dei caduti fascisti che «si sono sacrificati per il sacro ideale della Patria»), i cappellani accusano di «insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza, che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà». Come racconta Marco Labbate ne L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana, il ritaglio del giornale arriva a Barbiana il 14 febbraio e, come accade con tutti i quotidiani che arrivavano nell’impervio borgo del Mugello, viene letto insieme ai ragazzi. E qui scattano, nel maestro, l’indignazione e il dovere di dare una risposta che abbia anche valore educativo. «Dovevo bene insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia» – spiegherà nella lettera ai giudici, nella quale racconta la genesi della risposta incriminata – «come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto» (I care è la celebre scritta sul muro della scuola): poiché nessun altro aveva reagito alle parole infamanti dei cappellani «allora abbiamo reagito noi».
Si tratta di un insegnamento pratico di etica della responsabilità, del farsi carico personalmente di un impegno morale in vece di altri: la responsabilità del bene. Questo è il compito specifico della scuola, rivendica don Milani, che è diversa dall’aula del tribunale, perché mentre i giudici devono applicare le leggi in vigore, «la scuola invece siede tra passato e futuro e deve averli presenti entrambi», non solo formare il senso della legalità, ma anche il senso politico, cioè «la volontà di leggi migliori», formando al rispetto delle leggi giuste e all’impegno per cambiare quelle sbagliate. Attraverso il voto, lo sciopero, la parola, l’esempio. È questo il compito profetico dei maestri, che devono essere capaci di scrutare i “segni dei tempi”, prevedere «negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in modo confuso». Ma la profezia che anticipa la realtà futura nella presente è da sempre guardata con sospetto, accusata di “apologia di reato”, come nel caso di don Milani, o di corruzione dei giovani, come l’accusa rivolta a Socrate, la cui figura è tra le letture di Barbiana attraverso l’Apologia e il Critone. Così come lo sono i Vangeli, l’autobiografia di Gandhi, lo scambio epistolare tra Claude Eatherly, uno dei piloti di Hiroshima, e il filosofo Günther Anders.
La risposta del priore di Barbiana e dei suoi ragazzi, dunque, non si fa attendere: è una lettera aperta ai cappellani militari, diffusa in dattiloscritto e pubblicata integralmente il 23 febbraio sulla rivista comunista Rinascita (e poi sul numero di marzo di Azione nonviolenta, la rivista del Movimento Nonviolento, commentata da Aldo Capitini). Nella lettera vengono fissati alcuni elementi di riflessione che sono acquisizioni civili fondamentali, seppur non ancora universalmente riconosciute. Dapprima la celebre apertura progressiva del concetto di patria, da nazionalista a internazionalista e classista: «se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altra»; e poi l’avvertimento che quello di patria è un concetto non rigido ma fluido, del quale i nostri figli un giorno rideranno, come oggi si ride della patria borbonica. Inoltre il tema della centralità dei mezzi per affermare il proprio concetto di patria: «nobili e incruenti», come lo sciopero e il voto, quelli promossi da don Milani; armi ed eserciti, «orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove», quelle benedette dai cappellani.
Nel tema dei mezzi c’è l’articolo 11 della Costituzione e il ripudio della guerra come «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», ma anche la teoria e la prassi nonviolenta della coerenza tra mezzi e fini. La lettura incrociata dell’articolo 11 e dell’articolo 52 («La difesa della patria è sacro dovere del cittadino») della Costituzione, diventano per don Milani una sorta di rasoio di Occam, ossia il metro di misurazione della legittimità delle guerre italiane, riattraversate nella lettera, dall’Unità d’Italia alla Seconda guerra mondiale, dal quale si evince che – alla luce della Costituzione repubblicana – nessuna di esse risulta giustificabile e dunque i soldati avrebbero dovuto obiettare, anziché obbedire. È tema che riguarda anche il nostro presente. Dall’anno della lettera ai cappellani in avanti, in particolare dal 1991 con la Prima guerra del Golfo, il nostro paese è stato coinvolto in decine di ulteriori guerre diversamente aggettivate: se le sottoponessimo tutte al rasoio di Occam di don Milani, ossia della Costituzione, nessuna di esse ne risulterebbe legittimata. Tuttavia, aggiunge don Lorenzo, «in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra “giusta” (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa alle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana […]. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altro soldati che avevano obiettato». I soli difensori della patria sono stati gli obiettori di coscienza al fascismo, che hanno anticipato il futuro della democrazia, così come gli obiettori di coscienza in galera nel 1965 anticipavano un futuro senza guerre: «Aspettate a insultarli» – scrive il priore, «domani scoprirete che sono dei profeti».
La risposta di don Milani, che s’inserisce all’interno di un’importante campagna, laica e cattolica, per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, porta alla denuncia del priore di Barbiana da parte delle associazioni combattentistiche, insieme a un’infinità di insulti e minacce fasciste contro la sua persona. Già gravemente ammalato, non potendo partecipare al processo, don Milani invia il 30 ottobre 1965 anche ai giudici una lunga e articolata lettera difensiva, nella quale rivendica e approfondisce le ragioni della risposta ai cappellani militari. Ripartendo dal ripudio costituzionale della guerra preso sul serio: l’articolo 11 «è un invito a buttar tutto all’aria: all’aria buona», ossia il vero fondamento antifascista della Costituzione, il cambiamento più radicale rispetto al militarismo che è stato il fondamento identitario primario del fascismo. Così come il superamento delle frontiere, paletti “sempre in viaggio”, ma sacralizzati dalla scuola fascista insieme al colonialismo imperialista. Una volgare mistificazione ricevuta da studente, che il priore si rifiuta di riproporre come maestro, il cui compito è invece la demistificazione.
Mistificazione è stata quella che ha coperto i criminali di guerra italiani che hanno usato i gas contro le popolazioni dell’Etiopia, obbedendo agli ordini di Mussolini; mistificazione è stata l’obbedienza dei gerarchi nazisti, condannati per questo a Norimberga e Gerusalemme; mistificazione è quella che assolve il crimine di guerra delle bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki, salvo il pentimento di Eatherly. Mistificazioni possibili attraverso i meccanismi di de-responsabilizzazione fondati sull’obbedienza, nei quali il crimine passa al denominatore, è diviso tra tutti i partecipanti, “ridotto a millesimi”. Ma dopo Hiroshima è necessario colmare il “dislivello prometeico” (Anders) tra progresso tecnico e progresso morale: per far questo è necessario avere il coraggio di dire ai giovani che «l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni». La responsabilità è personale. Soprattutto nella guerra moderna dove c’è una progressione inversamente proporzionale tra vittime civili (sempre maggiori) e militari (sempre minori) e dove, in epoca atomica, “la guerra futura” è impossibile che sia di difesa, ma solo di “aggressione”, se si usano per primi le armi nucleari, o di “vendetta”, se lanciate dai siti superstiti dopo essere stati colpiti dai missili avversari. Allora, se non esiste più la guerra di difesa, nell’epoca atomica «non esiste più la guerra giusta». Siamo stati avvisati dagli scienziati [il celebre manifesto di Einstein e Russel per il disarmo è di 10 anni prima] che è in gioco è la sopravvivenza della specie umana, osserva don Milani, «e noi stiamo qui a questionare se al soldato sia lecito distruggere la specie umana?».
Nel 1965, ai ragazzi di Barbiana, ai cappellani militari e ai giudici don Lorenzo Milani stava anche parlando di noi e della nostra obiezione di coscienza alla guerra di oggi. Della loro e della nostra responsabilità.
È la sintesi della relazione svolta il 2 settembre a Firenze nella Giornata di studio “100 anni di don Milani: la radice, i rami, i fiori”
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