IRAN: UNA CRISI DI LEGITTIMITÀ

Tratto da ilMulino, di Renzo Guolo

Chi manifesta non chiede una correzione di rotta del “sistema”, ritenuta impossibile, ma la sua fine. Il che muta anche natura e intensità della repressione

La rivolta innescata dalla morte di Mahsa Amini è sfociata in una crisi senza precedenti nella Repubblica islamica d’Iran. Centinaia di vittime e migliaia di arresti costituiscono il provvisorio bilancio di un sommovimento che scuote alle fondamenta il regime. Alla protesta delle giovani donne urbane contro la biopolitica islamista fondata sul controllo sociale del corpo femminile, simboleggiata dal disvelamento pubblico di massa, dal taglio di quei capelli che, secondo il regime, vengono esibiti “ostinatamente” dalle bad hejab (le “mal velate”), trasformando la seduzione in sedizione, si è saldata quella degli uomini. In strada scendono ormai non solo donne ma anche molti uomini, le une e gli altri di diversa condizione sociale e differenti etnie.

Chi manifesta non chiede una correzione di rotta del “sistema”, ritenuta impossibile, ma la sua fine. E ciò muta anche natura e intensità della repressione. Negli scorsi decenni nella Repubblica islamica non sono mancate forti fibrillazioni: dallo scontro tra conservatori e riformisti durante l’era Khatami alla protesta dell’Onda verde contro il “colpo di Stato nelle urne” che ha confermato Ahmadinejad alla presidenza, sino ai moti contro il carovita repressi nel sangue. Ma la situazione in corso assume i tratti di una vera e propria crisi di legittimazione. In discussione non vi è solo un indirizzo politico, o una stretta più o meno rigida dei costumi, bensì la stessa natura del regime. Come rivela un gesto che, in altre circostanze, poteva sembrare solo un’irridente pratica goliardica: lo schiaffo che, per strada, fa volare via il turbante dei chierici sciiti. Oltraggio che esprime, anche plasticamente, la fine della sacralità del potere.

<<In discussione non vi è solo un indirizzo politico, o una stretta più o meno rigida dei costumi, bensì la stessa natura del regime>>

La protesta può condurre al tracollo della Repubblica islamica? Estensione, dinamiche, “stanchezza” di un potere sempre meno in grado di chiamare alla “mobilitazione totale”, farebbero pensare di sì: ma l’esito non è affatto scontato. Il regime dispone ancora di una base di massa, in particolare tra i corpi militari e paramilitari, dai Pasdaran, i “guardiani (della rivoluzione islamica komeinista)” ai Basiji (la polizia religiosa), e tra i molti beneficiari degli interventi a favore dei “diseredati” finanziati dalle fondazioni religiose che fanno capo al clero conservatore. Forze decise a non cedere il passo senza reagire.

Quanto ai rivoltosi, sommano insieme forza e debolezza. Le nuove generazioni in piazza, cresciute fuori da ogni orizzonte politico e globalmente connesse, non sono gravate dal fardello della memoria. Dunque, nemmeno da quella della sconfitta. Condizione psicologica che si traduce in audace innalzamento della sfida. Ma una rivolta non è solo questione di effervescenza collettiva: la mancanza di leadership e di un’organizzazione che consenta di restare in scena malgrado la repressione – dimensione che differenzia un moto da un movimento, una rivolta da una rivoluzione, un disagio esistenziale da un progetto politico –, restano fattori decisivi. Dalla piazza iraniana emergono invece, per ora, solo volti e nomi delle vittime. Del resto, il regime ha messo fuori gioco tutte le opposizioni non di “sistema”. Quanto alla “resistenza” estera non pare, per il momento, in grado di svolgere un ruolo significativo: anche se Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia sembrano decisi a sostenere chi si ribella.

Senza strutturarsi politicamente la protesta rischia di diventare un sanguinoso rito sacrificale. In passato a beneficiare delle mobilitazioni contro i conservatori religiosi erano i riformisti. La Repubblica islamica è, infatti, un’oligarchia di fazioni, articolata in veri e propri partiti ritenuti legittimi se si riconoscono nel “sistema”. Attori che agiscono in una cornice istituzionale imperniata su organi a legittimazione politica, come il presidente della Repubblica o il Parlamento, e organi a legittimazione religiosa, come la Guida suprema o il Consiglio dei Guardiani. Quando tali organi sono politicamente omogenei e, come oggi, sono controllati dai conservatori religiosi, gli spazi per le fazioni inclusive, come quella riformista, si contraggono.

<<I moti di piazza sono imponenti: tuttavia, senza strutturarsi politicamente la protesta rischia di diventare un sanguinoso rito sacrificale>>

La sponda riformista ha costituito, allo stesso tempo, una protezione e un vincolo per la piazza, dal momento che per timore, scarsa convinzione, rapporti di forza, quella fazione non ha mai condotto sino in fondo lo scontro. È accaduto tra il 1997 e il 2005, durante l’era dell’allora presidente Khatami; nel 2009, con la protesta dell’Onda contro i brogli elettorali che sanciscono la vittoria del presidente uscente Ahmadinejad su Mousavi, erede designato del khatamismo ormai in declino. Khatami e Mousavi, così come il leader della corrente pragmatica Rafsanjani, che nella circostanza prenderà le distanze dalla repressione, erano comunque figli della Repubblica islamica. Figli divorati dalla rivoluzione divenuta regime ma pur sempre figli! Si distinguevano dai conservatori per i mutamenti che intendevano perseguire, non per la volontà di cambiare il “sistema”, tenacemente difeso dai khomeinisti in turbante. Oggi sia Khatami sia un realista come l’ex presidente del Parlamento Larijani esortano i fedelissimi di Khamenei a fermarsi e cercare di ricucire. Ma la piazza ha ormai imboccato traiettorie non intercettabili, nemmeno da quanti presidiano i margini del sistema. Situazione che può preludere a un indiscriminato schiacciamento della rivolta senza leader.

In Parlamento i conservatori religiosi hanno marchiato i rivoltosi come mohareb, nemici di Dio: dunque punibili con la pena di morte. E quando gravi tensioni minacciano la Repubblica islamica sono i Pasdaran, fedeli al compito di “difendere la Rivoluzione e le sue conquiste”, a far udire il “tintinnar di sciabole”. Rumore udito in passato dai riformisti, accusati di “gorbaciovismo”; dai capi dell’Onda bollati come “deviati”; dalla destra radicale di Ahmadinejad, imputata di spingere su una linea “antimperialista e antisionista” che rischiava di condurre il Paese a uno scontro militare destinato a mettere a rischio la stessa sopravvivenza del regime. Lo hanno fatto sentire anche in queste settimane, dichiarando chiuso il tempo delle proteste.

L’assenza di sapere insurrezionale, di una leadership capace di scorgere i rischi e valutare la rilevanza del fattore tempo nello scontro frontale, oltre che di una fazione di sistema sulla quale premere per indurre i manifestanti a rientrare nei ranghi, potrebbe spingere i Pasdaran, qualora polizia e Basiji non riuscissero a stroncare l’insubordinazione, a intervenire. I più anziani e alti in grado tra loro conoscono i rischi del logoramento di massa: hanno già visto trionfare una “rivoluzione con le mani nude”, anche se, ai tempi dello shah, erano dall’altra parte della barricata.

Un intervento diretto, però, sarebbe l’extrema ratio. I contraccolpi potrebbero, tra l’altro, vanificare una suggestione mai del tutto abbandonata, riemersa con la crisi del velo e dei turbanti: dare forma loro stessi, sia pure seguendo una diversa linea, al progetto extra-clericale di Ahmadinejad, fondato sulla sostituzione del ceto politico della fazione dominante. Facendo transitare il “sistema”, dopo la scomparsa di Khamenei, ultimo esponente di primo piano degli antichi compagni di Khomeini, sotto le insegne di un khomeinismo senza clero destinato a fare della Repubblica islamica una sorta di regime militare. Ispirato da un khomeinismo con le stellette, diverso da quello normativista e religioso dei conservatori che si richiamano al “governo del dotto islamico” o da quello sociale, agitato dalla destra radicale, inneggiante ai “diseredati”. Espressione di un realismo politico in divisa, capace di elevare l’Iran a potenza riconosciuta e portare a compimento il passaggio, anche formale, a un ordine che da tempo ha sostituito il Dio del Politico al Dio della Devozione.

Vedi anche:

Il grido di libertà delle donne iraniane 

Tratto da cortiledeigentili 

Il velo nella storia dell’Islam ha assunto negli anni valenze diverse: è stato simbolo di modernità, quando, nel 1936, sotto lo shah Reza Pahlavi venne imposto alle donne di toglierlo in nome di una modernità non da tutte però condivisa e comunque imposta. Poi è diventato, alla fine degli anni Settanta, simbolo politico della resistenza al regime monarchico dello shah Reza Pahlevi, per diventare poi simbolo religioso, prima, e simbolo di oppressione, subito dopo, quando, con la rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Komehini e la conseguente repressione frutto del suo regime, lo stesso ayatollah ne annuncia l’obbligatorietà per tutte le donne il 6 marzo 1979.

Sono sotto gli occhi di tutti le fortissime repressioni subite anche di recente dalle donne iraniane, che si oppongono all’ennesima imposizione che toglie loro la libertà di scegliere. Più di 200 morti, tra cui anche alcuni minorenni e migliaia di persone incriminate non hanno però fermato e non fermano la forza dilagante delle proteste che si sono estese, non solo in Iran, in molte categorie lavorative e in molti ordini professionali come nelle scuole, ma l’onda di protesta si è propagata in moltissime capitali europee e un po’ ovunque nel mondo.

La morte di Mahsa Amini, ragazza del Kurdistan iraniano in vacanza a Teheran con la sua famiglia, avvenuta sotto custodia della polizia morale, che l’aveva fermata il 13 settembre, per aver indossato in modo inappropriato il velo, non ha fatto che inasprire le proteste che si sono esplicitate con il taglio di ciocche di capelli da parte di molte donne iraniane. Gesto ripreso in segno di vicinanza e solidarietà in tutto il mondo. Tagliarsi i capelli infatti è stato un gesto che ha contagiato migliaia di donne, ma anche di uomini, in moltissimi Paesi. Un’azione apparentemente semplice che nasconde però un significato profondo per la cultura iraniana che ricorda una antica cerimonia locale che significa “lutto”. Si tratta infatti di una pratica messa in atto durante eventi tristi per simboleggiare rabbia e sconforto. Un gesto che proprio per la sua immediatezza e il suo significato ha subito travalicato ogni confine superando barriere linguistiche e culturali.

Le proteste si sono propagate dalla provincia del Kurdistan a più di 80 località sparse nel Paese. La manifestazione più importante dalla rivoluzione del 1979. L’uso di gas lacrimogeni fino a quello di pistole con proiettili di metallo sparati indistintamente sui dimostranti, uomini e donne, hanno segnato un’escalation nella repressione messa in atto dalla Repubblica islamica. Ma è stata anche un’ulteriore molla per i numerosissimi attivisti sparsi in tutto il mondo che hanno raccolto il grido di libertà delle donne iraniane facendolo proprio. In 80 mila sono scesi in piazza a Berlino, così come a Tokyo sono stati numerosissimi a manifestare per i diritti delle donne iraniane e non solo, e così a Roma come a Strasburgo, a Parigi come a Madrid e ancora a Zurigo e Berna e a Toronto, un’eco che è arrivata fino a Melbourne. Neanche l’oscuramento parziale di Internet, messo in atto dal regime, ha potuto silenziare la loro protesta. Grazie all’impiego dei social media l’eco delle donne iraniane ha continuato a propagarsi inesorabilmente portando con sé tutto il dolore ma anche la forza e la voglia di questo popolo di vivere liberamente. Amnesty International, che da anni denuncia la violazione dei diritti umani in Iran, in merito alle recenti repressioni ha raccolto prove sull’uso illegale della forza durante le manifestazioni che hanno portato a più di 300 morti di cui decine di minorenni, sugli arresti indiscriminati (circa 15 mila persone arrestate dalle manifestazioni di metà settembre), sulla pratica della tortura e sulle morti seguite agli arresti.

A due mesi dalla morte di Mahsa Amini le proteste in Iran non accennano ancora a diminuire, anzi, dopo gli attacchi armati sulla folla, la rabbia aumenta anche per la recente uccisione del piccolo Kian, bimbo di 10 anni colpito a morte mentre si trovava con il padre in auto a Izeh, nell’ovest dell’Iran. Le donne in strada continuano a tagliarsi ciocche di capelli o a bruciare i loro hijab, e da parte sua il Governo continua a mettere in atto brutali repressioni e arresti (tra cui anche 51 giornalisti). Migliaia le incriminazioni per offesa a Dio da parte del tribunale rivoluzionario islamico (mille nuove incriminazioni solo nell’area di Teheran a fine ottobre), a cui sono seguiti altrettanti processi sommari. Tra le persone incriminate anche l’artista rapper Saman Yasin, accusato di avere supportato alcune manifestazioni. Anche l’Onu è recentemente intervenuto per esortare le autorità iraniane a “interrompere l’uso della pena di morte come strumento per reprimere le proteste”, ribadendo “l’appello a rilasciare tutti i manifestanti che sono stati arbitrariamente privati della loro libertà”. Tanti gli appelli, come quello del grande pianista Ramin Bahrami, che si è rivolto ai leader politici e al Santo Padre affinché sostengano apertamente la protesta popolare contro il regime. E proprio di recente Papa Francesco, di ritorno dal suo viaggio in Barhein, si era pronunciato così a proposito della rivolta in Iran: “Dio non ha creato l’uomo e poi gli ha dato un cagnolino per divertirsi. Una società che non è capace di mettere la donna al suo posto non va avanti. Il maschilismo uccide la società”.

La global connectivity creata dal popolo iraniano rappresenta il potere di un’idea di libertà che è ben più forte di qualsiasi brutale repressione. “Donna, vita, libertà”. “Zan, zendegi, azadi” è lo slogan urlato dalle manifestanti iraniane. Tre parole così semplici e così fortemente connesse tra loro da rappresentare quasi un’unica parola, un monito, il segno di una rivoluzione sociale che parte, ancora una volta, dal coraggio delle donne.

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