IL FESTIVAL SABIR E L’EMERGENZA MIGRANTI

Tratto da Il Manifesto di Marinella Salvi

Emergenza. È questo il concetto, lo slogan, da sfatare. Lo sa bene chi quotidianamente assiste agli arrivi dalla rotta balcanica, come da tutte le rotte che portano i migranti in Italia, o chi li segue nel loro frustrante peregrinare tra hotspot, questure, stazioni, piazze, centri di detenzione. Clandestini per legge perchè così li si è voluti. Ributtati indietro alle frontiere, destinati a nascondersi o a stazionare inermi in attesa di un documento o di essere rispediti a casa. Un disagio troppo spesso contrabbandato per degrado quando il degrado è nell’insipienza di chi non gestisce un flusso inarginabile che è cominciato prima di ieri e continuerà ben dopo domani.

Trieste non è esente dalla propaganda di certa politica e non è un caso se l’amministrazione di destra della città giuliana sia l’unico comune che non ha voluto offrire il proprio patrocinio a Festival Sabir. Ma proprio per questo di alternative occorre parlare. Questo si riprometteva e questo ha fatto l’appuntamento che si è svolto quest’anno a Trieste: tre giorni di eventi per raccontare le migrazioni in tutti i loro aspetti e condividere soluzioni da proporre e per le quali mobilitarsi.

Tre giorni che hanno raccolto molta attenzione: sale piene, centinaia di persone a seguire dibattiti, film, momenti dedicati alla formazione. Per ricordare che proprio a Trieste, negli anni della guerra jugoslava, si sono creati i primi grandi esempi di accoglienza diffusa, l’unica accoglienza vincente con ricadute positive per migranti e comunità accoglienti. Corridoi umanitari, snellimento dei processi burocratici, accoglienza organizzata, pensata, diffusa. Di questo si è parlato, questo chiede Sabir. Strada impervia se l’interlocutore pensa a muri e fototrappole, ma l’unica possibile perché il bubbone non scoppi.

Ha piovuto fitto fitto tutta la mattina, ieri, e poi un rombare di tuoni tra le nuvole nere e il timore diffuso che un temporale tenesse lontana la gente e mettesse in crisi la «Marcia contro i muri e per l’accoglienza», l’evento finale, tanto atteso, di Festival Sabir. Prima cento, poi mille, al castello di Socerb, in Slovenia, sono arrivati sempre più numerosi e improvvisamente il cielo si è aperto, è tornato l’azzurro e il sole ha asciugato le foglie fradicie.

Una fila colorata è scesa lungo la strada tra gli alberi, ha attraversato i piccoli insediamenti con le case di pietra, dai 350 metri di altitudine del Castello a San Dorligo della Valle adagiato nella pianura del torrente Rosandra che attraversa la valle omonima, quella che sembra una valle alpina con i punti di vedetta e i sentieri segnati, il «sentiero della pace» in primis, curato dalle comunità italiane e slovene in un angolo dove il confine tra i due Stati si confonde nella vegetazione. Marcia transfrontaliera, la prima con il Festival Sabir e associazioni, sindacati, gente dell’una e dell’altra parte.

Socerb è uno spettacolare balcone naturale sul golfo di Trieste, il Carso, il vallone di Muggia, la vicina Capodistria e la penisola istriana. In cima all’enorme sperone roccioso, in territorio sloveno, il castello costruito per arginare le invasioni degli Ungari e poi per tenere a bada la via del sale nella pianura sottostante con l’eterna guerra tra Venezia e Trieste.

Da qui il panorama è magnifico e molti si sono attardati per fare foto e sorridere a tanta bellezza nonostante un resto di foschia sul mare che nascondeva e toglieva lucentezza. Italiani e sloveni assieme sono scesi sull’asfalto bagnato, percorrendo un costone che, via dalla strada, è irto di anfratti e dirupi e lo sa bene la vedova di quel trentenne algerino che ha visto il marito precipitare e morire tra i rovi il primo gennaio 2020, proprio mentre pensavano, passato il confine, di essere ormai in salvo.

Una rotta, questa che scende dalla rocca di Socerb e quell’altra che attraversa la Val Rosandra, particolarmente usata dai migranti: si incrociano ogni giorno sulla strada mentre camminano verso la città o si fermano sotto la pensilina degli autobus e se ne vedono le tracce negli abiti abbandonati nel bosco.

Non da oggi, non da questi ultimi anni e non solo andando indietro ai tempi dei passaggi clandestini di cose e persone quando il confine tra Italia e Jugoslavia era sigillato. Proprio in Comune di San Dorligo, nel piccolo cimitero della frazione di Moccò, sono sepolti quattro ragazzi africani trovati morti di freddo nella Valle, quattro vite crudelmente spezzate in un novembre particolarmente ostile ai quali la gente del luogo volle rendere omaggio accogliendoli tra le tombe dei propri cari. Era il 1973.

Così il commento a caldo dell’assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti: «Tre giorni di festival e una marcia per arrivare alla conclusione che non si vogliono muri ma ponti. Mi sembra un messaggio semplicistico e puerile che a ben vedere potrebbe essere ancor più semplificato con un ‘vogliamo l’invasione’».

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