CURE PALLIATIVE A DOMICILIO

Tratto da quotidianosanità di Cesare Fassari

In tutti i paesi dell’OCSE l’accesso tempestivo ad adeguate cure di fine vita per alleviare i sintomi per le persone con malattie terminali come dolore, dispnea e angoscia, è basso: è infatti meno del 40% la percentuale di chi riceve cure palliative.

Una percentuale che in Italia scende intorno al 35% anche se il nostro Paese ha recentemente implementato un modello di identificazione precoce dei pazienti con bisogni di cure palliative attraverso l’integrazione tra cure primarie e cure palliative domiciliari.

I dati, come evidente dalla tabella qui sotto, mostrano grandi differenze tra i paesi, con percentuali variabili dal 15% circa in Bulgaria e Ungheria a valori superiori al 60% negli Stati Uniti e in Finlandia.

I dati sono raccolti in un nuovo rapporto Ocse, Time for Better Care at the End of Life, che offre un’ampia panoramica della situazione delle cure palliative nella fase del fine vita in moltissimi Paesi dell’Ocse, presentando molti indicatori legati ai diversi aspetti dell’assistenza e non solo.

Tra questi, ad esempio, quello sul luogo di morte dei pazienti in fine vita. Purtroppo non abbiamo il dato italiano ma la ricerca incentrata su 24 Paesi Ocse evidenzia come, nonostante si preferisca morire a casa, la metà dei decessi avvenga in ospedale, spesso a causa della mancanza di supporto a domicilio e da parte della comunità.

E questo nonostante i dati di molti Paesi evidenzino che l’accesso alle cure palliative al di fuori delle strutture ospedaliere ha ridotto l’uso delle unità di terapia intensiva, dei farmaci e delle spese sanitarie complessive.

La fornitura di cure palliative per fornire conforto e migliorare la qualità della vita spesso poi avviene solo in una fase avanzata della malattia perché i meccanismi per garantire un accesso tempestivo sono scarsi.

L’assistenza erogata, inoltre, si legge nel rapporto Ocse, non sempre riflette i desideri del paziente e la qualità dell’assistenza è ancora troppo spesso scarsa per le persone in fin di vita.

Le informazioni e il confronto sullo stato di salute e sulle possibilità di cura nel fine vita sono meno frequenti di quanto dovrebbero, e la voce dei pazienti e dei loro familiari è ancora troppo spesso esclusa dalle decisioni riguardanti le cure: solo un quarto dei pazienti e dei professionisti compila direttive anticipate sulle volontà delle persone.

L’assistenza olistica non è sempre disponibile e le persone non sempre ricevono un adeguato sollievo dai sintomi, con una percentuale che varia dal 10% al 25% delle persone decedute all’età di 65 anni o più che ricevono troppo poco antidolorifici, troppo poco aiuto nella respirazione o troppo poco aiuto contro l’ansia.

All’opposto circa un terzo dei pazienti in fin di vita ricoverati in ospedale riceve un trattamento “aggressivo” che non è in grado di fornire conforto, prolungare la vita o dare qualche tipo di beneficio nel tempo.

A tutto ciò si aggiunge anche una situazione spesso caratterizzata da una forte frammentazione nella gestione delle terapie e della presa in carico che compromette l’erogazione efficace delle cure di fine vita e contribuisce a far sì che i pazienti spesso sperimentino molteplici sto end go e cambi di protocollo verso la fine della loro vita.

Vi sono inoltre misurazioni e benchmarking insufficienti sulla qualità dell’assistenza di fine vita in tutti i paesi con più di un paese OCSE su quattro che non dispone di programmi di audit e valutazione per monitorare la qualità alla fine della vita.

L’assistenza alla fine della vita soffre anche di carenze di finanziamento e mancanza di politiche basate sull’evidenza delle terapie e delle modalità di presa in carico. I sistemi pubblici di protezione sociale forniscono una copertura parziale delle spese sostenute per alleviare i sintomi del fine vita in un terzo dei paesi OCSE, determinando spese vive elevate e una forte dipendenza dai familiari.

Anche la ricerca sulle cure di fine vita è insufficiente e l’infrastruttura di dati per fornire un quadro completo delle cure di fine vita in più servizi e contesti è ancora debole con meno del 30% dei paesi OCSE che ha un’agenda di ricerca nazionale e meno del 16% che ha un’agenda di ricerca locale sull’argomento.

Più personale e più fomato. Tali carenze, sottolinea l’Ocse, richiedono una maggiore priorità politica e misure specifiche per migliorare l’assistenza di fine vita.

In primo luogo, va affrontata la carenza di personale per migliorare l’accesso dell’assistenza attraverso l’ampliamento delle conoscenze sulle cure di fine vita tra diversi professionisti e contesti assistenziali.

Oltre a formare più operatori sanitari con esperienza nella gestione delle cure di fine vita, per l’Ocse sarà utile incentivare le cure di fine vita nei contesti di cura preferiti dal paziente anche prevedendo diverse forme organizzative con team a guida infermieristica come sperimentato con successo dall’Australia dove i team guidati da infermieri si sono dimostrati efficaci per facilitare l’accesso alle cure palliative, soprattutto nelle aree scarsamente popolate.

La creazione di team multidisciplinari in grado di fornire cure olistiche e garantire servizi di assistenza di fine vita nei contesti preferiti dai pazienti sono passi importanti verso un’assistenza completa centrata sui bisogni dei pazienti e delle loro famiglie. E l’Ocse fa anche l’esempio dell’Inghilterra, che ha adottato linee guida che incoraggiano il lavoro dei team multidisciplinari e sottolineano il ruolo cruciale svolto dalla pianificazione anticipata dell’assistenza e dalla condivisione delle informazioni all’interno del team multidisciplinare, per garantire il coordinamento dell’assistenza.

Resta il fatto che uno dei nodi da sciogliere è quello della ancora scarsa conoscenza sulle cure palliative da parte del personale sanitario in generale che spesso può rappresentare un ostacolo all’accesso a queste cure da parte di molti pazienti.

Per questo, sottolinea l’Ocse, una migliore formazione degli operatori sanitari può contribuire a promuovere la comunicazione e il coinvolgimento dei pazienti e delle loro famiglie nel processo decisionale relativo alla salute dei loro cari ed è dimostrato che gli operatori sanitari che hanno ricevuto una formazione sulle cure di fine vita hanno meno probabilità di fornire trattamenti eccessivi e cure aggressive improprie.

In proposito l’Ocse riporta alcuni dati interessanti sull’obbligatorietà dell’insegnamento delle cure palliative nel corso degli studi infermieristici che fanno ben sperare: su 24 Paesi esaminati 19 la prevedono (l’Italia è tra questi) e solo 4 no (uno, la Svezia, non ha fornito l’informazione).

Ugualmente sono molti i Paesi (e l’Italia è ancora tra questi) che prevedono la disponibilità.

Anche per la formazione medica sono molti i Paesi in cui l’insegnamento delle cure palliative nel corso di laure è obbligatorio, ma in questo caso l’Italia non è tra questi.

Molto articolata infine la situazione per quanto riguarda la formazione alle cure palliative del personale che lavora nelle strutture di lungodegenza con percentuali che variano dal 90% di personale formato in Lituania a percentuali inferiori al 20% in Repubblica Ceca, Italia, Grecia, Israele e addirittura alla totale assenza di personale qualificato in Danimarca, Estonia, Finlandia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Lettonia, Lussemburgo, Norvegia, Portogallo, Repubblica Slovacca, Slovenia, Svezia, Turchia.

Eutanasia e suicidio assistito: qual è la situazione? In conclusione del suo rapporto l’Ocse sottolinea comunque che la tematica del fine vita e di come garantire maggiore dignità e qualità della vita possibili ai malati terminali debba essere accompagnata da una maggiore discussione pubblica sulla morte e sul morire per migliorare la conoscenza delle persone e ridurre lo stigma intorno alle cure di fine vita.

E l’Ocse fa anche il punto sulle diverse legislazioni in vigore in merito all’eutanasia e al suicidio assistito. Australia, Tasmania, South Australia e Queensland stanno attualmente lavorando a una legislazione per il suicidio assistito che dovrebbe entrare in vigore tra il 2022 e il 2023.

Il Belgio consente l’eutanasia non volontaria solo se la persona ha espresso in anticipo la propria volontà di ricevere l’eutanasia.

Il Cile sta attualmente discutendo una legislazione per consentire l’eutanasia e il suicidio assistito.

L’Irlanda sta attualmente discutendo la legalizzazione del suicidio assistito.

In Israele, secondo la legge del 2005 sui malati terminali, è consentito sospendere il trattamento, mentre non è consentito sospendere il trattamento.

In Italia, ricorda l’Ocse, nel 2021 sono state raccolte oltre un milione di firme per chiedere un referendum sulla depenalizzazione dell’eutanasia ma nel 2022 la Corte Costituzionale ha respinto tale richiesta.

In Norvegia, la Legge 19 giugno 2009 n.74 stabilisce che “se qualcuno per pietà uccide un malato terminale, o che per altri motivi è prossimo alla morte, la pena può essere ridotta al minimo della pena o ad una pena più lieve di quello per omicidio”.

In Portogallo sono in corso lavori sulla legislazione per depenalizzare l’eutanasia.

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