Cospito non deve morire

Tratto da Volere la luna

Appello al Ministro della giustizia e all’Amministrazione penitenziaria

Alfredo Cospito è a un passo dalla morte nel carcere di Bancali a Sassari all’esito di uno sciopero della fame che dura, ormai, da 80 giorni. Detenuto in forza di una condanna a 20 anni di reclusione per avere promosso e diretto la FAI-Federazione Anarchica Informale (considerata associazione con finalità di terrorismo) e per alcuni attentati uno dei quali qualificato come strage pur in assenza di morti o feriti, Cospito è in carcere da oltre 10 anni, avendo in precedenza scontato, senza soluzione di continuità, una condanna per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. Dal 2016 è stato inserito nel circuito penitenziario di Alta Sicurezza 2, mantenendo, peraltro, condizioni di socialità all’interno dell’istituto e rapporti con l’esterno. Ciò sino al 4 maggio 2022, quando è stato sottoposto al regime previsto dall’art. 41 bis ordinamento penitenziario, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione dell’aria a due ore trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri e riduzione della socialità a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti. Per protestare contro l’applicazione di tale regime e contro l’ergastolo ostativo, il 20 ottobre scorso Cospito ha iniziato uno sciopero della fame che si protrae tuttora con perdita di 35 chilogrammi di peso e preoccupante calo di potassio, necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari tra cui il cuore. La situazione si fa ogni giorno più grave, e Cospito non intende sospendere lo sciopero, come ha dichiarato nell’ultima udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma: «Sono condannato in un limbo senza fine, in attesa della fine dei miei giorni. Non ci sto e non mi arrendo. Continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro».

Lo sciopero della fame di detenuti potenzialmente fino alla morte è una scelta esistenziale drammatica che interpella le coscienze e le intelligenze di tutti. È un lento suicidio (che si aggiunge, nel caso di Cospito, agli 83 suicidi “istantanei” intervenuti nelle nostre prigioni nel 2022), un’agonia che si sviluppa giorno dopo giorno sotto i nostri occhi, un’autodistruzione consapevole e meditata, una pietra tombale sulla speranza. A fronte di ciò, la gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua ma deve passare in secondo piano. Né vale sottolineare che tutto avviene per “scelta” del detenuto. Configurare come sfida o ricatto l’atteggiamento di chi fa del corpo l’estremo strumento di protesta e di affermazione della propria identità significa tradire la nostra Costituzione che pone in cima ai valori, alla cui tutela è preposto lo Stato, la vita umana e la dignità della persona: per la sua stessa legittimazione e credibilità, non per concessione a chi lo avversa. Sta qui – come i fatti di questi giorni mostrano nel mondo – la differenza tra gli Stati democratici e i regimi autoritari.

La protesta estrema di Cospito segnala molte anomalie, specifiche e generali: la frequente sproporzione tra i fatti commessi e le pene inflitte (sottolineata, nel caso, dalla stessa Corte di assise d’appello di Torino che ha, per questo, rimesso gli atti alla Corte costituzionale); il senso del regime del 41 bis, trasformatosi nei fatti da strumento limitato ed eccezionale per impedire i contatti di detenuti di particolare pericolosità con l’organizzazione mafiosa di appartenenza in aggravamento generalizzato delle condizioni di detenzione; la legittimità dell’ergastolo ostativo, su cui il dibattito resta aperto anche dopo l’intervento legislativo dei giorni scorsi e molto altro ancora. Non solo: la stessa vicenda di Cospito è ancora per alcuni aspetti sub iudiceché la Corte costituzionale deve pronunciarsi sulla possibilità che, nella determinazione della pena, gli effetti della recidiva siano elisi dalla concessione dell’attenuante della lievità del fatto e la Cassazione deve decidere sul ricorso contro il decreto applicativo del 41 bis. Su tutto questo ci si dovrà confrontare, anche con posizioni diverse tra di noi. Ma oggi l’urgenza è altra. Cospito rischia seriamente di morire: può essere questione di settimane o, addirittura, di giorni. E l’urgenza è quella di salvare una vita e di non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile. Il tempo sta per scadere.

Per questo facciamo appello all’Amministrazione penitenziaria, al Ministro della Giustizia e al Governo perché escano dall’indifferenza in cui si sono attestati in questi mesi nei confronti della protesta di Cospito e facciano un gesto di umanità e di coraggio. Le possibilità di soluzione non mancano, a cominciare dalla revoca nei suoi confronti, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria, del regime del 41 bis, applicando ogni altra necessaria cautela. È un passo necessario per salvare una vita e per avviare un cambiamento della drammatica situazione che attraversano il carcere e chi è in esso rinchiuso.

Per aderire all’appello: https://forms.gle/jtekmZS4zsdLPUht6

Vedi le adesioni pervenute

Tratto da Il pungolo rosso

[…]

1. La vicenda di Alfredo Cospito è approdata fortunatamente ad un livello di conoscenza generale, investendo gli attori politici attuali, in una fase politica, questa, che si è inaugurata proprio con un decreto legge, di fine ottobre scorso, che rafforza – piuttosto che depotenziarlo – l’ergastolo ostativo. Ci sono spiragli per un superamento? Siamo pronti ad una vera e propria pena costituzionalmente orientata?

Credo valga la pena ricordare quali siano le premesse della vicenda: Alfredo Cospito e Anna Beniamino sono stati condannati per il reato di strage cosiddetta politica, perché avrebbero collocato davanti alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano due ordigni artigianali, esplosi in orario notturno senza fare vittime né feriti, che hanno causato danni materiali non particolarmente significativi (non hanno interessato in alcun modo la stabilità e funzionalità dell’edificio), a seguito di un processo altamente indiziario.

Questa vicenda ha (per una volta) suscitato interesse non solamente in ristretti giri di “addetti ai lavori” o di militanti, per raggiungere il cosiddetto “grande pubblico”, determinando prese di posizione anche da ambienti e personaggi non sospettabili di simpatie per gli ambienti anarchici e tanto meno per i due condannati. Questo, credo, evidenzia ciò che molti hanno percepito: la sostanziale ingiustizia di “questa” condanna per “questo” reato, al di là delle opinioni politiche e soprattutto al di là delle valutazioni o considerazioni tecnico giuridiche che possono e devono essere effettuate in merito alla condanna decisa dalla Corte di Cassazione. Una condanna ed una qualificazione giuridica del fatto, è utile ricordare, che arriva all’ultimo grado di giudizio: in precedenza il reato era stato qualificato dalla Corte di Assise e dalla Corte di Assise di Appello come strage comune, reato sempre gravissimo che però prevede pene significativamente inferiori (pur nella loro asprezza: pena della reclusione non inferiore a 15 anni per la strage “comune”, pena “fissa” dell’ergastolo per la strage “politica”).

Solo la Corte di Cassazione ha per la prima volta accolto la richiesta dell’accusa di ritenere quel fatto una strage politica (e cioè di essere stata posta in essere allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato e di essere concretamente idonea a metterla in pericolo). Questo ha, secondo noi, privato gli imputati del diritto di mettere in discussione la sentenza di condanna e la qualificazione che di quel fatto è stata data, non tanto e non solo dall’accusa, ma soprattutto dal giudicante (diritto sancito dalla Costituzione e dalle Convenzioni Internazionali, che stabiliscono il principio secondo il quale il condannato deve avere diritto ad un secondo grado di giudizio).

La Cassazione, dunque (sostanzialmente mutando la propria giurisprudenza in materia di strage comune e politica), ha definito per la prima e soprattutto ultima volta quei fatti inquadrabili nella previsione più grave, con una decisione che non può (più e mai) essere messa in discussione (in merito a tale punto abbiamo sollevato una questione di legittimità costituzionale, ritenendo che il sistema processuale avrebbe dovuto imporre alla Cassazione di rinviare per una nuova decisione sul punto al giudice di merito; questione che, però, non è stata evidentemente ritenuta fondata dalla Corte di Appello).

Questa vicenda, dunque, ha potuto superare l’interesse dei “tecnici” anche in considerazione del fatto che l’eventuale condanna all’ergastolo impedirebbe il riconoscimento di benefici penitenziari e dunque priverebbe di una reale prospettiva di poter – prima o poi – riacquistare la libertà; si rientrerebbe, infatti, in uno dei casi di ergastolo ostativo, secondo una definizione che ormai è entrata nella conoscenza comune.

2. Sappiamo che durante il governo Draghi si erano manifestati alcuni passi avanti soprattutto su spinta della CEDU. Stavamo ormai per accettare che anche i “non pentiti” potessero avere alcuni benefici penitenziari. Sappiamo tuttavia che questi passi avanti, per quanto oggi storia vecchia, sono stati molto criticati e contrastati da una parte cospicua di associazioni antimafia, che bene o male, si considerano parti sociali vive di un assetto democratico. Come si contesta questo approccio legalitario senza voler per forza sembrare di effettuare ‘regalie’ alla mafia? L’approccio repressivo che si muove rinvenendo tra le pieghe dell’ordinamento penale i fossili viventi del fascismo, come il reato di saccheggio e devastazione, può definirsi, a tutti gli effetti, un tentativo dello stato di punire – in un’ottica retributiva – a tutti i costi? Quanto è veritiera quell’iscrizione di reato? Poteva effettivamente essere evitato?

Sulla questione dell’ergastolo ostativo è da tempo in atto una battaglia tra chi continua a sostenere che la pena deve sempre rispondere principalmente al fine rieducativo imposto dalla Costituzione (e soprattutto non possa essere né solo né principalmente vendetta, né possa essere contraria, di fatto, al senso di umanità) e chi invece vede nel criterio così detto retributivo il principio che deve ormai sovraintendere (in via sostanzialmente esclusiva) al sistema penale. In questa lotta, ormai da anni, una delle due parti rivendica la propria purezza di unica portatrice del supremo interesse della difesa dello Stato dalla mafia. Una lotta, inoltre, talvolta più nominativa che effettiva, se solo si pone mente alle “infiltrazioni mafiose” che le cronache ci restituiscono anche in ambienti politici, sociali, associativi in teoria dediti a tale lotta. Lotta, infine, che dalla mafia si è facilmente estesa ad ambiti radicalmente diversi come quello dell’anarchia o dell’antagonismo politico radicale).

Sappiamo che la questione dell’ergastolo ostativo ha superato l’ambito della disquisizione accademica per approdare alle massime Corti nazionali e internazionali (la Corte di Cassazione, la Corte Costituzionale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), che hanno riconosciuto nelle insuperabili rigidità dell’ergastolo ostativo un vulnus ai diritti umani (in particolare al divieto di pene o trattamenti inumani e degradanti) e alla finalità rieducativa della pena.

La risposta ai principi imperativi formulati delle Corti è stata però non solo insoddisfacente, ma radicalmente eccentrica rispetto a quello che avrebbe dovuto essere la finalità della riforma.

Non è questo il luogo e il momento per discutere della “timidezza” con quale la Corte Costituzionale, pur riconoscendo la sussistenza (in atto e non in potenza) di una illegittimità costituzionale (una situazione che dunque non potrebbe essere giuridicamente “tollerata”), invece di dichiarare l’illegittimità di quelle norme e di rimuoverle dal sistema giuridico (sanando, curando immediatamente la frattura dei principi costituzionali) ha rinviato la questione al Parlamento chiedendo di porre mano alla normativa, consentendogli anche di “sforare” il termine inizialmente concesso.

Quello che qui si rileva è che la risposta è stata tale da rafforzare, invece di attenuare, quelle stesse rigidità che erano state la causa delle censure della CEDU e della Corte Costituzionale.

Di fatto il D.L.162/22 da un lato allarga l’ambito dei casi in cui la condanna per alcuni reati può essere di ostacolo alla concessione dei benefici penitenziari, dall’altro rende quasi impossibile la concessione dei benefici e il superamento dell’ostatività (non solo per l’ergastolo ostativo, ma per le condanne per un’ampia serie di reati). Al condannato, di fatto, continua ad essere richiesta la collaborazione; altrimenti (anche se la collaborazione risulta impossibile!) non bastano buone condotte e neppure condotte riparatorie o dichiarazioni di dissociazione, essendo necessario che sia egli stesso a “provare” che ci sono specifici elementi “che consentano di escludere l’attualità̀ di collegamenti con la criminalità̀ organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché́ il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Da un lato una prova diabolica, dall’altro la pretesa dell’esclusione di legami non solo con l’organizzazione criminale o terrorista, ma anche e soprattutto con il “contesto”; inoltre, non solo non devono essere sussistenti tali legami, ma non deve esserci neppure il pericolo (come dimostrare che non vi è pericolo?) che possano ripristinarsi, anche indirettamente.

Tornando all’applicazione della nuova disposizione ad un condannato anarchico, allora, ciò che si pretenderebbe è probabilmente che si dimostri una definitiva separazione dalla stessa idea anarchica (o dalla ideologia politica cui in qualche modo ispirava l’associazione) e che neppure indirettamente tale legame (con l’ambiente più ancora che con l’associazione) possa ripristinarsi. Se pensiamo ad un condannato per reati di mafia potrebbe significare che sia necessario che quella persona possa stabilirsi in un luogo dove non è presente in alcun modo nessun soggetto che possa pensarsi possa far riferimento ad una organizzazione di carattere mafioso, e dal quale non abbia nessuna possibilità di mettersi in collegamento con luoghi o persone che invece fanno parte di quel “contesto”; se pensiamo ad un condannato come Cospito o Beniamino potrebbe significare che debba provarsi la definitiva e completa rescissione di ogni legame anche meramente amicale o ideologico, non solo con soggetti condannati o indiziati per reati di associazione terrorista, ma anche con qualunque soggetto che sia ritenuto appartenere o essere vicino a quel contesto anarchico (da dimostrare non si comprende come), così da potersi escludere collegamenti con il “contesto” e il pericolo che tali legami si ripristinino.

Che questo possa essere l’approdo, l’interpretazione, del sistema repressivo a questa tipologia di condannati (i “nemici” o coloro i quali così vengono disegnati) è reso plasticamente evidente proprio dalla vicenda della sottoposizione al regime del 41-bis di Alfredo Cospito (nonostante ergastolo ostativo e regime del 41-bis sono questioni distinte, infatti, essi obbediscono ad una medesima ideologia punitiva): continuando a esprimere le sue idee ed a partecipare al dibattito politico ed ideologico dal carcere – a esprimere idee, non a preparare o ordinare attentati – dimostra di non avere rescisso i legami, e questo non con l’organizzazione ma con il “contesto”, e quindi deve essere ulteriormente isolato e punito. Non si tratta di prevenzione ma di punizione pura, volta all’annientamento della persona.

Rispondendo alla domanda, allora, devo esprimere pessimismo, solo mitigato dal dibattito che la questione di Alfredo Cospito (e di Anna Beniamino) ha determinato.

La pena costituzionale mi sembra sia stata da tempo sacrificata sull’altare di una pena retributiva che è sempre più pena vendicativa, nella quale il nemico o supposto tale perde le caratteristiche di essere umano, deve essere esemplarmente annientato. E, attenzione, questo non avviene solo per i reati di criminalità mafiosa, né per i reati di terrorismo (e qui tra i primi nemici o mostri negli ultimi anni ci sono stati i terroristi – molto spesso più presunti che tali – islamici, ma la categoria si è di molto estesa), ma per una vasta serie di reati, giungendo così a disegnare un sistema panpenalista e pancarcerario il cui fine diventa prevalentemente quello di isolare dalla società ostacolando, di fatto, la risocializzazione.

Ne è una prova proprio il Decreto Legge 162: le norme sui reati del 4-bis O.P. e sull’ergastolo ostativo sono, in realtà, sostanzialmente analoghe a quelle che erano state discusse e in gran parte condivise nella precedente legislatura (in cui le maggioranze erano diverse); l’ansia giustizialista mi sembra sia assolutamente trasversale e ben disposta a sacrificare diritti e principi fondamentali per poter punire (senza nessun tentativo di redimere, anche ammesso che questa possa essere una finalità condivisa della pena). Certo, qualche apertura c’era stata per reati minori, qualche tentativo di allontanare il carcere per i fatti meno gravi era stato compiuto, ma mi sembra che non vi fosse una reale volontà di superare le rigidità dei reati ostativi.

La lotta alla mafia (o al terrorismo, o alla grande criminalità, e/o ai crimini costruiti, a volte anche artificiosamente, come i più gravi e di più grave allarme sociale), diventa in quest’ottica il feticcio da esibire e la linea rossa ideologica dalla quale non si può arretrare; chi combatte le rigidità è un nemico dello Stato perché, di fatto, amico dei mafiosi.

Ci vorrebbe, allora, una grande riflessione: siamo certi che sia corretto sacrificare i principi per combattere contro chi attenta ad essi? Non è un suicidio della democrazia e dello stato di diritto abdicare ai diritti fondamentali, e quindi pensare alla pena come vendetta e annientamento del nemico? La lotta contro il terrorismo degli ultimi 25 anni del secolo scorso (non tutto in verità, perché quello stragista – realmente stragista, non quello di Fossano – non credo abbia trovato il contrasto che meritava) ha visto tanti esempi di gravi violazioni delle regole da parte di quello stesso stato che diceva di lottare per salvare la propria essenza (di stato di diritto). E siamo certi che seppellire, viva e a vita, una persona in una cella, privarlo di ogni prospettiva, sia l’unica opzione possibile per contrastare la possibilità che egli o altri commettano dei reati gravi? La grande criminalità, o la grande corruzione, è forse scomparsa dal panorama dopo decenni di utilizzo di quegli strumenti repressivi? O non ha semplicemente (ma solo in parte) mutato forme e modalità di azione? Far morire in carcere un vecchio malato può magari soddisfare la sete di vendetta, o può essere una medaglia di inflessibilità da esibire, ma siamo certi che questa palese violazione dei diritti (del diritto a non subire un trattamento inumano e degradante in primis) sia “utile” a combattere un fenomeno criminale? O, ancora, non dovrebbe generare allarme pensare che solo utilizzando pene inumane (se non tortura) lo Stato sia in grado di contrastare i fenomeni criminali?

Ovviamente tacendo, perché ci porterebbe troppo lontani, un’altra fondamentale questione, ovvero quella che attiene alle radici del fenomeno mafioso e della grande criminalità organizzata e agli strumenti di politica sociale, culturale, economica, che potrebbero essere utilizzati per privarli della loro linfa vitale (e magari, quando qualcuno ha tentato di ideare e porre in pratica tali strumenti, è stato a sua volta criminalizzato, come insegna la Locride di Lucano).

Il processo torinese alla FAI ha sin dal suo esordio mostrato uno spiccato carattere repressivo dal punto di vista ideologico. Nonostante quello che la procura ha sempre affermato (che ciò che si chiedeva di punire non era una ideologia, ma le persone per specifici reati che avevano commesso) in realtà sin dal nome dell’operazione che ha portato all’individuazione e all’arresto degli imputati, (scripta manent), l’attenzione è sempre stata concentrata sugli scritti, mezzi di manifestazione del pensiero. Non è un caso che molti degli imputati sono stati condannati non per associazione terroristica o per aver commesso delle azioni (degli attentati), ma per aver partecipato alla redazione di pubblicazioni o a trasmissioni d’area (peraltro pubbliche): per aver manifestato le proprie idee. Mentre in primo grado era stata accolta la tesi delle difese, che avevano sostenuto che si trattava di propaganda sovversiva (uno dei pochi reati di opinione figli dell’epoca in cui il nostro codice penale è stato emanato per essere poi abrogato, nel 2006, proprio in quanto si era detto che uno Stato democratico deve essere in grado di tollerare anche una propaganda contro di lui, pena l’abiura ai propri stessi principi fondamentali), la Corte di Assise di Appello e poi di Cassazione hanno stabilito che anche quegli imputati dovevano essere condannati, non perchè membri di un’associazione terroristica (evidentemente non c’era alcun concreto elemento che avrebbe consentito una condanna siffatta), ma per istigazione, e cioè per aver manifestato delle idee (ritenute tali da generale il pericolo concreto che qualcuno potesse passare all’azione e commettere dei reati).

E, allora, quella che è stata punita è la manifestazione dell’idea, nella convinzione che se può essere tollerata una figura romantica dell’anarchico, quello che canta le canzoni di De André (espressamente citato dal Pubblico Ministero come esempio – o esemplare? – di “anarchico buono”), non può al contrario tollerarsi (e deve dunque essere punito) l’anarchico che propaganda la distruzione del sistema dominante con azioni violente.

E in quest’ottica che si può interpretare anche la condanna per il reato di strage politica, uno dei reati che è rimasto strutturalmente immutato dalla sua introduzione nel codice penale del 1930, se non per la pena (di morte, secondo il codice dell’epoca, dell’ergastolo dopo l’abrogazione della pena di morte).

In primo luogo bisogna ricordare che il reato di strage (sia “comune” che “politica”) è un reato così detto di pericolo ed a consumazione anticipata: non importa se si realizza quella che secondo il senso e il linguaggio comune è una “strage” (un evento straordinario che ha causato la morte di diverse persone), essendo sufficiente che chi agiva avesse tale obiettivo e che ciò che ha fatto abbia causato il concreto pericolo che ciò potesse accadere. Questo significa che se sparo ad una persona per ucciderlo e io lo manco, potrò eventualmente rispondere di tentato omicidio (e quindi verrò condannato ad una pena ridotta da uno a due terzi), mentre se colloco un ordigno anche di basso potenziale ma con la volontà di uccidere più persone rispondo di strage (come se la mia azione avesse avuto “successo”).

Certo, questa è una scelta giuridica, di punire con maggiore gravità la mera volontà di causare una strage; come si può notare già questa considerazione rende evidente che la volontà di chi agisce ha un “peso” maggiore in ottica punitiva rispetto al risultato della sua stessa azione. Tuttavia, mentre per la strage “comune” è lo stesso articolo a prevedere che la pena sia diversa a seconda del risultato (dai quindici anni di reclusione se non ci sono vittime; l’ergastolo se ci sono vittime), per la strage politica la pena è la medesima, indipendentemente dal risultato (l’ergastolo).

Quello che, dunque, è ancora più significativo (e rende ancora più evidente che l’origine della norma è da collocare in quel preciso periodo storico) è che per la strage politica ciò che più conta è che quella sia un’azione contro lo stato, contro l’ordine costituito. Al di là dei mezzi utilizzati (il tritolo o la polvere pirica, l’autobomba o la pentola a pressione) la finalità di colpire l’organizzazione dello stato è ciò che rende quello il più grave dei reati (tanto che anche dal punto di vista della pena diventa ininfluente che ci siano state o no delle vittime). E, come si ricordava prima, questa è una distinzione nata proprio con il codice Rocco del 1930.

È dunque, una “strage” (nel senso che si diceva prima, al di là del risultato) che merita la massima punizione perchè attenta al bene massimo, che non è la vita delle persone o la pubblica incolumità ma la sicurezza dello stato.

A parità di condotta materiale, allora, chi tenta di uccidere più persone per mettere in pericolo la sicurezza dello stato (e non ci riesce) merita una pena molto maggiore (a vita) rispetto a chi tenti di uccidere più persone, ad esempio, nell’ambito di una attività di criminalità organizzata (per tornare al tema che appassiona molti difensori delle pene massime, la lotta alla mafia. Esempio, peraltro, assolutamente calzante, visto che le stragi di mafia sono state giudicate e punite come stragi comuni e non come stragi politiche).

Mi sembra che questo dimostri che il senso di questa precisa disposizione, e di tutte quelle che rendono una medesima condotta molto più grave se motivata dalla volontà di sovvertire, ci allontana da un sistema penale “del fatto”, in cui ad essere giudicata è prevalentemente la condotta, l’azione che è stata commessa, in considerazione delle conseguenze di quell’azione, per farci avvicinare ad un sistema “dell’autore”, in cui il giudizio cade soprattutto sulla persona, sulle sue convinzioni e condizioni (non si dimentichi che era stata introdotta una specifica aggravante se un qualunque fatto di reato fosse stato commesso da uno straniero irregolare; aggravante poi dichiarata incostituzionale, ma la cui introduzione era stata possibile proprio per lo scivolamento culturale verso la preminenza della giudizio e della punizione dell’autore del reato piuttosto che del fatto di reato).

3. Quali sono le prossime mosse difensive? Cosa possiamo aspettarci su questa vicenda dagli apparati giudiziari nei prossimi mesi?

Come ho già evidenziato la condanna per strage politica per Alfredo Cospito e Anna Beniamino è stata stabilita in via definitiva dalla Corte di Cassazione, che ha rinviato alla Corte di Assise di Appello di Torino solo per la quantificazione della pena che i due condannati dovranno scontare.

Abbiamo sollevato vari dubbi di costituzionalità, da quello che ho riassunto prima (sulla violazione del diritto di difesa in caso di modifica peggiorativa per la prima volta e in via definitiva in Cassazione), alla legittimità di una disposizione che preveda la pena fissa dell’ergastolo, laddove le pene devono sempre essere proporzionate al fatto (il che rende incompatibile una pena fissa), alla possibilità che venga comunque riconosciuta una particolare attenuante, quella del “fatto tenue” specificamente prevista per tutti i reati contro la personalità dello Stato. Evidentemente proprio per attenuare l’estrema gravità delle pene per questi reati, nel codice è previsto che la pena per questi reati sia diminuita quando, “per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo”, il fatto sia di lieve entità.

Lieve entità, sia chiaro, rispetto alla possibile gravità del fatto e delle sue conseguenze (si sta comunque parlando di un fatto definito giuridicamente come strage, quindi un fatto che avrebbe potuto – e voluto, sulla base di quello che ha stabilito la Cassazione – causare delle vittime).

Sembra evidente che, rispetto alla casistica delle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese (da Bologna a via D’Amelio per citarne solo due, peraltro giudicate entrambe come stragi comuni, sia pure con la pena massima in ragione della presenza di vittime, ma anche a tantissime altre) gli ordigni di Fossano siano di ben minore gravità; sia in “valore assoluto” (strumenti utilizzati e modalità) sia quanto al pericolo causato (pericolo concreto cui sono state esposte l’incolumità pubblica e la vita delle persone e soprattutto, trattandosi in questo caso di strage politica, la sicurezza dello stato, la tenuta delle istituzioni).

Proprio con riferimento alla possibilità di ottenere il riconoscimento di questa attenuante e la conseguente riduzione della pena si pone però un problema: ad Alfredo Cospito è stata riconosciuta l’aggravante della recidiva reiterata, il che di fatto impedisce una diminuzione della pena. In una delle molte modifiche che hanno interessato il sistema penale negli ultimi decenni, nel senso di inasprire i trattamenti sanzionatori, è stato infatti introdotto il divieto di ritenere eventuali circostanze attenuanti (quelle circostanze che servono proprio ad adeguare la pena all’effettiva gravità del fatto) prevalenti su questa recidiva, impedendo quindi di ridurre la pena oltre il minimo previsto dalla legge per quel reato. Nel caso del reato di strage politica, punito con l’ergastolo, la pena quindi è e resta quella dell’ergastolo anche se si tratta di un fatto “tenue”. Per questo motivo abbiamo sollevato una ulteriore questione di legittimità costituzionale, proprio relativa a quell’insieme di disposizioni che comportano che debba essere comunque comminato per il reato di strage politica la pena dell’ergastolo al condannato recidivo reiterato anche se si tratta di un fatto tenue.

I pubblici ministeri hanno chiesto di non riconoscere quella attenuante a nessuno dei due condannati, ritenendo evidentemente che anche quei fatti meritassero la massima pena. La richiesta è stata così dell’ergastolo per Alfredo Cospito e di 27 anni di reclusione per Anna Beniamino (che non ha una recidiva e alla quale erano già stata riconosciute le circostanze attenuanti generiche, il che porta ad una diminuzione della pena).

La Corte di Assise di Appello ha respinto le prime due questioni di legittimità costituzionale, ma ha affermato che in questo caso deve effettivamente potersi valutare se si tratti di un “fatto tenue”, e che dunque debba essere applicata una pena diversa da quella dell’ergastolo; e ha affermato che potrebbe essere illegittimo questo divieto di “bilanciamento” per Alfredo Cospito, rinviando gli atti alla Corte Costituzionale per decidere di tale possibile illegittimità.

Quindi il prossimo passaggio giudiziario sarà davanti alla Corte Costituzionale, per quanto riguarda questa questione. Per il resto sia Alfredo Cospito che Anna Beniamino continuano a scontare la pena, visto che la condanna è definitiva e per gli altri reati (l’associazione terrorista, alcune altre azioni non definite strage politica e l’istigazione a delinquere) anche la pena è ormai definitiva.

Per il momento (quando sto rispondendo alle vostre domande) resta “aperta” anche la questione dell’applicazione del regime duro del 41-bis ad Alfredo Cospito, sul quale il Tribunale di Sorveglianza di Roma non ha ancora deciso.

Bisogna poi vedere se sia possibile andare oltre i confini nazionali, sollevando le tante questioni che questo processo e queste condanne pongono anche ad altri organi sovranazionali, come la Corte Europea dei diritti dell’uomo o il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite. Tutte le ipotesi sono allo studio.

Fondamentale credo sia, in ogni caso, continuare a parlare del caso, continuare a discutere dei tanti interrogativi sulla “tenuta” del sistema che il processo scripta manentla condanna di Alfredo Cospito ed Anna Beniamino, l’ergastolo ostativo, il regime del 41-bis pongono; solo se la luce su questi temi resterà accesa potremo sperare di ottenere un risultato magari non solo giudiziario ma anche “politico” che ci allontani un po’ dalla deriva repressiva che purtroppo sta caratterizzando questo Paese.

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