Addio alla democrazia?

da Centro Gobetti, editoriale di Pietro Polito 

Due sono i fatti che caratterizzano il nuovo corso politico.  Il primo fatto viene esaltato ed è dominante non solo nei titoli e nelle pagine dei giornali: la vittoria della destra.  Dopo quello di un “capo storico del neofascismo” alla Presidenza del Senato, avvenuto il 13 ottobre in modo losco, turpe, indegno, riprovevole, anonimo, sotto banco con il soccorso “rosso” o “rosa” di una parte dell’opposizione, e dopo quello di un “fondamentalista cristiano”[1] alla Presidenza della Camera, abbiamo assistito, per la prima volta, all’insediamento di una erede diretta del partito post-fascista alla direzione del governo del Paese, alla guida di un partito, il più votato da coloro che si sono recati alle urne, che non ha ancora fatto e non intende fare seriamente i conti con il fascismo. Invece il secondo fatto viene sostanzialmente ignorato se non oscurato ed è destinato a finire nel dimenticatoio: l’affermazione del partito dell’astensione come il primo partito in Italia in rappresentanza di un esercito di elettori e di elettrici che, certo per ragioni diverse e contraddittorie, non si riconoscono in un sistema di partiti sempre più simili a prodotti di marketing.

Le considerazioni che seguono riguardano il secondo fatto, il partito dell’astensione, con lo scopo di dare voce a chi non avrà voce nei prossimi anni, a chi per le ragioni che esamineremo ha rinunciato ad avere voce perché ha detto o sta dicendo addio alla democrazia. Tra le due opzioni disegnate dal grande Altan: “Voto. Sperando di sorprendermi” oppure: “Non voto, così se vado in malora, sono cazzi loro”[2], è prevalsa decisamente la seconda. I numeri dell’astensione prefigurano una “apocalisse democratica”: “La disaffezione al voto aumenta sempre più in fretta, è come una valanga che acquista velocità nella discesa verso il baratro”. Il non voto del 25 settembre “alza il velo su una doppia tragedia, quella della rappresentanza e quella della disuguaglianza, perché i più poveri stanno rinunciando alla propria voce: è una catastrofe democratica, nel senso più letterale del termine”[3]. Una tragedia con la quale pochi all’indomani del voto si sono misurati.

Particolarmente opportuna è la distinzione illustrata su “il manifesto” da Marco Valbruzzi tra le “motivazioni congiunturali e individuali” e le “ragioni strutturali” dell’astensione. Tra le prime non sarà mai sottolineata abbastanza “l’eccessiva rigidità della macchina ministeriale nel gestire l’intero ciclo elettorale” che è una delle cause principali del “non voto occasionale, dovuto a esigenze temporanee”. Le ragioni strutturali che spiegano l’esplosione dell’astensione sono fondamentalmente tre. La prima è “la ritirata consapevole dei partiti dal territorio”: il rapporto con gli elettori si svolge ormai quasi esclusivamente in televisione o più di recente con comparsate su Tik/Tok. La seconda, quella direi decisiva, è “la scomparsa, anche qui tenacemente ricercata, di una qualsiasi visione del futuro, di un orizzonte ideologico da perseguire e su cui costruire almeno la parvenza di una comunità di destino, uno scopo per cui vale la pena di mobilitarsi”. La terza è la riduzione della politica a “ordinaria amministrazione delle cose”, a “un lavoro da ragionieri (o da banchieri) dove quello che conta è il saper fare e non tanto, o non più, il che cosa o il per chi fare” [4].  Occorre inoltre osservare che le motivazioni congiunturali riguardano diversi ceti sociali, mentre al contrario le ragioni strutturali colpiscono le fasce più povere della società italiana. L’astensionismo strutturale denuncia lo scarto “tra una democrazia che funziona e una democrazia azzoppata. Tra una rappresentanza elitaria e una sovranità dimezzata, dove le sole voci che si sentono sono quelle che contano. La degenerazione oligarchica è ormai l’ombra che perseguita la nostra democrazia”[5].

A sinistra, in modo esemplificativo, si possono enucleare due posizioni: 1. l’astensionismo si deve inquadrare “nella deriva individualista che tende a spezzare i vincoli sociali in favore degli umori e dei vincoli individuali” (Michele Serra)[6]; 2. “l’astensione è diventata da noi la misura del disagio e della protesta” (Massimo Cacciari)[7]. La seconda è da accogliere come un programma di lavoro. Nel magma della protesta e dell’insofferenza potrebbe celarsi un giacimento nascosto da cui ripartire. Consapevoli che da ferita l’astensionismo si è trasformato nel “disagio della democrazia”.

Una cattiva democrazia è preferibile a una buona autocrazia perché la democrazia mira a non lasciare indietro nessuno. Se rivisitata senza trionfalismi e senza dogmatismi, “la democrazia potrà ancora coincidere con la politica come organizzazione libera della speranza”[8]. Al fondo la sfida si gioca su un solo grande fronte: ridare senso all’idea stessa di politica come impegno per tutte e tutti.

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