V13, il processo al terrorismo

Tratto da Questione giustizia di Filippo Romoli

Il nuovo libro di Emmanuel Carrère è il racconto del processo per gli attentati che nel Novembre del 2015, venerdì 13 – da cui la sigla V13 – hanno sconvolto la Francia. Le dimensioni della tragedia, con 130 morti e oltre 400 feriti, 99 dei quali in modo grave, si riflettono su un processo con 14 imputati, 1.800 parti civili e 350 avvocati coinvolti.

Articolato su tre assi principali – vittime, accusati, corte – il racconto seleziona alcuni dettagli di un dossier composto di oltre 500 tomi che, impilati, superano i 50 metri di altezza, descrivendo invece quella “esperienza unica di terrore, pietà, prossimità e presenza” che sono stati i nove mesi del processo V13.

La prima parte illustra con precisione dolorosa dettagli delle stragi attraverso le testimonianze dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime che hanno trovato il nome dei propri cari “sulle liste”. Le luci del Bataclan, i telefoni che suonano sul mucchio di corpi aggrovigliati, sono scene apocalittiche, difficili da sopportare perfino per il lettore. Eppure, quasi in un percorso di psicoterapia, il senso di solidarietà tra le vittime e, in un caso, tra genitori di vittima e carnefice, riescono ad emergere.

Il valore aggiunto della “presenza” di Carrère risiede probabilmente nelle riflessioni che mettono a disagio tanto lui stesso che il lettore. L’accostamento tra le testimonianze delle vittime e una sorta di macabro casting, scandaloso ma inevitabile, tra quelle più o meno toccanti, spesso condizionate dall’orario o dalla sequenza in cui hanno luogo. Oppure lo spazio lasciato a quell’unico genitore che difende l’odio per i terroristi, «un furore arcaico ma anche umano», senza il quale, ammette l’autore, lo slogan «non avrete il mio odio» suonerebbe troppo unanime per essere completamente onesto.

La parte sugli imputati non si limita alla descrizione delle loro personalità o alla testimonianza dell’ex presidente della Repubblica Hollande, ma affronta alcuni temi ineludibili legati al terrorismo con cui Carrère mostra di comprendere i jihadisti, come richiesto da uno di loro alla corte, senza limitarsi «a leggere l’ultimo capitolo» della storia.

La Siria è veramente la Terra Promessa, lo Sham, fondata sui veri valori dell’Islam, come presentata da alcuni imputati?

La radicalizzazione in carcere è una minaccia per la Francia, e per il resto d’Europa, per cui siamo incapaci di trovare contromisure?

Le motivazioni per radicalizzarsi sono religiose o politiche, dettate da vocazione o disagio sociale?

La taqîya, ossia l’arte della dissimulazione – permessa in origine dall’Islam per sfuggire alle persecuzioni – rende imprendibili gli aspiranti kamikaze che si comportano come giovani libertini o è un incentivo che permette una vita godereccia prima dell’estremo sacrificio?

Le questioni su cui la corte è chiamata a pronunciarsi, descritte nella terza parte del libro, riguardano la condanna all’ergastolo senza condizionale di Salah Abdeslam, il membro del commando che all’ultimo minuto non si era fatto esplodere, e la caduta o meno della “T” di terrorista dalle accuse di associazione criminale contestata agli imputati che avevano avuto un ruolo minore.

Carrère è prodigo di dettagli di quello che in Francia è considerato il processo del secolo e che ha bloccato l’Île de la Cité per quasi un anno. Dopo le vittime e gli imputati, Carrère si sofferma sulle requisitorie della Procura nazionale per l’antiterrorismo, sulle arringhe della difesa e sulle decisioni della Corte d’Assise a composizione speciale. Al di là delle funzioni proprie di ciascuno, e da ciascuno svolte con grande responsabilità, lo scrittore ci consegna un quadro umano ricco di sfumature, quell’umanità a cui si richiama uno degli avvocati della difesa quando chiede ai giudici di lasciar cadere le toghe e di condannare come esseri umani e non come giudici. L’aula del processo, nelle parole di Carrère, si trasforma così in una sorta di “chiesa moderna dove si svolge qualcosa di sacro”.

Uno degli aspetti più notevoli del libro concerne proprio la difficoltà di giudicare senza essere condizionati dalla propria cultura e, anche se risulta scomodo dirlo, dal proprio status. Il problema si pone per una pluralità di situazioni in cui si trovano i presunti complici, rei di non aver capito subito che le persone aiutate erano i terroristi di Parigi. Questi collegamenti vanno al di là dell’ignorantia legis che, come noto, non excusat, e investono una sfera più ampia di ignorantia tout court dinanzi alla quale giudicare non è semplice, con lo spettro della taqîya/dissimulazione sullo sfondo a complicare ulteriormente il quadro.

A queste considerazioni si affiancano quelle, anch’esse scomode, sul fondo per le vittime del terrorismo e la determinazione dei risarcimenti, e anche qui Carrère non si nasconde, con quell’atteggiamento di trasparenza completa, talora spiazzante, di cui ha già fatto prova in altre sue opere.

Ne risulta un percorso, una vera “traversée”, il racconto di «un’esperienza estrema di vita e morte», forse particolarmente interessante per i magistrati non solo in quanto giuristi ma più semplicemente, per riprendere le parole della difesa, in quanto esseri umani.

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