Utilitarista

Tratto da unaparolaalgiorno, di Salvatore Congiu
-Le parole e le cose
u-ti-li-ta-rì-sta

SIGNIFICATO Che tende solo al proprio utile; dottrina filosofica che riconosce nel perseguimento della massima felicità per il maggior numero di individui il fine dell’agire morale

ETIMOLOGIA da utilitario, modellato secondo il francese utilitaire a partire da utile, voce dotta recuperata dal latino ùtilis ‘che si può usare, che serve’, derivato di uti ‘usare’.

  • «È un modo di fare gretto e utilitarista, dovresti pensare anche agli altri.»

«Chi tende soltanto al proprio utile». Sinonimi: «calcolatore, materialista, avido». Contrari: «disinteressato, generoso». Questo si legge oggi sui dizionari alla voce ‘utilitarista’. Nell’Ottocento, Niccolò Tommaseo era ancora più tagliente: gli utilitaristi sono «uomini che fingono potersi l’utilità porre come unico vincolo di società, e che il sentimento della virtù e del dovere si possa abolire». Eppure, a considerare l’utilitarismo come dottrina filosofica, si fatica a comprendere la ragione di un giudizio così severo.

Jeremy Bentham, il padre di questa teoria, era un riformatore sociale che tra fine Settecento e inizio Ottocento, in nome della «massima felicità per il maggior numero di individui», sostenne concezioni innovative come i diritti degli animali (che dovevano essere valutati in base alla capacità di soffrire, non di ragionare), la parità tra i sessi, l’opposizione all’imperialismo e l’emancipazione delle colonie. Nel 1808 si unì a lui James Mill, che decise di dedicare la propria esistenza alla promozione dell’idea utilitarista nella società e nella politica. Con scarsi esiti pratici, in verità: perciò, confidando nel futuro, si dedicò all’educazione del figlio John Stuart, per farne un campione dell’utilitarismo. E ci riuscì, perché John Stuart Mill già nel 1822, a sedici anni, fondò una piccola “Società utilitaristica” e da adulto, come membro del Parlamento inglese, si batté per il suffragio femminile, l’abolizione della schiavitù in America, la creazione di cooperative agricole e la rappresentanza proporzionale in Parlamento.

Cosa c’è di disdicevole in tutto ciò? Beh, due peccati originali, per qualcuno: anzitutto, se il criterio del bene e del male – l’utile – è così terragno ed elementare, che ruolo resta a Dio come garante della moralità e collante sociale? E poi, passi il principio della «massima felicità possibile» – cosa che li rende degli eudemonisti –, ma gli utilitaristi precisano che per felicità s’intende il piacere. Oltre che eudemonisti, dunque, sono anche edonisti. E qui le cose si mettono male, perché sin dai tempi di Epicuro gli edonisti sono stati etichettati come porci dalla gente perbene.

Alla fatale obiezione per cui l’utilitarismo sarebbe una dottrina porcina, John Stuart Mill ribatte che tale critica «suppone che gli esseri umani non siano capaci di altri piaceri se non quelli di cui sono capaci i porci». Tuttavia, egli si discosta su un punto essenziale da Bentham: mentre per quest’ultimo una cosa è da ritenersi buona se la quantità di piacere che produce è superiore ai dolori – secondo una vera e propria ‘matematica morale’ – Mill introduce un criterio qualitativo, distinguendo nettamente i piaceri bassi (sensoriali) da quelli alti (intellettuali), sino ad affermare che «è meglio essere un umano insoddisfatto che un maiale soddisfatto». Una posizione chiaramente antiedonistica, perché la superiorità delle attività intellettuali non si basa sul fatto che esse producano maggior piacere, ma sul loro essere più conformi alla «dignità» umana.

E questo non è l’unico sforzo fatto da Mill per rendere l’utilitarismo presentabile in società: rispondendo all’obiezione per cui ognuno, seguendo solo il criterio del piacere, cercherebbe sempre l’interesse egoistico e non l’utile collettivo, egli argomenta che gli esseri umani tendono naturalmente all’unità e alla solidarietà col prossimo, percependo il legame tra interesse individuale e generale; inoltre, si spinge a dire che «la morale utilitarista riconosce che l’uomo è capace di fare sacrificio del proprio bene più grande per il bene degli altri»; infine, precisa che – essendo poco pratico ‘misurare’ il grado di utilità di ogni azione possibile prima di agire – in ogni situazione bisogna anzitutto conformarsi alle norme morali comunemente accettate, e solo se queste sono contraddittorie o poco chiare ricorrere al criterio dell’utilità.

Sacrificio, conformismo… Davvero curioso: l’utilitarismo è una dottrina essenzialmente consequenzialista, ritenendo che non vi siano azioni buone in sé, ma solo per le conseguenze che producono; il criterio oggettivo per stabilire il bene e il male è quello del piacere o del dolore causato da ogni azione. La dottrina opposta invece – l’intuizionismo etico, per il quale i principî morali sono autoevidenti, còlti immediatamente – secondo Mill è sbagliata perché, ritenendo che vi siano valori morali la cui verità non abbisogna di alcuna verifica, finisce per giustificare semplicemente i pregiudizi morali correnti. Va bene; ma in concreto, a quanto pare, non sembra fare molta differenza. Molto rumore per nulla, quindi?

Non proprio: l’utilitarismo è ancora attuale nella filosofia morale contemporanea, dividendo aspramente anche chi milita nello stesso campo, come Peter Singer e Tom Regan, due tra i pensatori più impegnati nella difesa dei diritti animali: il primo considera l’utilitarismo una risorsa, perché porta ad affermare il diritto di ogni essere senziente a non soffrire; il secondo lo ritiene moralmente pericoloso, perché il calcolo di piaceri e dolori, vantaggi e svantaggi, legittimerebbe persino la soppressione di una persona, se molte altre ne ricavassero un miglioramento significativo.

Insomma: filosofi o no, consapevolmente o meno, in certe scelte l’utilitarismo c’interpella tutti.

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