paradigma

Una parola al giorno: Paradigma

tratto da Unaparolaalgiorno.it

pa-ra-dì-gma

SIGNIFICATO Idea, modello, racconto esemplare; modello grammaticale della declinazione di un nome o della coniugazione di un verbo; in filosofia della scienza, sistema coerente di teorie e metodi adottata da una comunità scientifica che caratterizza una certa fase dell’evoluzione del sapere scientifico

ETIMOLOGIA voce dotta recuperata dal latino tardo paradìgma, dal greco parádeigma ‘modello, esempio’, da paradeiknýnai ‘mostrare confrontando’, derivato di deiknýnai ‘mostrare, indicare’, col prefisso pará- ‘presso, vicino’.

«È una scoperta che comporta un radicale cambio di paradigma.»
Rosă, rosae, rosae, rosăm, rosă, rosā. Io amo, tu ami, egli ama, noi amiamo, voi amate, essi amano. Questo è il paradigma in origine: un modello di declinazione o coniugazione, che nei manuali scolastici prende solitamente la forma di tabelle. Se in latino so declinare rosă, saprò anche le altre della prima declinazione, e in italiano la coniugazione di amare funge da esempio per verbi analoghi come remare, tornare ecc. Da questo significato di ‘insieme di forme assumibili da una parola presa a modello’, se ne è sviluppato poi uno più ristretto: un certo numero di forme fondamentali, su cui si basano le altre (nel caso dei verbi latini, ad esempio, amo, amas, amavi, amatum,amare).

Parallelamente a quest’uso grammaticale, ‘paradigma’ ha vivacchiato come termine tecnico in altri due campi: la filosofia, dove è sinonimo di idea in senso platonico (modello eterno e perfetto, del quale le cose terrene sono copie più o meno sbiadite), e la retorica, in cui è un racconto esemplare, citato a scopo dimostrativo. Solo nell’Ottocento si è iniziato a utilizzare ‘paradigma’ nel senso generale di modello (paradigma di virtù, d’intelligenza, di bellezza…), nonché di prototipo, esempio massimo – ma è un uso declinante, sempre più raro: chi mai, oggi, direbbe che Messi è il paradigma del calciatore?

C’è di più, naturalmente. Dalla fine del secolo scorso, il paradigma è uscito dalle sue nicchie tecniche per entrare nel gran mondo, specie nell’espressione cambio di paradigma: in quest’accezione oggi diffusissima (ovunque – dalla politica all’istruzione, dall’economia alla vita privata – si sente dire che «serve un cambio di paradigma»), il termine è divenuto sinonimo di approccio, metodo, mentalità. E curiosamente, anche questa nuova, sfavillante vita del paradigma si deve a un uso tecnico: quello introdotto dallo statunitense Thomas Kuhn, epistemologo e storico della scienza, in una sua fortunata opera del 1962, La struttura delle rivoluzioni scientifiche.

Kuhn usava la parola ‘paradigma’ nel senso di modello per la formulazione e risoluzione dei problemi, quadro concettuale, «matrice disciplinare». Secondo lui, lo sviluppo della scienza attraversa diverse fasi, che si ripetono ciclicamente: una situazione pre-paradigmatica, nella quale convivono diverse teorie senza che nessuna riesca ad imporsi stabilmente; la «scienza normale», in cui un paradigma è comunemente accettato e vigente; la fase critica, in cui il paradigma dominante è in difficoltà per l’emergere di troppe anomalie che non riesce a spiegare; la rivoluzione scientifica, cioè il cambio di paradigma; e infine, la stabilizzazione del nuovo paradigma e quindi l’inizio di una nuova fase di «scienza normale».

Per Kuhn, la scienza non è un sistema che proceda per riforme graduali, accumulando progressivamente quote di verità sempre maggiori, ma un percorso discontinuo costellato di fratture, momenti rivoluzionari in cui nuovi paradigmi soppiantano i vecchi. Nelle fasi di scienza normale, il paradigma si autoprotegge dagli elementi discordanti restringendo l’area della ricerca: è una «attività modellatrice», un criterio per scegliere i problemi ritenuti solubili, ossia scientifici, mentre altri «vengono respinti come metafisici», o comunque troppo problematici perché vi si sprechi del tempo.

Di norma, il cambio di paradigma avviene grazie all’intuizione di singoli scienziati – non di rado dichiarati pazzi, inizialmente, dal resto della comunità scientifica – e quando arriva rappresenta, per quest’ultima, una vera e propria «esperienza di conversione»; è come «afferrare il bastone dall’altra estremità», o indossare occhiali con lenti invertenti: «durante le rivoluzioni, gli scienziati vedono cose nuove e diverse anche quando guardano (…) nelle direzioni in cui avevano già guardato prima. È quasi come se la comunità degli specialisti fosse stata improvvisamente trasportata su un altro pianeta». I paradigmi sono reciprocamente incommensurabili, sono «mondi differenti»: la competizione tra essi «non è una battaglia il cui esito possa essere deciso sulla base delle dimostrazioni», perché in ogni paradigma gli scienziati non fanno che inserire i dati all’interno delle caselle fornite dal sistema, quindi «i loro criteri e le loro definizioni di scienza non sono gli stessi» dei colleghi che operano in altri paradigmi.

Molti, prevedibilmente, hanno obiettato: ma se gli scienziati vedono cose diverse e parlano lingue diverse – e non l’unica lingua della ragione – il loro è fatalmente un dialogo tra sordi, e nessuno disporrà mai di un criterio superiore per stabilire che certi ‘occhiali’ siano migliori di altri. Se ognuno è chiuso nella sua ‘bolla’ teorica, che ne è della verità? Nonostante Kuhn ritenesse il concetto di paradigma non applicabile alle scienze sociali, il suo utilizzo in quest’ambito è stato inevitabile: da tempo si parla di paradigmi sociali, cioè visioni del mondo, insiemi di valori di una determinata società, in cui una particolare concezione, veicolata e rafforzata attraverso i media, le agenzie educative e le istituzioni, si afferma a scapito di altre.

Quindi, alla fine è questo il paradigma? Una bolla i cui abitanti vedono cose differenti e incommensurabili rispetto alle altre bolle? Forse, più che un cambio di paradigma, ci serve uno spillo.

Testo originale pubblicato su: https://unaparolaalgiorno.it/significato/paradigma

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