UNA PAROLA AL GIORNO: ESISTENZIALISMO

Tratto da Una parola al giorno 

e-si-sten-zia-lì-smo
SIGNIFICATO Complesso di filosofie contemporanee che affermano il primato dell’esistenza sull’essenza
ETIMOLOGIA derivato da esistenziale sul modello del tedesco Existentialismus.

«Sono considerazioni sulla vita propositive ma amare, che sanno un po’ di esistenzialismo.»
Già nel 1945, in una conferenza poi pubblicata col titolo L’esistenzialismo è un umanismo, Jean-Paul Sartre ironizzava sul fatto che l’esistenzialismo fosse ormai di moda tra «la gente avida di scandali e di novità» e lo si ritenesse sinonimo di trasgressione: «Una signora di cui mi si è parlato recentemente, quando si lascia sfuggire, per mancanza di controllo, una parola volgare, dice a mo’ di scusa: sto diventando esistenzialista». Negli anni ’50 la moda dilagò: strade e caffè parigini si riempirono di ragazzi in dolcevita nero e camicie a quadri, barbetta incolta o frangetta alla garçonne, per i quali esistenzialismo significava vita da bohémien, libertà e ribellione. Questa «banda di giovani» modaioli, precisò poi Sartre, «non ha niente a che vedere con me, né io con loro». Ma tra la moda e il modello filosofico non c’era proprio alcun legame?
La libertà, certo. I concetti-chiave del pensiero sartriano, strettamente intrecciati, sono che «l’uomo è condannato ad essere libero» e «l’esistenza precede l’essenza». L’essere umano non ha una natura, un’essenza definita in anticipo, «non è altro che ciò che si fa […], l’insieme dei suoi atti»: non esiste al modo di un oggetto – ad esempio un tagliacarte – creato da un artigiano, nel quale l’essenza è anteriore all’esistenza perché è stato ideato in base ad un concetto, un progetto preesistente. Se Dio esistesse, il «concetto di uomo», nella sua mente, sarebbe come l’idea del tagliacarte nella mente del suo costruttore. Ma Dio, per Sartre, non esiste, quindi l’umano è radicalmente libero: «si sceglie» e può diventare ciò che decide di essere.
Tutti i pensatori definiti a vario titolo esistenzialisti hanno sottolineato come gli esseri umani siano ontologicamente libertà, possibilità, scelta, trascendenza rispetto alle cose. Non un’idea nuova: già Pico della Mirandola aveva affermato che l’essere umano è un «camaleonte», a metà tra angelo e bestia; ma avvertire angosciosamente questa libertà come abbandono, estraneità, alienazione da un mondo divenuto ostile e incomprensibile è lo specifico dell’esistenzialismo: fenomeno legato alla condizione moderna, portato intellettuale delle trasformazioni economiche, politiche, sociali e culturali che, tra fine Settecento e inizio Ottocento, hanno mandato in frantumi l’armonia tra uomo e cosmo, terreno e divino, sostituendo alla fiducia razionale nella capacità di cogliere il vero essere delle cose la paura di perdere il proprio autentico, vero sé. L’esistenzialismo è il pensiero di un mondo che, orfano di Dio, è «un eterno precipitare […] attraverso un infinito nulla» (Nietzsche).
Sartre spiega questa scissione in termini ontologici: l’essere si divide in essere in sé (il mondo, le cose) e essere per sé (la coscienza umana). Le cose sono in sé: inerti, opache, ma anche solide, piene, compiute, sono ciò che sono; la coscienza umana, invece, è per sé, ossia trasparente a sé stessa, consapevole, mobile, ma perciò anche inconsistente. Mentre le cose sono sempre identiche a sé stesse, l’essere umano invece «non è ciò che è» (la sua natura, i suoi atti passati) ed «è ciò che non è» (il suo futuro, le sue possibilità). In questo modo, però, esso è vuoto d’essere e la sua libertà non è che «nientificazione», costante negazione della sua oggettività, e desiderio di essere – cioè di esistere, oltre che per sé, anche in sé: libero e cosciente ma anche solido e pieno. Questo però equivarrebbe a essere Dio: impossibile.
In un mondo senza Dio, ogni cosa è gratuita e assurda, «tutte le attività umane […] sono votate per principio allo scacco. È la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli». E neppure i rapporti interpersonali sono un’oasi in questo deserto: l’altro è sempre una minaccia per la coscienza, perché essendo un essere per sé come me, ossia un essere che ha una progettualità, mediante il suo sguardo mi oggettivizza, mi nega, mi rende cosa tra le cose. Il rapporto tra esseri umani è inevitabilmente conflittuale («l’inferno sono gli altri») e l’amore non sfugge a questa dinamica, anzi: amare non è che l’intenzione di farsi amare, è un progetto egoistico teso da una parte a essere riconosciuti diventando un in sé per qualcuno, il quale mi fa esistere col suo sguardo, dall’altra a neutralizzare la minaccia costituita dalla coscienza dell’altro che vuole reificarmi, rendermi oggetto dei suoi progetti. Ognuno è carnefice dell’altro.

È inevitabile chiederselo: come ha potuto una visione dell’esistenza così cupa e sconfortante diventare moda intellettuale da caffè? Aveva forse ragione Emil Cioran, per cui Sartre era appunto un filosofo da caffè, un astuto «impresario di idee» che cavalcava e sfruttava «il da boulevard e l’amarezza degli sfaccendati»? Oppure il nichilismo è una cosa seria, e quei giovani si immedesimavano nell’amara sartriana perché rappresentava lo spirito del tempo meglio di ogni altra? E se è così, l’esistenzialismo è ancora e sempre attuale, sebbene i dolcevita neri siano passati di moda?

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