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Silos di Trieste, lo scandalo del ghetto dei profughi: carne da macello della propaganda securitaria

Tratto da l’Unità, articolo di Gianfranco Schiavone

Dopo un lungo periodo di silenzio interrotto solo da alcuni servizi giornalistici locali, il caso del Silos di Trieste è diventato oggetto di attenzione mediatica sia in Italia che in altri paesi europei.

Con il nome Silos vengono identificati degli immensi magazzini costruiti nell’800 dall’impero asburgico per lo stoccaggio delle merci del porto di Trieste: dopo il loro ultimo utilizzo come centro per i profughi provenienti dall’Istria alla fine della seconda guerra mondiale vengono abbandonati e sono in rovina da decenni.

In questo luogo, che sorge proprio accanto alla stazione centrale di Trieste e che è privo di qualsiasi servizio, da quasi due anni sprofondano nel fango centinaia di migranti in arrivo dalla rotta balcanica esposti al freddo dell’inverno e al sole dell’estate: sono afgani, pakistani, kashmiri, bengalesi, iracheni, siriani, kurdi.

Basta solo decidere di percorrere cento passi dal binario dove arrivano i frecciarossa per entrare in una sorta di mondo parallelo; un luogo che non sarebbe molto diverso da tantissimi altri luoghi in cui abbandoniamo l’umanità considerata “di scarto” e che sorgono un po’ ovunque, se non fosse che quanto accade nel Silos permette di svelare con particolare chiarezza come funzioni nel concreto quella macchina della paura e del disordine che è alla base delle immense fortune politiche dei molti partiti della variegata estrema destra italiana.

Dalla rotta balcanica si stima siano arrivati a Trieste nel corso del 2023 circa sedicimila persone dopo viaggi che possono durare anche anni e che sono segnati da inaudite violenze lungo i diversi confini attraversati.

Alcune migliaia di queste persone sono minori e comunque tutti sono giovanissimi; trovarne qualcuno sopra i 30 anni non è frequente. Una gioventù in fuga che arriva in uno dei Paesi più vecchi del mondo.

Gli ingressi dalla rotta balcanica a Trieste e in F.V.G. in generale, rappresentano dunque circa il 10% rispetto a quelli che avvengono a seguito di sbarchi; un numero veramente modesto ma che si riferisce a nazionalità che sono, come gli afgani e i siriani, ai primi posti tra i rifugiati in Europa.

La assoluta maggioranza di coloro che entrano a Trieste, come nel resto del Friuli Venezia Giulia, non intende però rimanere in Italia; più dell’80% di loro, secondo l’accurato rapporto “Vite Abbandonate”, la cui seconda edizione sta per uscire, curato dalla rete delle associazioni triestine che assistono i migranti, attraversa velocemente il nostro Paese per raggiungere altri Paesi europei.

All’Italia resta dunque l’obbligo di occuparsi di pochi, pochissimi richiedenti asilo che arrivano via terra, appena una manciata di qualche migliaia di persone all’anno; un compito istituzionale che sarebbe assai facile da svolgere con burocratica normalità e soprattutto senza clamore, non foss’altro per evitare che venga attirata l’attenzione sul fatto che l’Italia, a dispetto delle roboanti dichiarazioni politiche sul numero degli arrivi, sempre presentato come insostenibile, è di fatto per gran parte dei rifugiati nulla di più che un corridoio da attraversare per andare altrove a ricostruirsi una vita.

Ciò vale sia per gli arrivi via mare, sia per quelli via terra, ma dall’osservatorio triestino la realtà dell’Italia paese di transito, così lontana dalla rappresentazione mediatica, risulta lampante. Quanti siano i richiedenti asilo arrivati a Trieste di cui il Governo italiano si è dovuto fare carico è stato costretto a dirlo alcuni giorni fa il ministro Piantedosi rispondendo ad un’interrogazione presentata dalla senatrice triestina Rojc.

In quella occasione Piantedosi, con la consueta logora retorica, ha parlato di una non meglio definita “forte pressione migratoria via terra che si registra in quel quadrante geografico (che) provoca ricadute anche sulla gestione dell’accoglienza in particolare nella provincia di Trieste” salvo poi dover fornire il dato reale di tali presenze e della conseguente redistribuzione dei richiedenti asilo da Trieste verso altre strutture di accoglienza in tutto il resto del territorio nazionale: sono stati 1.778 i richiedenti redistribuiti in tutta Italia e in tutto il 2023; un numero pari a 4,8 richiedenti asilo al giorno.

Irrompe dunque nella sua nuda chiarezza, la realtà delle cose, rimasta a lungo avvolta nella nebbia: l’emergenza Silos non esiste, o meglio si tratta di un’emergenza artificialmente costruita grazie a un piccolo numero di richiedenti asilo di cui si rallenta il collocamento in accoglienza in modo che possano essere usati come carne da macello per il dibattito politico.

Di quei disgraziati c’è un enorme bisogno perché è grazie ad essi, unitamente a un sistema mediatico che non riesce, o non vuole, svelare neppure le più grossolane bufale, che la macchina politica della paura si può alimentare senza sosta.

Abbandonare in strada i rifugiati permette infatti di conseguire ben due succulenti obiettivi politici: il primo è quello di provocare una diminuzione delle persone della cui accoglienza, per legge, altrimenti ci si deve occupare.

Va dunque fatto capire in modo persuasivo a coloro che, rispettando la legge, hanno deciso di non andare altrove ma di fermarsi in Italia a chiedere asilo, che hanno fatto un grosso errore e che avrebbero dovuto fare come la maggioranza, ovvero dileguarsi subito.

Nei confronti di coloro che verranno indotti a disperdersi sarà infine facile sostenere che si trattava “con evidenza” di falsi richiedenti che erano illegalmente entrati in Italia e avevano fatto la domanda di asilo solo per non essere espulsi.

Il secondo obiettivo è alimentare una falsa percezione pubblica urlando il più forte possibile e senza posa che l’Europa ci ha lasciati soli e che “loro” sono troppi; se poi i numeri dicono l’opposto, ovvero che non c’è nessuno, non importa. Sono troppi e basta.

Per la strategia politica sopra descritta il problema non sorge quando il sistema di accoglienza non funziona, bensì all’opposto, sorge se esso funziona perché in tal caso la propaganda non trova più benzina con cui alimentarsi.

Un buon sistema di accoglienza che produce inclusione sociale, contrasta le ghettizzazioni, distribuisce le persone in normali case e non in centri e casermoni e ne segue i percorsi di vita facendo crescere economicamente e culturalmente il territorio, non può che essere il nemico numero uno.

Il governatore del FVG Fedriga così infatti si esprimeva: “l’accoglienza diffusa significa portare chi è entrato irregolarmente nei condomini, nei Comuni, 10, 20, 30 immigrati irregolari nella casetta di fronte alla propria” (Il Piccolo, il 4 settembre 2023).

Si noti in queste parole l’abile arte di chi è abituato da un lato ad alterare i fatti a suo favore (i richiedenti asilo non sono irregolari, e Fedriga lo sa) e dall’altro a seminare a piene mani paura e inquietudine fingendo di fornire delle risposte.

Nella medesima dichiarazione si legge infatti che “è meglio un centro che possa far allontanare dalla nostra Regione chi è entrato irregolarmente controllato dalle forze dell’ordine e dall’esercito”.

Non importa che l’affermazione sia priva di senso (un centro che faccia allontanare le persone dalla regione?) Ciò che importa è il messaggio indiretto che si vuole trasmettere, quello di potersi affidare senza riserve a chi promette di liberare per sempre il cittadino dalle orde dei migranti, i quali, altrimenti, assedieranno la sua villetta, e forse anche la daranno alle fiamme, come fece Attila con Aquileia.

Sbaglia chi pensa che si tratti solo dell’estremismo politico che caratterizza Fedriga e la Lega nord, giacché Roberto Di Piazza, il Sindaco di Trieste sostenuto da Forza Italia, non volendo essere da meno del governatore, ha rivendicato orgogliosamente sulla stampa la scelta di non “fare nulla” (Il Piccolo, 6 dicembre 2023) per risolvere lo scandalo del Silos e ha attaccato persino le associazioni che forniscono aiuti umanitari ai migranti abbandonati tra i topi del Silos; esse sarebbero infatti le vere colpevoli di tutto perché con il loro operato “finiscono paradossalmente per farli (ndr: i migranti) stare bene anche lì” (Il Piccolo, 8.03.24).

Parole inaudite ed indecenti che avrebbero dovuto portare a un moto popolare di sdegno, al di là di ogni colore politico. Ma non viviamo il tempo dello sdegno, bensì quello dell’accettazione della cattiveria e dell’estremismo, che vengono assunte a qualità politiche.

Il Silos di Trieste, molto prima che del diritto d’asilo, dell’accoglienza e di altre complicate questioni per ragionare delle quali è necessario accendere il cervello, ci parla dunque della nostra cecità e del gorgo oscuro in cui stiamo scivolando.

Volutamente ad apertura di Chiusi Dentro: i campi di confinamento nell’Europa del XXI secolo, ed. AltrEconomia, un saggio di grande valore sulla deriva delle politiche europee sull’immigrazione e l’asilo, in uscita nelle librerie a inizio aprile, viene riportata la seguente attualissima citazione di Primo Levi: “A molti individui o popoli può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente. Ma quando il dogma inespresso diventa premessa, allora al termine della catena sta il lager”.

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