decreto Caivano

Ripensiamo, vi prego, il decreto Caivano: rinchiudere un minore in carcere fa crescere la sua rabbia e aumenta la nostra insicurezza

Tratto da Il Dubbio, articolo di Giuseppe Spadaro

“Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di intervenire” per contrastare la criminalità minorile e “in considerazione della maggiore pericolosità e lesività acquisite nei tempi recenti”, così il governo ha deciso di intervenire con il decreto Caivano, andando poi ad elencare le misure applicabili dal 15 settembre in avanti. Un’emergenza nazionale, quella della delinquenza minorile, andava fronteggiata con urgenza. Il rapporto “Antigone” evidenzia, ora, a poco più di cinque mesi dalla entrata in vigore di quelle misure, una diversa ed ulteriore emergenza: la popolazione carceraria minorile è quasi raddoppiata ed in assenza di cambio immediato, condiviso e coraggioso di rotta, il rischio è che la giustizia minorile finisca col creare solo emarginazione.

Anche prima del decreto Caivano, invero, il processo penale minorile italiano, possedeva le norme necessarie a punire i reati di spaccio, detenzione di armi e violenza e per contrastare la “criminalità minorile”. La legge 448/88, un modello processuale imitato da altri Paesi, aveva portato ad un numero residuale di ragazzi in carcere, in ossequio ai principi cardine della nostra Costituzione e alle più avanzate teorie sociali e pedagogiche: è l’educazione che responsabilizza le persone e rende possibile la convivenza; è il riconoscimento del dolore inflitto all’altro e il risarcimento morale e materiale della vittima l’unica possibilità per crescere e trasformare il male fatto all’altro in bene. Non si tratta di “buonismo” ma di razionale risposta in termini di futuro!

Con il decreto Caivano, da 300 minori reclusi in carcere siamo passati, nel giro di pochi mesi, ad oltre 500!

Tuttavia, se, come affermato dal sottosegretario alla Giustizia Ostellari la cui sensibilità verso tali problematiche è emersa anche nel suo recente intervento su Il Foglio, non verranno immesse nuove risorse professionali (educatori, assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali) e stanziati nuovi fondi per incrementare percorsi educativi all’interno di strutture (non solo carcerarie, ma anche e soprattutto comunitarie) idonee, spaziose, attrezzate, temo che non restituiremo alla società giovani migliori dopo l’espiazione della pena, qual è il fine ultimo di tutte le pene detentive!

Per contro, in questo momento, i continui trasferimenti di minori in vinculis da un territorio all’altro per mancanza di posti negli istituti penali e nelle comunità private impediscono di garantire continuità ai percorsi di rieducazione in essere. Inoltre, come si può pensare di coinvolgere in un progetto educativo un detenuto minorenne e la sua famiglia, se il primo è stato spostato a migliaia di chilometri di distanza dal proprio territorio? A tutto ciò si aggiunge che gli operatori della Giustizia Minorile sono oggi sopraffatti dalla necessità di dover gestire i “nuovi” bisogni drammatici dei ragazzi: dalla dipendenza da sostanze psicotrope e alcoliche, ai problemi psichiatrici, ai bisogni sanitari.

La serie televisiva “ Marefuori” ha il grande merito di parlare di tale fenomeno e di evidenziare l’aspetto rieducativo della pena, la sofferenza dei ragazzi detenuti e quella dei loro familiari, gli sforzi compiuti da una straordinaria polizia penitenziaria minorile e dagli ottimi assistenti sociali dell’Uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm). Ma la realtà è ben lontana da quella rappresentata. Negli Ipm, per mancanza degli spazi dove svolgere i colloqui, è difficile persino fare incontrare i minori con i propri familiari. Il diritto costituzionale all’affettività è quasi negato, come pure le carezze ai propri figli di alcuni detenuti/ e appena ultradiciottenni. Punire è doveroso e giusto, ma, come accaduto per i maggiorenni, confinare i minori in carceri sovraffollati, deprivati dal contatto con la realtà e dallo sguardo sulla vittima e sul male procurato, crea solo uno spreco di risorse in termini materiali e umani. È sufficiente constatare l’elevato tasso di recidiva dei detenuti maggiorenni: se dopo anni di reclusione essi commettono reati della stessa indole e specie significa che la funzione rieducativa della pena non ha portato i suoi frutti. Un minore in carcere rinforza una personalità rabbiosa. Egli, quando uscirà fuori, quando verrà restituito ad una società che continuerà a non prendersi cura di lui, proseguirà a farsi e a fare del male. Nelle carceri e, in specie, nelle comunità minorili, invece, dati alla mano, il tasso di recidiva era, in un recente passato, bassissimo, segno che l’esperienza ivi maturata aveva portato ad una evoluzione positiva della personalità dei minori coinvolti nel circuito penale, i quali sovente dimostravano di aver dato avvio ad un processo di rimeditazione critica del proprio passato e una piena disponibilità ad un costruttivo reinserimento nella vita della collettività. I numeri odierni, se dovessero continuare a lievitare, non consentirebbero più di accompagnare i minori in un simile percorso.

Si dimentica spesso che la radice del problema sta altrove. La madre delle emergenze è un’altra (e non è certo addebitabile a questo governo, poiché esistente da anni nel nostro Paese): è quella educativa.

Le nostre comunità territoriali, le nostre città, le nostre periferie da decenni non si occupano della drammatica

condizione di impoverimento sociale, culturale, materiale degli adolescenti che, soprattutto dopo il Covid, sono stati lasciati soli, senza sogni e speranze da coltivare, se non quelle di diventare degli influencer. Sono, oggi, ancor più necessari maggiori investimenti sulla spesa sociale, scuole, ambiti educativi, socio sanitari, tutela dei minori.

Tutti noi, magistrati e avvocati minorili in primis, dovremmo aiutare a comprendere il fenomeno della criminalità minorile e contribuire ad elaborare migliori scelte legislative, analizzando in primis i comportamenti di gruppo dei giovani negli spazi pubblici; le loro modalità di aggregazione; le dinamiche di interazione con il contesto sociale di riferimento, interpretando quelle condotte, anche devianti e criminali, oggi considerate causa di insicurezza urbana e fonte di allarme sociale ed indagando il disagio ed i bisogni dei ragazzi coinvolti, anche al fine di meglio comprendere quanto l’immagine veicolata dai mass media corrisponda alla realtà esistente sul territorio nazionale.

Una ricerca supervisionata da Rossella Selmini, professoressa di Criminologia del Dipartimento di Scienze Giuridiche di Bologna ci indica questa strada: riportare l’attenzione verso le traiettorie di vita familiari, scolastiche, economiche e sociali dei ragazzi e delle ragazze che fanno parte delle “ bande di strada”. In tale contesto, la risposta punitiva, e la relativa stigmatizzazione, soprattutto se mediatica, si è visto, hanno il solo effetto di rafforzare il senso di appartenenza e rendere il gruppo più coeso, accrescendo il coinvolgimento dei minori in attività criminali e la loro progressione verso fenomeni delittuosi più seri. Si amplia l’atteggiamento “noi” contro di “loro”, di modo che anche giovani solo marginalmente coinvolti nel fenomeno ne vengano attratti in maniera più stabile e più seria. L’inquadramento mediatico del problema, in particolare, che definisce “baby-gang” pressoché ogni episodio conflittuale nello spazio pubblico in cui sia coinvolto più di un giovane, contribuisce a creare un clima sociale di intolleranza verso il problema e non aiuta alla sua comprensione. Rischia di favorire comportamenti emulativi e di rinforzare il senso di appartenenza e il processo di costruzione di una identità di “ banda”.

Andrebbero, per contro, programmate iniziative seminariali e discussioni serie e tra esperti. Andrebbero rinforzate le misure di sostegno alle famiglie problematiche in cui siano presenti minori a rischio. C’è necessità di formazione “alta” di operatori specializzati in grado di instaurare un contatto diretto con i giovani a cui affidare la progettazione e/o la gestione di progetti rivolti ai gruppi giovanili e che possano diventare un riferimento positivo per queste aggregazioni. È poi indispensabile l’individuazione di spazi fisici dove i giovani possano avere visibilità e possibilità di esprimere la loro sensazione di non appartenenza. In tal senso, andrebbe fatto uno sforzo di ripensamento della gestione dello spazio pubblico in grado di garantire maggiore spazio fisico a un gruppo di soggetti minoritario, quello giovanile, che richiede visibilità, rivendica desiderio di inclusione e di protagonismo, attenzione ai propri bisogni e interessi. D’altronde, la violenza minorile è sovente sintomatica espressione di una richiesta di spazio, di identità, di visibilità a cui il mondo degli adulti e le istituzioni non stanno fornendo risposte adeguate.

Da ultimo ma, a mio modesto avviso, il più impellente intervento va rivolto ai minori immigrati, siano essi parte di gruppi su base etnica o misti. Occorre evitare situazioni di “parcheggio” dei minori stranieri non accompagnati nei centri di accoglienza, oggi sempre più destinati a divenire una fucina per il coinvolgimento in attività devianti o criminali. Punire ma sostenere nel contempo, sanzionare ma anche offrire opportunità di cambiamento, per consentire a chi è detenuto di comprendere la bellezza del vivere in legalità e in libertà! Tutti abbiamo commesso errori nella nostra vita e dalle punizioni subite ne abbiamo tratto vantaggio; ma quando siamo stati messi in grado di ricrederci e di intraprendere percorsi di vita diversi, di comprendere le conseguenze negative dei nostri errori e abbiamo avuto la possibilità di constatarle attraverso l’incontro con la sofferenza provocata, ne siamo usciti persone migliori! Certo se poi la persona ristretta non le coglie e sfrutta le opportunità offerte, occorre salvaguardare anche l’esigenza di tutela e sicurezza della collettività, non certo meno meritevole di altre, ma vorrei tanto far parte di una Giustizia che consenta, prima di tutto, di “curare” e “amare” il reo e la vittima del reato!

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