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Nemtsov, Navalny e gli altri «ragazzi di piazza Bolotnaya»: così Putin ha azzerato l’opposizione

Tratto dal Corriere della Sera, articolo di Marco Imarisio

I protagonisti delle proteste del 2011 uccisi, in esilio, o in cella. La repressione di ogni dissenso, l’abbandono di ogni parvenza liberale.

«Rossiya bez Putina!». Russia senza Putin. Era questo il coro che si alzava da piazza Bolotnaya. Una sera di dicembre, nell’ormai lontano 2011. Se esistesse una foto di gruppo di quei giorni, capace di unire organizzatori e oratori della più grande mobilitazione russa dell’epoca moderna, allora diventerebbe evidente che la morte del dissidente più celebre chiude un cerchio che si era aperto nell’inverno di tredici anni fa.

La repressione di ogni dissenso, l’abbandono di ogni parvenza liberale da parte di Vladimir Putin, non sono certo cominciate con l’Operazione militare speciale. Russia senza Putin, cantavano in ventimila. Erano passati pochi giorni dalla truffa elettorale mirata ad assicurare a Russia Unita, il partito del presidente, una improbabile maggioranza alla Duma. Fu la prima e l’unica volta che c’erano tutti. I liberali, la sinistra, gli intellettuali e gli oligarchi ribelli, le Pussy Riot. E un nuovo leader, Alexei Navalny (i misteri sulla sua morte), capace di mobilitare i giovani.

Venne la primavera, e con essa le elezioni presidenziali della staffetta. Dmitry Medvedev riconsegnava il Cremlino al suo Capo, che aveva vissuto con disagio i quattro anni di limbo trascorsi come premier. La società civile gli rovinò la festa a cui teneva di più. La piazza affacciata sul canale della Moscova era sempre più piena, e faceva da volano alle piazze delle altre grandi città. Lo zar aveva cercato di blandirla con qualche promessa, rimandata al mittente. Allora erano cominciate le cariche della Polizia. Ma quelli continuavano. E gridavano «No 1937», facendo riferimento all’anno in cui erano cominciate le purghe di Stalin che avevano imprigionato le figure più importanti dell’opposizione.

«Hanno rovinato la mia rielezione, io rovinerò le loro vite». Non è dato sapere se la frase comunemente attribuita a Putin sia stata effettivamente pronunciata. Se è vera, ha mantenuto la promessa. Senza alcuna eccezione. Boris Nemtsov, l’ex vicepremier all’epoca di Boris Eltsin, era la mente di quelle manifestazioni. È stato ammazzato il 27 febbraio del 2015. Sul ponte che porta al Cremlino, il luogo più sorvegliato del mondo. Ma dove, quella notte, erano fuori uso le videocamere.

Vladimir Kara-Murza, il suo allievo prediletto, sopravvissuto a due avvelenamenti dal 2015, che lo hanno lasciato con una grave malattia dei nervi, è in carcere dall’aprile del 2023. Il tribunale di Mosca gli ha comminato la pena più severa nei confronti di un oppositore dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Venticinque anni di reclusione. Li stava scontando a Omsk, in Siberia. Sono due settimane che non si hanno sue notizie. «Credo», ha detto la moglie Evgenia, «che la vita di mio marito sia in pericolo: i prigionieri politici russi sono tenuti dietro le sbarre, spesso con gravi patologie, senza cure mediche adeguate, proprio perché il loro stato di salute peggiori».

Anche lui, come Navalny, aveva scelto di tornare in patria. Nel marzo del 2022. In principio, Kara-Murza aveva accettato la via di uscita che il Cremlino aveva offerto ai dissidenti di piazza Bolotnaya. Andate all’estero, se volete farvi sentire. Così noi vi potremo denigrare pubblicamente definendovi «quinte colonne» dell’Occidente. Putin usò per la prima volta questa definizione nel 2012.

L’esilio è stato la scelta obbligata di molti reduci di piazza Bolotnaya. Come lo scacchista Garry Kasparov e il famoso scrittore Boris Akunin. Come il poeta Dmitrij Bykov, biografo di Pasternak, anch’esso vittima di un tentativo di avvelenamento, oggi docente negli Usa. Gennadij Gudkov, colonnello dell’Fsb, poi deputato della Duma privato del seggio dopo quelle manifestazioni, vive in Bulgaria. Una delle oratrici più applaudite fu Nadezhda Tolokonnikova, delle Pussy Riot. Oggi è una dei «criminali» più ricercati di Russia.

Quelli che hanno scelto di non partire, sono in prigione. Ilya Yashin, all’epoca leader dei giovani di Yabloko, poi tra i fondatori del movimento Solidarnost insieme a Nemtsov e Kasparov, è stato condannato a otto anni di carcere per «screditamento dell’esercito russo».

Sergei Udaltsov, nazionalista di sinistra, fu uno dei volti della protesta. Scontata una pena per i «disordini» del 2012, pur appoggiando l’Operazione militare speciale è stato arrestato dopo essersi pronunciato a sostegno di un gruppo marxista della Bashkiria. Solo due esempi, tra i tanti. Ormai da anni, piazza Bolotnaya si è riempita di statue e dossi, per impedire ogni assembramento. Ieri, è stato distrutto anche il memoriale di Nemtsov, sul ponte dove venne ucciso. Non rimane più nulla, di quella breve stagione in cui la società civile alzò la testa. Bisognerebbe ricordarlo, ogni volta che si parla della dissidenza russa.

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