Memoria storica e ideologia nei libri di testo

Tratto da Gli asini, di Piero Majocchi

La memoria storica è elaborata, manipolata e tramandata dalle classi dominanti come mezzo per legittimare privilegi, garantire la distinzione sociale e nascondere fasi di crisi e sconfitte: la storiografia è perciò costantemente prodotta e modellata dalle situazioni politiche contingenti, che forniscono il materiale grezzo della narrazione storica e le motivazioni per metterla per iscritto e tramandarla, e successivamente scandiscono le periodiche rielaborazioni e re-invenzioni di tale memoria.

La narrazione ufficiale della storia in Europa dall’età antica al XIX secolo è dunque stata finalizzata a glorificare imperi e dinastie, legittimare colpi di stato e usurpazioni, esaltare le vittorie e nascondere le sconfitte dei diversi poteri (laici e religiosi) che si sono succeduti sino alla rivoluzione francese. Nei secoli XIX e XX la creazione artificiale delle nuove identità nazionali fu sviluppata attraverso l’imposizione di una lingua comune, la leva obbligatoria, l’amministrazione burocratica e infine le istituzioni “totali” come caserme, carceri, ospedali e, soprattutto, scuole. In tale fenomeno di elaborazione dell’identità nazionale, che tuttora contraddistingue gli stati nazionali in cerca di una nuova identità (come gli stati ex sovietici dell’est europeo), i programmi e i testi scolastici di storia costituiscono uno dei fattori principali, poiché forniscono e impongono una versione ufficiale della storia nazionale, inventando e rivendicando radici e antenati, e proiettando nel passato problematiche e ideologie del presente.

La storiografia, cioè la ricerca storica e l’insegnamento della storia, è perciò un prodotto ideologico: i manuali scolastici tra XIX e XX secolo furono creati per formare l’identità nazionale, cristiana, colonialista e razzista delle diverse nazioni europee, come è evidenziato dal fatto che i programmi e i manuali di storia sono diversi in ogni nazione, che definisce cosa evidenziare e cosa tacere del proprio e altrui passato per legittimare interessi e politiche attuali.

L’esempio più eclatante in Europa di interpretazione storiografica nazionalista e razzista è costituito dalle differenti interpretazioni della caduta dell’impero romano d’Occidente nel V secolo. La versione “tradizionale” della caduta dell’impero, che verte sulle “invasioni barbariche” o alternativamente le “migrazioni di popoli”, fu elaborata tra XIX e XX secolo in un contesto culturale europeo basato sul nazionalismo e sul razzismo scientifico, e divenne un tassello fondamentale nella costruzione della nuova visione nazionalista dei “popoli” europei, poiché le nuove nazioni trovarono nei regni post-romani i loro “antenati” razziali e culturali. La Germania discendeva dai Germani, una razza diversa dai Romani che aveva conquistato tutta Europa nel V secolo fornendo la giustificazione ideologica all’espansionismo tedesco sfociato in due guerre mondiali; l’Inghilterra discendeva dai regni anglosassoni, che avrebbero compiuto una vera e propria “pulizia etnica” nei confronti dei Britanni, giustificando il dominio inglese sulle regioni celtiche come Galles, Scozia e Irlanda; la Francia vedeva l’origine della civiltà francese nei Franchi e nella dinastia merovingia; la Spagna rivalutava il regno visigoto come regno cristiano prima della conquista musulmana, barbari sì, ma almeno cristiani; il nazionalismo italiano e successivamente il fascismo trovavano nella civiltà romana l’origine della nazione italiana, relegando l’alto medioevo a secoli oscuri di occupazione militare austro-tedesca.

Tali modelli storiografici si basano su presupposti razzisti e nazionalisti errati: che gli uomini fossero divisi in razze e popoli, alcuni superiori e altri inferiori, che per secoli o millenni si sarebbero mantenuti omogenei e puri biologicamente, non mescolandosi con altre razze, e culturalmente, mantenendo forme culturali e materiali specifiche di ogni popolo e immutabili per secoli. A partire dalla seconda guerra mondiale, che ha mostrato con decine di milioni di morti il vero volto del razzismo e del nazionalismo, tali modelli furono decostruiti e rigettati dalla comunità scientifica internazionale, che ormai considera assodato che le razze non esistono, così come non sono mai esistiti popoli “puri” razzialmente e culturalmente, né pertanto fantomatiche caratteristiche razziali, sia culturali che materiali, specifiche di ogni popolo e immutabili per secoli.

In Italia gli esempi di interpretazioni storiografiche nazionaliste e razziste sono innumerevoli: problemi  e conflitti politici contingenti del XIX/XX secolo erano proiettati all’indietro nei secoli (soprattutto nel medioevo, età oscura par excellence) inventando di sana pianta fenomeni mai accaduti al fine di legittimare le politiche del nuovo stato nazionale. Il regno longobardo, ovvero la storia d’Italia tra VI e VIII secolo, è ancora dipinto come una fosca fase di fine della civiltà romana, collasso economico, e soprattutto occupazione militare tedesca: i longobardi avrebbero instaurato una segregazione razziale nei confronti degli indigeni romani, ormai schiavizzati. Nello stesso modo il lungo regno di Federico I di Svevia – che risiedette in Italia nel XII sec. facendo il suo mestiere, cioè l’imperatore, e fu accolto come un liberatore dai comuni lombardi oppressi da Milano – è ancora presentato come un antecedente del Risorgimento, con tutti gli italici comuni uniti contro il teutonico invasore quando invece furono i comuni lombardi a combattere con l’imperatore, che vinse tutte le battaglie contro Milano tranne quella di Legnano, l’unica ricordata.

Anche le politiche imperialiste e coloniali degli stati europei e l’affermazione accademica del razzismo scientifico tra XIX e XX secolo hanno lasciato una pesante eredità nei programmi scolastici di storia: le civiltà extra-europee venivano o ignorate o indicate come primitive e sottosviluppate, descrivendo l’imperialismo europeo a partire dal XVI secolo con il genocidio delle popolazioni americane come uno sviluppo naturale e fisiologico della potenza militare europea e della sua missione civilizzatrice sulle altre civiltà. Le scoperte geografiche che aprono i libri di testo nel XVI secolo inoltre non costituiscono affatto delle scoperte geografiche:  i vichinghi raggiunsero il nord America tra X e XI secolo, così come il viaggio di Colombo è invece frutto di clamorosi errori di calcolo, al punto che i primi conquistadores non avevano la minima idea di dove si trovassero. La rotta di circumnavigazione dell’Africa d’altronde rappresenta ancora meno una “scoperta”: Vasco de Gama compì il suo primo viaggio in India su una nave araba percorrendo una rotta normalmente utilizzata da secoli dai mercanti arabi. Ma l’aspetto più eclatante è che le civiltà  precolombiane, che si svilupparono nella fase del medioevo europeo, entrano nei nostri libri di storia solo con la loro scomparsa causata dalla conquista spagnola. Infine la storia di Al Andalus, ovvero la penisola iberica musulmana e araba dall’VIII al XV secolo, viene totalmente taciuta, mentre i nostri testi narrano invece minuziosamente la Reconquista cristiana degli ultimi tre secoli del medioevo, che si concretizzò in una brutale pulizia etnica e persecuzione religiosa contro musulmani ed ebrei.

In Italia, come in altri paesi cattolici, i programmi scolastici presentano ancora innumerevoli  falsificazioni della realtà storica di matrice ideologica cattolica, ed esse costellano la narrazione della storia europea come una greve nube controriformista. In età tardo antica il cristianesimo viene presentato come l’unica religione monoteista dell’impero romano, mentre esso tra II e VI secolo fu invece caratterizzato dallo sviluppo e dalla proliferazione di religioni monoteiste di origine orientale, basate sulla salvezza dell’anima e la promessa della vita dopo la morte (lo Zoroastrismo, Mitra, Iside, Cibele e soprattutto il Sol Invictus, religione ufficiale degli imperatori romani dal II al IV sec), dalle quali il cristianesimo copia sostanzialmente tutti gli aspetti principali dei dogmi, del culto e dell’iconografia. Sono dei grossolani miti storiografici sia la povertà dei primi cristiani sia le truculente persecuzioni anticristiane, che furono inventate di sana pianta nelle vite dei santi redatte nei secoli successivi, mentre in realtà vi furono solo tre persecuzioni (di un anno ciascuna in più di tre secoli), che consistettero nella chiusura dei luoghi di culto e in requisizioni dei beni (che dimostra come le chiese cristiane fossero già ricche): in sostanza, nessun cristiano fu mai sbranato vivo o arrostito sulla griglia per il solo fatto di essere cristiano.

La discussione, la decostruzione e la critica delle narrazioni ideologiche dei testi scolastici sono il risultato della continua trasformazione della storiografia, soprattutto a partire dalla fine della II guerra mondiale. La storiografia, quella accademica in particolare, cambia e si trasforma non solo per mutati contesti ideologici, sociali, economici e culturali (dei quali in Europa il principale è ovviamente il processo di unificazione e il superamento del nazionalismo), ma anche per nuovi metodi di interpretazione delle fonti e nuove acquisizioni di dati. L’applicazione di modelli interpretativi dei testi formulati in semiotica da Roland Barthes e denominati “Linguistic turn” hanno permesso di decostruire le fonti e comprenderne meglio il significato e soprattutto il messaggio politico: un caso esemplare è la biografia di Carlo Magno scritta da Eginardo nel IX sec. e presentata come una fedele fotografia della vita del sovrano. Il testo è invece un collage di episodi delle vite degli imperatori romani copiati scrupolosamente dalle “Vite dei Cesari” di Svetonio: l’opera dunque non descrive la realtà dell’inizio del IX secolo, poiché Eginardo non voleva affatto raccontare la biografia di Carlo, ma presentare la sua figura come legittimo erede degli imperatori romani. L’archeologia ha invece fornito una crescente massa di nuovi dati, che hanno permesso di modificare radicalmente narrazioni storiografiche sedimentate nei secoli, come nel noto dibattito sull’incastellamento: dato che le fonti scritte mostrano lo sviluppo e la diffusione dei castelli nel X secolo, si pensava che i villaggi in cui sorgono i castelli fossero di fondazione signorile contemporanea e così dicono i nostri libri di testo mentre gli scavi archeologici hanno mostrato chiaramente come i villaggi siano stati fondati tra V e VII secolo come conseguenza del crollo della struttura economica statale romana e della trasformazione dell’insediamento delle masse di contadini, divenuti liberi con la scomparsa dei loro padroni, cioè lo stato e le élites romane.

I libri di testo non sono pertanto aggiornati con le acquisizioni storiografiche ormai assodate da decenni tra gli specialisti, continuando a presentare agli studenti un medioevo immaginario e immutabile. L’economia altomedievale consisterebbe in un mero regresso alla preistoria con la scomparsa del commercio e del denaro, mentre l’archeologia ha evidenziato da decenni la continuità della circolazione monetaria e dei commerci su lungo distanza nel Mediterraneo (in mano agli arabi). L’aumento demografico della popolazione europea a partire dall’XI secolo è attribuito in modo teleologico a fantomatiche innovazioni tecnologiche agricole (rotazione triennale, aratro ecc.) che sono invece in uso almeno da 7000 anni in tutto il bacino del Mediterraneo e in Medio Oriente. L’intera società del medioevo, infine, viene infantilmente immaginata come descritta nell’XI secolo dal ricco e potente vescovo Adalberone di Laon, ovvero una società immutabile e tripartita: quelli che pregano, quelli che combattono e quelli che lavorano (per le altre due classi). La realtà sociale d’Europa e del Mediterraneo è ovviamente ben più complessa: Adalberone infatti polemicamente immaginava un modello utopico di società, dato che i preti e i monaci non pregavano, i signori si facevano guerra tra loro e soprattutto i contadini rifiutavano di sottomettersi al controllo politico ed economico delle nuove classi aristocratiche laiche ed ecclesiastiche.

In età moderna e contemporanea gli esempi potrebbero essere innumerevoli: il più eclatante, nel caso italiano, è certamente la mancata assunzione di responsabilità storica e collettiva per i crimini perpetrati dagli eserciti dell’Asse (cioè italiani, tedeschi, ma anche rumeni, ungheresi, slovacchi, ucraini etc.) durante la II guerra mondiale. I crimini di guerra e i genocidi operati dagli italiani nelle colonie africane a partire dalla loro conquista vengono taciuti (bombardamenti sui civili coi gas in Etiopia ed Eritrea, deportazioni forzate di intere popolazioni e campi di concentramento in Libia), così come sembrano scomparsi nel nulla le centinaia di migliaia di civili massacrati dall’esercito italiano di occupazione nei Balcani (Jugoslavia, Albania e Grecia) in operazioni di guerra anti-partigiana tra il 1940 e il 1943. La storiografia italiana d’altronde è l’unica al mondo ad operare una distinzione sistematica tra italiani e tedeschi definendo i primi “fascisti” e i secondi “nazisti”, ad indicare implicitamente una diversità strutturale tra i due eserciti (e i due popoli, italiani buoni e tedeschi cattivi), e quindi una minore o assente responsabilità italiana nei crimini compiuti dai cattivi “nazisti”, mentre tutte le altre storiografie del mondo definiscono giustamente sia italiani che tedeschi (e i loro alleati ungheresi, slovacchi, rumeni, ucraini ecc.) come “fascisti”, dato che il programma politico di Hitler rivendicava apertamente i medesimi principi e metodi dello stato fascista di Mussolini.

Perché è ancora così difficoltoso il rapporto tra ricerca storiografica ed editoria scolastica? Uno dei principali problemi è che gli autori dei libri di testo generalmente (tranne illustri eccezioni) non sono storici, non hanno conoscenze approfondite della materia e verrebbero probabilmente bocciati a un esame di storia della triennale: gli autori si limitano a copiare narrazioni storiche datate e scritte da altri, e gli editor intervengono sul testo controllando l’uniformità del testo alle altre edizioni, in particolare quelle di maggior successo. Al mantenimento della narrazione ufficiale della storia contribuiscono anche motivi economici: le novità, a parere delle case editrici, “disorienterebbero i docenti”, abituati a una narrazione immutabile e soporifera, una storia teleologica e semplificata che giustifica il presente come l’unico e il migliore dei mondi possibili. Manca poi una diffusa richiesta di aggiornamento storiografico da parte dei docenti, che (tranne alcune eccezioni di laureati in storia) non hanno grandi conoscenze oltre i pochi esami di storia dati in università e sono meno interessati alla didattica della storia rispetto ad altre materie. In Italia poi i docenti di storia delle superiori devono essere laureati in Filosofia, e perciò hanno fatto ben pochi esami di storia, così come i dottori di ricerca in storia non hanno l’abilitazione per insegnare nelle scuole, diritto invece concesso negli altri paesi d’Europa.

Occorre dunque rivedere criticamente i programmi e riscrivere i libri di testo, rifiutando le narrazioni nazionaliste e razziste, cristiane e etnocentriche che ancora costituiscono il succo di quello che insegniamo a scuola, al fine oltretutto di giustificare fantomatiche nazioni, la cui invenzione ha sostanzialmente prodotto milioni di morti. Il principale insegnamento della storiografia è di non credere a quello che leggi, discutere criticamente, controllare le fonti, aggiungere nuovi dati, e giungere a una nuova conclusione, che sarà a sua volta discussa e modificata da qualcun altro.

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