27 Gen LE DONNE NON SOFFRONO
Tratto da ValigiaBlu di Alessandra Vescio
Per uno studio sull’impatto che gli stereotipi di genere hanno sulla percezione del dolore, un gruppo di ricerca ha messo in atto due esperimenti. Nel primo, cinquanta partecipanti hanno guardato video di espressioni facciali di pazienti, uomini e donne, con infortuni alle spalle e differenti gradi di dolore, mentre svolgevano alcuni movimenti. Ai partecipanti è stato chiesto di valutare il livello di dolore che secondo loro i pazienti stavano provando su una scala da 0 a 100. Al secondo esperimento hanno partecipato 200 persone che, dopo aver visto i video, hanno risposto a una serie di domande sul tipo di trattamento consigliato ai singoli pazienti, tra cure contro il dolore e psicoterapia, e su come secondo loro uomini e donne manifestino e sopportino diversamente il dolore. I risultati, pubblicati su The Journal of Pain a marzo 2021, dimostrano come vi sia un vero e proprio pregiudizio nei confronti del dolore delle donne. A molte più pazienti donne che uomini infatti è stata consigliata la psicoterapia invece di una cura di contrasto al dolore, e il dolore stesso delle donne è stato anche percepito tendenzialmente come meno intenso rispetto a quello mostrato dai pazienti uomini.
Il “gender pain gap”
Questa disparità nella percezione del dolore sulla base del genere della persona che lo manifesta è conosciuta come “gender pain gap”. Il gender pain gap però non esiste soltanto nel sentire comune, come hanno dimostrato i due esperimenti a cui hanno partecipato soprattutto persone senza formazione medica, ma anche in ambito sanitario. Come evidenziato da molti studi recenti e numerose testimonianze dirette, nonostante le donne provino e riportino di provare dolore in maniera più frequente e più intensa degli uomini, le risposte che ottengono non risultano sempre adeguate. Anzi, è più probabile che esse vengano curate meno e in maniera meno efficace rispetto agli uomini.
Anke Samulowitz, prima autrice di una revisione sistematica di studi sul tema, spiega a Valigia Blu: “Il dolore e le espressioni di dolore più comuni nelle donne possono essere messe in discussione o considerate come meno serie”. Le donne vengono infatti percepite come “esagerate” nelle loro manifestazioni di sofferenza, mentre gli uomini sono visti come “stoici” per cui se lamentano un dolore, questo non può che essere “reale”. Donne con dolore cronico riportano di essere state non credute, non ascoltate o ignorate, a volte anche accusate della loro stessa condizione e i loro sintomi attribuiti a problemi psicologici, stress e frutto di somatizzazione, piuttosto che a disturbi di natura fisica. Considerate “più emotive”, alle donne che riportano dolore cronico vengono ad esempio prescritti meno antidolorifici e più antidepressivi che agli uomini.
Per quanto solo di recente si sia iniziato a parlare di disparità di genere nella percezione del dolore, quell’approccio scettico e spesso sminuente riservato alle donne in sofferenza ha invece origini antichissime. Comparso per la prima volta nel Corpus Hippocraticum, il termine “isteria” indicava una presunta patologia causata dall’utero vagante nel corpo delle donne. “Isteria”, infatti, deriva da “hysteron”, che in greco significa “utero”. Il termine ha poi cambiato più volte connotazione e significato nel corso dei secoli, diventando uno strumento di controllo e svilimento del corpo e della dignità delle donne. Nel 1980 la nevrosi isterica è stata eliminata dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, eppure ciò che rappresenta e la portata del suo significato continuano a inficiare non solo la concezione della donna concepita come instabile e impulsiva, ma anche in molti casi il rapporto medico-paziente.
“L’idea che l’indole di una donna sia il prodotto diretto dell’attività delle sue ovaie”, ha scritto Rebecca Shansky, professoressa associata alla Northeastern University di Boston, “persiste ancora oggi. Le donne, ma non gli uomini, sono ancora descritte in maniera dispregiativa come ormonali o emotive”.
Sono tantissime ad esempio le donne con endometriosi che hanno ricevuto una diagnosi di disturbi mentali prima di ottenere quella corretta, e oltre il 90% delle donne con diagnosi di vulvodinia intervistate dal progetto Vulvodinia Online ha detto di aver provato la sensazione di non essere creduta dalle persone care (partner, amici, familiari) e/o dai medici a cui si è rivolta. Ad oggi, circa 3 milioni di donne hanno ricevuto una diagnosi di endometriosi e si stima che le persone con vulvodinia siano tra il 10 e il 16% di coloro a cui è stato attribuito il sesso femminile alla nascita.
Nonostante un’incidenza non così trascurabile e le conseguenze spesso invalidanti che queste patologie provocano, l’endometriosi e la vulvodinia sono ancora spesso sottovalutate, poco studiate e spesso diagnosticate con enorme ritardo. È stato stimato infatti che ci vogliano più di 4 anni e mezzo per ottenere una diagnosi di vulvodinia e circa 7 per l’endometriosi. Uno studio sull’endometriosi realizzato in Italia e pubblicato nel 2022 parla di un ritardo diagnostico pari a circa 11 anni. Nel mezzo, c’è un lungo e faticoso percorso fatto di continue ricerche di specialisti, consulti spesso dai costi elevati, visite e procedure mediche invasive e non sempre risolutive, diagnosi errate e il rischio purtroppo sempre molto elevato di subire un’invalidazione del proprio del dolore.
“Quando avevo dodici anni, ho sentito un dottore prendere i miei genitori da parte e dire loro ‘è tutto nella sua testa’”, ha raccontato la giornalista Sara Harris a cui è stata diagnosticata l’endometriosi quando era già all’università, ma che ricorda di aver sempre avuto dolori molto forti e sanguinamenti abbondanti al punto tale da dover andare in pronto soccorso più volte all’anno. “Da allora”, continua Harris, “ho supposto che il dolore e il disagio che venivano insieme al mio ciclo mestruale mensile fossero semplicemente qualcosa con cui dovevo fare i conti. Non era qualcosa che tutte le persone con mestruazioni vivevano? E forse io non ero forte tanto quanto loro? Così, per anni, ho soffocato i miei sentimenti, sorridendo nonostante il dolore quando uscivo e assicurandomi di indossare il doppio degli assorbenti più spessi disponibili”. È anche a causa di questo falso mito per cui provare molto dolore durante le mestruazioni sia normale, anzi, che faccia addirittura parte dell’essere donna, che può portare a sottovalutare il problema. Così come si tende a considerare le complicanze post partum come normali o poco importanti, nonostante l’impatto psicofisico che queste possono avere.
Secondo Samulowitz, “Quando le donne non vengono prese sul serio” potrebbero arrivare al punto di “dubitare di se stesse (com’è stato riportato dagli studi), cosa che a sua volta potrebbe portare il personale sanitario a mettere ancora di più in discussione il loro dolore”.
Conseguenza di ciò può essere un aggravarsi dei sintomi e della patologia di cui una donna soffre, un peggioramento della qualità della vita e un impatto profondo sulla sua salute mentale. Come spiega la ginecologa Elena Carovigno a Valigia Blu: “Il dolore è un segnale di pericolo reale, che non va mai sottovalutato: può favorire la depressione, aumentare ulteriormente la sensibilità agli stimoli dolorosi e aprire la strada alla cronicizzazione del dolore, anche quando la causa all’origine venga risolta”.
In Italia circa 1 donna su 3 ha detto di provare dolore a causa di una patologia cronica, definizione che non è limitata all’ambito ginecologico. Come ha spiegato infatti la dottoressa Carovigno, “Le donne hanno maggiori probabilità degli uomini di sperimentare una varietà di sindromi dolorose croniche come l’artrosi, la maggior parte delle artropatie infiammatorie, la fibromialgia e la lombalgia e tendono a riferire dolore più intenso in più sedi rispetto agli uomini”.
La fibromialgia, ad esempio, è una sindrome che colpisce soprattutto le donne e consiste in un dolore nei muscoli, nei legamenti e nei tendini, insieme ad altri sintomi come l’astenia o affaticamento. Ottenere una diagnosi di fibromialgia non è semplice sia per la sua intrinseca complessità, sia perché spesso i sintomi esposti da chi ne soffre vengono sottovalutati e la persona malata non creduta, accusata di non avere una “reale malattia” e di essere causa dei propri sintomi.
“Storicamente”, ha scritto Janet L. Armentor, professoressa di sociologia all’Università della California, “i sintomi simili a quelli provocati dalla fibromialgia erano associati alle classificazioni diagnostiche di isteria e nevrastenia” e ancora oggi “la fibromialgia è identificata come una malattia psicosomatica da molti medici”, al punto che nonostante i progressi fatti in ambito di ricerca su questa sindrome, “la fibromialgia è ancora vista come una malattia ‘controversa’ e quindi sebbene le donne possano ricevere una diagnosi, questa potrebbe non essere considerata legittima dai professionisti sanitari e dalla società. Vivere con una malattia cronica contestata”, ha scritto Armentor, “può portare alla stigmatizzazione”.
Il dolore delle donne viene preso meno seriamente non soltanto perché non creduto, ma anche perché spesso non capito. Da un’indagine qualitativa condotta dall’Osservatorio Nazionale sulla salute della donna, è ad esempio emersa da parte dei ginecologi intervistati “una scarsa conoscenza rispetto al dolore pelvico cronico in qualità di dolore neuropatico” e “dei trattamenti ad oggi a disposizione per la gestione di questa patologia”.
Un risultato simile si legge in uno studio sulla vulvodinia pubblicato nel 2020: “Oltre a una mancanza di conoscenza della vulvodinia nella popolazione in generale, vi è anche un’assenza di formazione e consapevolezza tra medici e professionisti della salute mentale che diagnosticano e curano le donne e i loro partner”. Secondo le studiose che hanno condotto la ricerca, questo non è un dato che dovrebbe sorprendere, “dal momento che la vulvodinia coinvolge due aree della salute che generalmente vengono trascurate nei programmi di formazione in tutto il mondo”, quali sono il dolore cronico e la salute sessuale.
Le disparità in ambito medico e sanitario
Il dolore cronico di cui soffrono soprattutto le donne è infatti poco studiato e poco finanziato. Secondo Anke Samulowitz, può dipendere dall’impostazione androcentrica della medicina. Per molto tempo, infatti, non solo la medicina è stata praticata soltanto o principalmente da uomini, ma le donne sono state a lungo escluse anche dalle ricerche mediche. Gli effetti di molti farmaci, ad esempio, sono stati studiati solo su soggetti maschili e i dosaggi stabiliti su uomini dal peso di 70 chilogrammi. Lo stesso vale per i dispositivi medici, come protesi e cateteri venosi, e per i farmaci chemioterapici.
Questa disparità in ambito sanitario, che tra le altre cose include proprio la difficoltà a credere al dolore delle donne e la loro sottorappresentazione nelle ricerche mediche, è conosciuta anche come “gender health gap”. In questo sistema, l’uomo cisgender è considerato lo standard, mentre le donne cisgender e le persone transgender l’eccezione. Come spiega la dottoressa Carovigno: “Pochi studi hanno esplorato la variazione del dolore tra coloro che si identificano come persone non binarie, transgender e gender-fluid”.
“L’andronormatività”, ha spiegato Samulowitz a Valigia Blu, può “portare a pregiudizi di genere nelle ricerche sul dolore, quando le patologie più comuni nelle donne vengono sottovalutate, classificate più in basso nelle gerarchie delle diagnosi mediche o declassate nella ricerca o nei finanziamenti”. Non solo, ha detto la studiosa, “data la mascolinità egemonica e l’andronormatività prevalenti in ambito sanitario, contrastare i pregiudizi di genere” in questo settore, “potrebbe non essere la questione prioritaria”. Piuttosto, “sminuire questi problemi potrebbe essere parte della mascolinità egemonica e dell’andronormatività”.
A questo proposito, la dottoressa Carovigno spiega a Valigia Blu che “l’inclusione delle donne negli studi clinici e l’analisi delle loro peculiarità sono essenziali se vogliamo realmente comprendere i meccanismi fisiologici del dolore”. Anche perché, “sia il sesso che il genere hanno un impatto su tutte le condizioni di salute, con conseguenti differenze tra uomini e donne nei fattori di rischio di malattia, prevalenza, presentazione e risposta al trattamento”.
La medicina di genere
Dalla necessità di tenere in considerazione le differenze di sesso e genere in ambito medico e scientifico, anche al di là dell’apparato riproduttivo, è nata la medicina di genere, che si occupa proprio di studiare i diversi effetti che il sesso e il genere hanno sulle persone e di costruire percorsi di prevenzione e cure che siano adeguate ed efficaci per tutte e tutti.
In Italia si è cominciato a parlare di medicina di genere alla fine degli anni Novanta e da lì tanti sono stati i progetti e i passi avanti in questo senso. Nel 2005, ad esempio, il Ministero della Salute ha aperto il Tavolo di lavoro “Salute delle donne e farmaci per le donne”, mentre nel 2011 l’Agenzia Italiana del Farmaco ha istituito il “Gruppo di lavoro su farmaci e genere”, che ha lo scopo di informare e indirizzare l’industria farmaceutica verso una ricerca medica che tenga conto delle differenze di sesso e genere. Nel 2017 invece l’Istituto Superiore di Sanità ha dato vita al “Centro di riferimento per la Medicina di Genere” e in seguito è nata anche la “Rete italiana per la medicina di genere” che, oltre che sulla ricerca medica, si focalizza anche sulla formazione del personale sanitario. Nel 2018 è stata poi approvata una legge che ha dato vita al Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere e introdotto questa nuova prospettiva in ambito medico.
Il perché sia importante guardare alla medicina in un’ottica di genere emerge dallo studio di diversi dati. Innanzitutto, per quanto nei paesi occidentali le donne vivano più a lungo degli uomini, non è detto che godano anche di maggiore salute. Inoltre, le donne costituiscono circa l’80% delle persone che si ammalano di malattie autoimmuni, soffrono di più di osteoporosi e hanno maggiori probabilità di sviluppare l’Alzheimer rispetto agli uomini.
Anche le malattie cardiovascolari sono influenzate dal sesso e dal genere. Nonostante siano ancora spesso considerate come patologie prettamente maschili, in Italia il tasso di mortalità per le patologie cardiovascolari è più alto nelle donne che negli uomini e per le donne queste rappresentano anche la prima causa di morte. Rispetto agli uomini, però, le sindromi coronariche acute e croniche si presentano con una sintomatologia differente, diversa appunto da quella che si è sempre studiato.
Come spiega a Valigia Blu Alaide Chieffo, cardiologa interventista, coordinatrice di area di attività di ricerca clinica all’Unità di Cardiologia Interventistica ed Emodinamica presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele, “Le differenze relative alle patologie cardiache nella sindrome coronarica acuta e cronica sono in primo luogo inerenti alla sintomatologia e alla presentazione clinica. Spesso le donne non presentano dolore toracico ‘classico’ ma mancanza di respiro, dolore epigastrico, stanchezza e questo rende più difficile la diagnosi per il paziente stesso ma anche per gli stessi medici”.
Nonostante ciò, dice la dottoressa Chieffo, che è anche presidente eletta della European association of Percutaneous Cardiovascular Interventions, “in Italia come nel resto del mondo vi è tuttora limitata conoscenza da parte della comunità scientifica sulla cardiologia di genere. Tuttavia, negli ultimi anni grazie al lavoro delle società scientifiche nazionali e internazionali sempre più spazio è dedicato alla discussione” sull’argomento “con creazione di gruppi di studio in seno alle diverse società scientifiche e sessioni nell’ambito dei congressi nazionali ma anche regionali, con letture e presentazione di casi clinici. Diversi documenti di consenso sono stati pubblicati o in corso di pubblicazione con lo scopo di ‘educare’ la comunità medica sull’esistenza di questo tipo di patologie, loro diagnosi e trattamento. Inoltre, con le politiche del Ministero della Salute sulla medicina personalizzata e accesso ai grant e ai finanziamenti del Ministero della salute, ad esempio nell’ambito della Ricerca Finalizzata e PNRR Minisal, è stato possibile iniziare studi mirati alla cardiologia di genere”.
“È fondamentale”, aggiunge la dottoressa Chieffo, “acquisire sempre più informazioni e conoscenze su queste patologie attraverso studi specificamente indirizzati alle popolazioni target che poi dovranno essere opportunamente diffusi a livello nazionale”, così come sono anche “necessarie campagne di informazione più capillari sull’incidenza delle patologie cardiovascolari nelle donne, sulla prevenzione e cura dei fattori di rischio nella popolazione femminile e la loro tempestiva cura”.
Per quanto riguarda i fattori di rischio, la cardiologa ha spiegato che “è da considerare, come recentemente è emerso dal lavoro della commissione di Lancet sulle patologie cardiovascolari sulle donne, come esistano fattori di rischio specifici delle donne, quali complicanze insorte durante la gravidanza, (gestosi, diabete, parto pretremine) che vengono scarsamente riconosciuti non solo dalle donne ma dai medici stessi, nonché poi fattori di rischio ancora poco studiati quali la violenza domestica e l’impatto ambientale”.
Le conseguenze delle disparità in ambito sanitario
Non essere capite o credute, subire una costante invalidazione del proprio dolore, essere sminuite e ridicolizzate in ambito sanitario può portare molte donne cisgender e persone transgender a perdere fiducia nella medicina e in chi la pratica, con pericolose conseguenze a livello personale e sociale. Le donne grasse, che si sono sentite sminuite e i cui sintomi sono stati ripetutamente attribuiti al loro peso corporeo anziché essere indagati a fondo, e le persone transgender, che sono state discriminate da medici o infermieri per la loro identità di genere, possono arrivare al punto di smettere di rivolgersi al personale medico e sanitario pur di non rivivere i medesimi traumi, continuando a sopportare un dolore e sintomi che meriterebbero di essere ascoltati e curati.
Invece è importante, dice la dottoressa Carovigno, “prima di tutto credere alla sofferenza della paziente e ascoltarla senza banalizzare la situazione”. Allo stesso modo, aggiunge la ginecologa, “occorre una formazione per i medici”. Come si è visto, infatti, il gender health gap non è fatto soltanto di pregiudizi e discriminazioni dirette nei confronti di una paziente, ma anche dell’assenza di strumenti messi a disposizione dei medici e di un problema culturale molto più ampio. Finché le ricerche continueranno a essere focalizzate su soggetti maschili, gli studi sulle malattie che colpiscono principalmente le donne a essere poco finanziati e la salute delle donne a restare marginale e impregnata di stereotipi di genere, difficilmente le disparità in ambito sanitario verranno risanate.
“Le norme sociali, come le norme di genere, possono essere modificate ma sono difficili da cambiare. Sono spesso implicite e inconsce”, ha spiegato a Valigia Blu Anke Samulowitz. E ha aggiunto: “Il personale sanitario, i pazienti e i ricercatori, gli uomini, le donne e le persone di genere non conforme sono tutti influenzati dalle norme di genere, siamo tutti coinvolti in un sistema di norme sociali”. L’unico modo per provare a cambiare le cose, dice Samulowitz, è innanzitutto prendere consapevolezza di ciò e poi “continuare a ricordarci l’importanza di mettere in discussione le norme di genere restrittive e di riflettere sui nostri comportamenti personali”.
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