14 Ott La disinformazione come fenomeno sociale e l’emersione delle logiche da “branco”
Tratto da valigiablu, di Bruno Saetta
“L’individuo non può avere indefinitamente ragione contro l’umanità” (Jules Romains)
Il mito dell’individuo razionale
Il pensiero occidentale è teso a glorificare l’individuo moderno come un essere razionale, alimentando un’immensa fiducia nel singolo. Ma gli esperti di economia comportamentale hanno dimostrato, invece, che la maggior parte delle decisioni umane è basata su reazioni emotive e scorciatoie euristiche, piuttosto che su un’analisi razionale. Il premio nobel per l’economia nonché cofondatore dell’economia comportamentale, Daniel Kahnemann, ha spiegato che gli esseri umani prendono decisioni in base a due modalità: la prima basata sull’intuizione, che tende a decidere con impulsività e in base a sostituzioni (ad esempio la distanza di un oggetto è valutata in base alla nitidezza), cioè utilizzando i risultati di situazioni simili già processate, e che quindi è manipolabile e incline agli errori; la seconda basata sulla logica che decide in base a tutti gli elementi disponibili, che però tende a ritardare le decisioni quando, spesso, non ritiene di avere sufficienti elementi (Kahneman, Pensieri lenti e veloci).
A pensarci bene anche l’individualità appare soltanto un mito. La nostra conoscenza spesso risiede al di fuori di noi, in genere nel gruppo di cui facciamo parte, nelle comunità della conoscenza cui ciascuno appartiene (Rozenblit,Keil, The misunderstood limits of folk science: an illusion of explanatory depth). Ben pochi individui possiedono le conoscenze per costruire un razzo spaziale, eppure ci illudiamo di avere tali conoscenze perché ne abbiamo accesso come gruppo. Ed è proprio l’affidamento al “pensiero di gruppo” che ci ha reso padroni del mondo e ci ha consentito di andare avanti senza rimanere impigliati dal tentativo impossibile di capire tutto da soli.
L’illusione della conoscenza, però, ha i suoi lati negativi. Il mondo è talmente complesso che le persone non sono nemmeno più in grado di capire quanto la loro conoscenza di ciò che accade nel mondo sia limitata. Così chi non sa nulla di scienze climatiche e meteorologia propone politiche sul cambiamento climatico, e così via. Queste persone molto spesso tendono ad affiancarsi a persone che la pensano come loro su determinati argomenti, e con ciò all’interno del gruppo tendono a rinforzarsi vicendevolmente le loro opinioni. La presunzione di sapere viene costantemente rafforzata e raramente verificata.
E nemmeno gli scienziati sono immuni al “pensiero di gruppo”, ad esempio ritenendo che sia sufficiente veicolare le evidenze scientifiche alla gente per far smettere loro di credere nelle fake news. Tali speranze si fondano sull’incomprensione del “pensiero di gruppo”, e quindi sul funzionamento del nostro modello cognitivo. La maggior parte delle nostre idee, infatti, è plasmata dal pensiero di gruppo non dalla razionalità individuale. Il pensiero di gruppo serve spesso a consolidare la lealtà al gruppo, quindi tende a prevalere anche sui fatti.
Nuovo modello economico digitale?
Il paradosso dell’età moderna è che nonostante l’enorme quantità di informazioni che abbiamo a disposizione, nonostante la facilità di accesso alle informazioni tramite internet, le fake news vengono pubblicate costantemente su tutti i media, tradizionali e digitali. Oggi esistono droni che chiunque può far volare per verificare la curvatura terrestre, eppure la teoria della terra piatta mantiene i suoi seguaci.
La risposta più seguita a tale paradosso è la cosiddetta teoria del “capitalismo della sorveglianza”. Secondo tale teoria la società moderna è squassata a causa del modello economico che avrebbero inventato le grandi piattaforme del web (principalmente Google e Facebook, ma non solo) che si sostanzia in una forma di manipolazione dell’essere umano tramite l’estrazione (datificazione) delle informazioni dal comportamento (attraverso smartphone e dispositivi digitali) dalle quali ricavano un profilo digitalizzato dell’individuo. Il profilo digitale, poi, viene utilizzato per “conoscere” l’individuo e di seguito per manipolarlo, fino addirittura ad alterarne l’identità.
Il sottoprodotto delle operazioni di massimizzazione dei profitti da parte delle piattaforme sarebbe l’incentivazione di forme di disinformazione. L’idea di base risiede nella convinzione diffusa (specialmente a livello politico) che la sorveglianza elettronica e il machine learning (gli algoritmi) siano capaci di alterare le percezioni di un individuo. Tale “tecnologia” consentirebbe, quindi:
L’alterazione dei bisogni e dei desideri, portando gli individui a comprare cose che non vogliono comprare;
L’alterazione delle credenze degli individui portandoli a credere in cose palesemente non vere o ascientifiche;
La “radicalizzazione” degli individui portandoli a compiere stragi;
La “polarizzazione” portandoli a votare persone in cui in realtà non credono così alterando il normale processo democratico.
Ma è davvero così?
L’ordine costituito immaginario
L’era moderna viene definita l’era della “post-verità”, in quanto la nostra cultura, la nostra politica sono caratterizzate da dibattiti in gran parte contraddistinti da feedback emotivi e non sui fatti. In realtà la definizione non è corretta perché non è mai esistita un’“era della verità”. La propaganda e la disinformazione sono delle costanti dell’era umana.
La costruzione della società umana è la conseguenza di una serie di comportamenti dell’Homo sapiens che, nato in Africa, si è diffuso nel resto del mondo. La cooperazione sociale è stata, e lo è ancora oggi, il fattore determinante per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’umanità, lavorare in gruppi sempre più estesi, fino ad intere nazioni, sfruttando le “comunità di conoscenza” alle quali abbiamo accesso.
Ad essa si aggiunse l’immaginazione, che ha consentito di creare cose che non esistono in natura, come le automobili. Enormi gruppi di persone del tutto estranee tra loro sono in grado di cooperare fattivamente solo se esiste qualche cosa che li unisce, grandi narrazioni che siano specchi di un ordine condiviso. Se siamo in pochi possiamo darci un ordine parlandoci faccia a faccia, ma se siamo milioni abbiamo bisogno di “storie” per creare una comunità. Così come gli uomini primitivi si raccontavano miti su spiriti, seduti intorno al fuoco, così noi oggi ci raccontiamo miti su come funziona la nostra società. Una notizia falsa che dura per poco tempo è una fake news, se dura millenni diventa la promozione di un marchio, un’ideologia, una teoria economica, una religione.
L’immaginazione ha, però, anche un aspetto negativo. Per poter convincere gli appartenenti a una determinata società occorre che l’ordine costituito immaginato sia inculcato nelle persone fin da piccoli. A questo pensa il sistema educativo, costruito per trasmettere alle persone i principi della società che vengono replicati dovunque perché tutti finiscono per crederci: gli scrittori, i commediografi, i registi, i cantautori, i politici, gli imprenditori. Le narrazioni formano le nostre identità, non solo quelle individuali ma anche le istituzioni collettive si basano sulle narrazioni.
L’introduzione della lettura presso le classi incolte, se da un lato offrì a esse un maggiore potere ampliando i loro orizzonti, dall’altro fu un modo per estendere i valori sociali della classe colta in modo da imporre a tutti una identica visione del mondo e costringere i lettori a imparare ad operare entro le leggi delle classi sociali (ovviamente stabilite dalle élite). Anche le favole, in fondo, erano dei mezzi per inculcare ai lettori fin da piccoli gli specifici valori della società capitalista nella quale vigeva una rigida divisione del lavoro e dei ruoli sessuali, suggerendo un’educazione patriarcale e ruoli di genere tipicamente borghesi (Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm?).
L’ordine costituito immaginario, che permea le persone e modella i nostri desideri, è intersoggettivo, non è oggettivo, non esiste nella realtà, ma non è nemmeno soggettivo in quanto se un individuo smette di crederci non scompare. Dubitare della narrazione dominante può portare all’ostracismo da parte della società. Per modificare l’ordine costituito occorre che una quantità elevata di persone smettano di crederci, ma un cambiamento di tale portata è molto difficile da attuare, potrebbe farlo solo un movimento, un culto religioso, un partito politico.
“Il racconto è presente in tutti i tempi, in tutti i luoghi, in tutte le società; il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti; tutte le classi, tutti i gruppi umani hanno i loro racconti e spesso questi racconti sono fruiti in comune da uomini di culture diverse, talora opposte; il racconto si fa gioco della buona e della cattiva letteratura; internazionale, trans-storico, transculturale, il racconto è là come la vita” (Roland Barthes, Introduzione all’analisi strutturale dei racconti)
I media e la manipolazione delle masse
Con l’avvento di internet e in particolare dei social media si è avuto un incremento esponenziale delle informazioni fornite agli utenti. Internet, come i libri, offre alla gente maggiori informazioni e quindi maggior potere. Markus Prior (Hooked: How Politics Captures People’s Interest) ha spiegato che con la rivoluzione digitale abbiamo avuto non solo un aumento delle informazioni, ma anche un aumento delle scelte. La rivoluzione digitale ha permesso agli interessati alla politica di interessarsene di più, mentre i disinteressati possono continuare a disinteressarsene occupandosi di altro. Insomma, il divario tra “informati” e “non informati” si è acuito.
La differenza del media è importante. Un media come la televisione non poteva permettersi di offrire messaggi tali da inimicarsi parte del pubblico (cosa che rendeva impossibile dominare il mercato), per cui i messaggi politici tendevano a una apparente neutralità. Era la scelta che mancava, data la scarsità di banda, per cui i messaggi veicolati erano limitati e non andavano oltre un certo ambito (finestra di Overton). Con internet tutto questo cambia, perché c’è la possibilità da parte di chiunque di avviare un canale, un media, un sito, un account social, per veicolare notizie politiche, e quindi c’è la possibilità di soddisfare qualunque possibile scelta. Nell’era digitale le storie pubblicate sono mirate, personalizzate, riguardano l’identità delle persone, storie da poter condividere con i propri amici, storie per il proprio gruppo.
Le caratteristiche intrinseche del media internet hanno consentito l’allargamento dei cittadini che possono partecipare al dibattito pubblico, con ciò per la prima volta garantendo una libertà di espressione effettiva (e non solo teorica), ma questo ha anche determinato il riversamento in rete (e quindi nello spazio pubblico) dei desideri, dei modi di pensare, delle identità di miliardi di individui, invece che delle poche centinaia (le élite) che prima avevano la possibilità di parlare in televisione o sui giornali. La possibilità di soddisfare ogni scelta ha fatto esattamente questo.
Cosa ben diversa, però, è il recepimento dei “valori” (o disvalori) che vengono veicolati tramite internet (o gli altri media). L’apprendimento (Lave, Wenger, Situated learning: Legitimate peripheral participation) non è la ricezione di conoscenza o informazione fattuale, bensì un processo di partecipazione sociale. Internet ha favorito la cultura partecipativa (a differenza della cultura consumistica dei vecchi media) determinando basse barriere all’impegno civico e un forte sostegno alla creazione e condivisione di proprie creazioni (user content). I membri della cultura partecipativa (quindi parte degli utenti dell’ecosistema digitale) credono di essere importanti e che i loro contributi siano importanti, e sentono una connessione sociale tra loro (Jenkins, Confronting the Challenges of Participatory Culture: Media Education for the 21st Century).
La cultura partecipativa ha anche consentito di creare un nuovo modello di impatto dei media sull’audience, laddove il grado di attività (partecipazione) dipende da una serie di fattori, in primis dal media stesso. In base al modello dell’audience attiva (Mass communication popular taste and organized social action) il pubblico non si limita a ricevere passivamente i messaggi, ma li decodifica e interpreta sulla base della propria ideologia e posizione sociale. Di conseguenza due persone diverse decodificano il messaggio in modo diverso, per cui l’impatto su di loro è differente (The rhetorical limits of polysemy). Tale teoria, ovviamente, non si sposa bene con l’idea alla base del “capitalismo della sorveglianza” che implica una manipolazione degli individui verso lo stesso fine (es. votare Trump).
È essenziale, però tenere presente che prima che l’interiorizzazione delle norme sociali, di una visione del mondo, accada, occorre che il soggetto esposto possa identificarsi – così come i bambini si identificano nel protagonista delle favole -. È l’identificazione che da il via al processo di socializzazione, inteso come interiorizzazione del messaggio del media.
La tecnologia permette in poco tempo di creare movimenti d’opinione e certezze condivise, non necessariamente fondate su contenuti di verità. I cittadini sono chiamati a esprimere opinioni su temi complessi, determinando con le loro scelte il futuro della società, ma la tendenza naturale delle persone è di scegliere seguendo impulsi istintivi, con motivazioni superficiali, influenzandosi reciprocamente in direzione del rafforzamento delle loro convinzioni, spesso rifiutando il confronto con chi la pensa diversamente. Ragioniamo e decidiamo secondo una “mentalità da branco” (Sloman, Fernbach, L’illusione della conoscenza. Perché non pensiamo mai da soli).
L’inclinazione alla mentalità da branco, unita all’inconsapevolezza della propria ignoranza può innescare meccanismi sociali molto pericolosi, le società possono polarizzarsi nel tentativo di creare un’ideologia uniforme, reprimendo il pensiero indipendente e l’opposizione politica per mezzo della propaganda e del terrore.
Il capitalismo del corpo e della mente
L’individualismo liberale, con la sua esaltazione dell’individuo quale agente razionale e quindi motore principale della società, si proponeva di conciliare la libertà di espressione delle persone e l’interesse generale. Ma l’acquisizione del potere decisionale, dell’autonomia del singolo, si è incarnato nell’atto di acquisto portando alla realizzazione della “società dei consumi”, ha alimentato una sfiducia verso il patto sociale, e si è trasformato nella ricerca spasmodica del profitto (inteso non solo come economico ma anche come sociale) individuale e privato. L’arretramento dei servizi pubblici (austerità) ha innescato un ampio risentimento, conseguente alla perdita dei punti di riferimento. I cittadini hanno preso coscienza della disgregazione del patto sociale, e tale spossessamento ha innescato una mobilitazione di massa. Ma il risultato è stata la creazione di una società di individualisti che punta alla decomposizione sociale in una ricerca sfrenata della singolarizzazione del sé allo scopo di differenziarsi dalla massa (Eric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune).
L’avvento contemporaneo di internet e dello smartphone, spiega Sadin, ha permesso a un numero crescente di individui di accedere a quantità sempre più grandi di dati, di informazioni, sommata alla crescente flessibilità dei servizi offerti, capaci di adattarsi al singolo individuo. Ciò ha portato a un aumento dell’autonomia del singolo, dandogli la sensazione di essere oggetto di un’attenzione continua proprio quando il cittadino prendeva coscienza di una crescente indifferenza della politica nei suoi confronti. L’individuo passa da mero spettatore di flussi informativi ad attore, potendo finalmente dire la propria opinione e condividere momenti della propria vita potendo verificare in tempo reale l’apprezzamento del “pubblico” (like), cosa che fornirà la dose quotidiana di dopamina.
L’uomo moderno è spinto costantemente a “partecipare”, a condividere le proprie esperienze, a dire la propria opinione su tutto. L’individuo si sente depositario di una nuova forma di potere che progressivamente ha portato a una rappresentazione ingigantita del sé. L’individuo si sente per la prima volta slegato da vincoli, e capace di far sentire la propria voce e diventare attore della propria vita. I post non sono informazioni condivise quanto servono a segnalare la propria esistenza, sono un modo per riprendere il controllo perduto, e vendicarsi delle promesse mancate. Su Youtube puoi “trasmettere te stesso” (Broadcast Yourself), fino alla sublimazione coi Ted Talks, dove svariate personalità vengono invitate a esporre le loro opinioni in 18 minuti senza contraddittorio e senza possibilità di porre domande. In questi interventi ben presto l’argomentazione è stata trascurata a favore delle frasi ad effetto, caratterizzate da brevità tale da poter essere pubblicate su Twitter, in una spettacolarizzazione del sé per dare l’illusione di occupare una posizione centrale nella società.
La convinzione che ognuno di noi abbia un io interiore degno di rispetto, e che la società circostante potrebbe essere in errore nel non riconoscerlo (Francis Fukuyama, Identità)
Proprio nel momento in cui l’uomo acquista consapevolezza di una maggiore autonomia, quella stessa tecnologia si dimostra capace di poter schiavizzare l’essere umano, in una perfetta continuità con l’economia capitalistica. Nasce una nuova economia, costruita sulla conoscenza dettagliata dei comportamenti, che pone l’individuo al centro della “società” in una sorta di atto consolatorio nel momento in cui l’individuo è schiacciato dall’invisibilità sociale, dall’indifferenza della politica. Così come un tempo le terre erano terreno di conquista del capitalismo, appartenenti al primo che le trovava, così oggi i dati sono lì per essere raccolti da chi ne ha le capacità e le risorse.
L’essere umano in questo modo diventa l’oggetto del nuovo capitalismo dei dati, il materiale grezzo (raw material) da trasformare in valore per il processo produttivo. L’appropriazione dei dati da parte di aziende e agenzie governative sottrae il controllo degli individui alle informazioni loro afferenti, così il “corpo digitale” assume vita propria e separata dall’individuo fisico (datification). Non è niente altro che l’evoluzione del capitalismo di massa, il quale un tempo si caratterizzava per l’appropriazione delle risorse fisiche ma adesso si appropria (anche) delle risorse informative (i dati appunto).
L’era della post-verità
La psicologia umana è in grado di inventarsi scappatoie, di raccontarsi storie, di raccontarsi di essere comunque padrone delle proprie esistenze. E oggi avviene soprattutto tramite l’esercizio smodato dell’espressività, tesa a segnalare la propria presenza, denunciare con rancore e rabbia l’ordine del mondo. La “post-verità” è stata erroneamente additata come una conseguenza del “capitalismo della sorveglianza”, un sottoprodotto della nuova economia delle aziende del web, ma in realtà non è altro che l’indicatore della perdita dei nostri punti di riferimento. Si è prodotta una divisione, non tra “vero” e “falso”, ma tra “io” e “noi”, la post-verità, la disinformazione, le fake news, sono tutte conseguenze della spaccatura tra le particolarità individualistiche e la società, sono l’affermazione delle prime contro il bene comune.
L’espressività (anche corporea = violenza) diventa quindi uno strumento di conforto, quasi di catarsi, il raccontarsi come soggetto unico, segnalare le proprie esperienze individuali a significare la non accettazione delle logiche di spossessamento delle risorse dell’essere umano, sia corpo che mente, in una incessante inflazione dell’ego, un narcisismo diffuso: “Benvenuto nel TUO mondo!“, titolava Time.
In questo quadro il referente significativo di molti è semplicemente l’“io”, la fonte primaria, e spesso definitiva, della “verità”. L’“i” dei prodotti Apple diventa il nuovo topos dell’epoca, illudendoci che finalmente saremo al centro di tutto. Le dinamiche sociali ed economiche capitalistiche hanno spinto progressivamente l’individuo a fare affidamento solo su sé stesso e sulla propria capacità di “farcela”, se non ce la fai è colpa tua, non della società che nulla ti deve, devi essere tu a farti valere, fino alla costruzione della tua stessa realtà.
Dopo i primi segni di insofferenza, il ‘68, i movimenti sociali, venne la stretta degli anni Settanta e Ottanta, con la Thatcher che dava il segnale: “There is no alternative”, o si accettava a testa bassa nella prospettiva di trarne vantaggio, o ci si allontanava dal campo di gioco. L’epoca del rigore e dell’austerità in realtà si rivelò l’inizio di una globalizzazione sfrenata e la standardizzazione dei metodi di governo sotto il dogma liberista. Era il voltafaccia della politica e il discredito della parola pubblica. In questo quadro l’unica possibilità era dedicarsi al culto della performance, diventare imprenditori di sé stessi, concentrarsi sulla propria vita individuale rinunciando agli interessi collettivi (Christopher Lasch, L’io minimo. Sopravvivenza psichica in tempi difficili).
Il ripiegamento su se stessi e sulla propria persona genera l’avvento di un narcisismo di massa in un bisogno di compensazione, e la graduale perdita dell’orizzonte collettivo. La conseguenza è un progressivo isolamento dell’individuo dalla società. La certificazione della nuova realtà la darà, di nuovo, Margaret Thatcher: “La società non esiste”.
L’emersione dei clan
Le nuove tecnologie si pensava che avrebbero favorito una maggiore trasparenza e quindi un più efficace controllo dei politici “delegati” col voto, una maggiore possibilità di incidere sulla società e la vita politica. In realtà si è realizzato un tribunale perenne capace di dare e togliere voce ai propri “delegati” con un semplice clic dal divano di casa, una nuova forma di tecnocrazia, la politica “usa e getta”.
Ecco quindi che in contrapposizione l’essere umano, fondamentalmente un essere sociale, ha costruito forme di raggruppamento di diversa natura, capaci di offrire spazi di solidarietà e difendere interessi specifici, ma non più collettivi. Nella costante distruzione della solidarietà sociale l’individuo, sempre più isolato, è emerso, grazie alle nuove tecnologie, in gruppi ristretti che si coalizzano e cooperano per i loro interessi specifici. Spesso in contrapposizione con gli interessi di altri gruppi, e quindi dell’intera società. Le dinamiche sociali hanno favorito l’emersione delle logiche da branco, di veri e propri “clan”.
Venute meno le principali istanze capaci di convogliare il risentimento collettivo verso percorsi virtuosi, l’ondata di conflitto si manifesta negli scontri di piazza, nel disagio delle periferie urbane, nelle forme di emarginazione sociale, fino alla violenza e al terrorismo: quando la parola non basta occorre far parlare il corpo. In assenza di elementi capaci di produrre un progetto, un’idea del mondo, la rabbia sociale diviene forza propulsiva gestita come capitale e bene spendibile, accumulata in vere e proprie “banche del risentimento”: i partiti “anti-sistema” (Peter Sloterdijk, Ira e tempo).
In questa condizione si intrecciano la rabbia sociale, derivante dalla consapevolezza dell’indifferenza della società e delle élite nei confronti del popolo, lo sgretolamento del principio di autorità (ad esempio gli attacchi, anche fisici, ai medici) in quanto ormai si è consapevoli del fatto che le istituzioni non hanno più il compito di garantire la coesione della comunità e quindi come scopo il bene comune, quanto piuttosto la perpetuazione delle élite dominanti, e una rinnovata autonomia dettata dalla possibilità di accedere direttamente, senza intermediari (almeno percepiti), alle informazioni. Da cui i fenomeni caratterizzanti la nuova società: il rifiuto dell’autorità, la messa in discussione della parola dei professori, degli scienziati, dei medici, fino anche all’attacco fisico. L’affermazione del sé implica necessariamente lo svilire l’altro. Perché la sovrastima del proprio io porta a imporre il proprio stile di vita su tutti gli altrui, per cui chi vive diversamente, chi auspica un diverso modo di vivere rispetto al mio, è semplicemente un nemico da abbattere perché mette in discussione la mia sfera individuale.
Ognuno di noi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana (A. de Tocqueville, La democrazia in America)
Il complottismo è la risposta più coerente alla presa di coscienza che per secoli siamo rimasti a guardare lo spossessamento delle nostre risorse, prima fisiche e poi informative, a favore delle élite dominanti, per secoli ci siamo fatti ingannare e non abbiamo fatto nulla per cambiare le cose. Adesso è il momento per ribaltare il tavolo, per abiurare quel patto sociale che le élite non hanno rispettato, e quindi per vivere la propria esistenza solo e soltanto seguendo i propri credo. Da cui la nuova fabbrica delle convinzioni che gira a pieno regime per sbugiardare le menzogne delle élite e per deridere chi continua a farsi ingannare, per stanare ogni abuso commesso dall’ordine dominante, smascherare ogni ingranaggio che regola l’ordine del mondo. Una lotta tra gli scettici iper-perspicaci e i conformisti docili che, in ultima analisi, porta allo sradicamento di ogni forma di possibile coesione e sublima nella cultura dell’umiliazione di massa online: un linciaggio virtuale vero e proprio che si compiace dell’infelicità altrui, glorifica gli abusatori ergendoli a eroi, e crea coesione nel gruppo, nel clan. Per questo è talvolta attizzato proprio dai partiti politici anti-sistema.
Una persona è capace di esprimere più liberamente la propria aggressività quando crede che tutti facciano lo stesso e, di conseguenza, se vuole essere aggressiva è disposta a credere che tutti lo siano, per esempio che faccia parte della natura umana sfruttare i propri vicini e fargli la guerra (Theodor Adorno, La personalità autoritaria)
Una conseguenza di tutto ciò è l’indignazione costante contro le nuove tecnologie e in particolare i social media, additati come i responsabili dello stato attuale. Ovviamente internet, come media, è perfettamente inserito nella società moderna e quindi è concausa dei problemi sociali, come allo stesso modo le aziende tech sono agenti del capitalismo e quindi tendono, come tutte le altre aziende, a massimizzare i profitti.
Però occorre essere onesti e notare che la copertura dei media tradizionali è esageratamente negativa verso le aziende del web, fenomeno probabilmente dovuto al fatto che queste aziende hanno sottratto gran parte dei profitti pubblicitari ai media tradizionali. Da cui una sorta di guerra che porta i media tradizionali a coprire i social attraverso il filtro “techlash” che utilizza metafore iperboliche per rendere i social media più spaventosi di quanto non siano in realtà.
Storie di marchi e di loghi
Christopher Lasch (L’io minimo. Sopravvivenza psichica in tempi difficili) evidenzia che la nuova condizione umana, una cultura del narcisismo, la ricerca del sé, l’egoismo, l’indifferenza verso il bene dell’umanità, è la conseguenza dello sradicamento prodotto dalla moderna società industriale. In un’epoca nella quale sono necessari poteri globali per fronteggiare la prospettiva di un declino economico e la fine della speranza in un’azione politica capace di rendere più umana la società industriale, il mondo appare popolato da individui dediti alla mera sopravvivenza. L’identità personale implica una storia personale, amici, famiglia, senso di appartenenza ad un luogo, ma con l’accentuarsi della sensazione di sradicamento l’io si contrae fino a diventare “minimo”, un semplice nucleo difensivo assediato. Si tratta di una difesa contro la radicale trasformazione della società industriale.
Questa trasformazione trova le sue radici quando le grandi aziende si sono rese conto che i consumatori, ormai subissati (il calcolo vede un consumatore medio esposto a circa 3000 pubblicità al giorno) da pubblicità tutte più o meno uguali, erano diventati impermeabili e sempre più difficilmente manipolabili. Con la nascita dei nuovi media, l’accesso libero alle informazioni, le pubblicità hanno perso il loro potere, la loro credibilità. È quello che accadde alla Nike quando fecero il giro del mondo le immagini dei bambini pakistani curvi su palloni da calcio col logo Nike. I consumatori si resero conto che dietro un marchio c’erano delle storie, ma erano brutte storie, di sfruttamento. Per questo progressivamente i guru delle aziende si resero conto che occorreva un cambio epocale. Le aziende non avrebbero più prodotto marchi, ma storie, storie edificanti. Alle storie di sfruttamento della manodopera avrebbero contrapposto una vera e propria contronarrazione.
Seth Godin lo spiega cinicamente:
“Chi si occupa di marketing appartiene ad una razza particolare di bugiardi. Costoro mentono al consumatore perché così vuole il consumatore”. Secondo Godin “ci sono mamme persuase che la felicità stia nell’ultimo prodotto uscito per la cura del bambino, ci sono appassionati di body building convinti che il nuovo integratore nutrizionale permetterà loro di avere un corpo perfetto. Ci sono ambientalisti certi che la prossima innovazione scientifica sarà anche l’ultima e xenofobi convinti che domani stesso i neri elicotteri dell’ONU invaderanno gli Stati Uniti. Ognuno di questi gruppi desidera ascoltare storie che confermino la propria visione del mondo. Ogni gruppo si considera al centro, non al margine, e desidera essere soddisfatto nei propri desideri” (Seth Godin, All Marketers Are Liars: The Power of Telling Authentic Stories in a Low Trust World).
Le storie, le narrazioni, ci permettono di mentire a noi stessi e soddisfano i nostri desideri, anche quelli contraddittori (dal caffè decaffeinato al cambiamento climatico risolto senza fare nulla o quasi). I consumatori hanno bisogno di credere, e le aziende oggi riescono a immergerli in un universo narrativo creando una storia non solo credibile, ma anche personalizzata, che si adatta ad ognuno di noi, una narrazione che propone un modello di comportamento integrato. Le narrazioni oggi, quelle commerciali, quelle politiche, si rivolgono agli individui fornendo loro le scene e i costumi adatti al ruolo che ognuno di noi dentro di sé ritiene di dover avere nel mondo.
Homo homini lupus
L’attuale rivoluzione tecnologica e scientifica non implica che gli individui possano essere manipolati da algoritmi e telecamere e così perdere la loro “autenticità”, bensì che la stessa autenticità sia niente altro che un mito. La gente ha paura di essere intrappolata in una scatola, ma in realtà è già intrappolata in una scatola, il cervello, che a sua volta è intrappolato in un’altra scatola, il corpo, a sua volta intrappolato in un’altra scatola: la società umana con le sue narrazioni.
Le nuove teorie scientifiche ci dicono che la mente umana non è mai libera da condizionamenti, non esiste alcuna autenticità che attende di essere liberata, e sicuramente non dobbiamo essere “liberati” da internet o dai social cattivi.
Noi esseri umani abbiamo conquistato il mondo grazie alla nostra capacità di astrazione, di immaginazione, di creare storie fittizie e di crederci. Non è una novità oppure un’invenzione di Google o Facebook. Con l’avvento delle nuove tecnologie non si è avuta una modifica sostanziale, nel senso che oggi è possibile condizionare le persone mentre ieri non lo era, la differenza sta nel fatto che questo processo si è esteriorizzato, trasferito in parte sugli schermi dei computer e degli smartphone, quindi è più visibile, forse anche più efficace. Ma non è niente di davvero nuovo.
Alla fine della seconda guerra mondiale il sociologo David Riesman, nel saggio La folla solitaria, constatò la metamorfosi della società americana, il passaggio da un’influenza limitata alla famiglia e una ristretta cerchia di persone (gli influencerdell’epoca) ad un’influenza più estesa, e quindi all’estensione della propria sfera personale anche aldilà dei limiti familiari. Complice di tutto ciò era lo sviluppo dell’urbanizzazione, l’avvento della società dei consumi e dei mezzi di comunicazione di massa. In breve l’apertura a centri di interessi diversi e ulteriori. Negli anni 2000 questo fenomeno si caratterizza per l’influenza derivante da molteplici individui. Ognuno ambisce a far trionfare un proprio stile, a far dominare la propria opinione, la propria visione del mondo, in una guerra di tutti contro tutti. Non si tratta solo dell’Homo homini lupus hobbesiano (Hobbes, De cive), a primeggiare non è più tanto la violenza fisica (anche se talvolta non manca) ma della soggettività di ognuno che pretende diventi canone universale al quale gli altri devono adattarsi. Le esigenze particolaristiche richiedono l’approvazione della collettività, la quale, però, rischia di incrinarsi sotto la spinta di un proliferare illimitato di particolarismi, di soggettività che imboccano la strada della pretesa imposta con la forza, un vero e proprio particolarismo autoritario (Eric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune).
E così possiamo osservare milioni di individui che si creano la propria personale narrazione – ad esempio condividendo foto delle vacanze con panorami spettacolari e viste mozzafiato, ma tacendo delle ore trascorse imbottigliati nel traffico, del tempo perso in camera per aver ingerito cibo andato a male e il litigio con il direttore dell’albergo per la camera che non assomiglia per niente a quella vista sul sito web -. Sono tutte narrazioni, milioni, miliardi di narrazioni particolaristiche che nascono in base al postulato secondo cui ognuno di noi meriterebbe un’attenzione specifica riguardo le tante iniquità sofferte.
La personalizzazione spinta della tecnologia porta a sovrapporre alla nostra percezione soggettiva delle cose una realtà ormai diventata personalizzata, un modello economico che ci invita a adottare condotte conformi all’identità che ci viene algoritmicamente attribuita (John Cheney-Lippold, We are data), in un bombardamento di informazioni che rafforzano la nostra identità, l’esclusione di apporti esterni a vantaggio di una verità unica individualizzata, e un progressivo regresso della volontà di agire (Peter Sloterdijk, Sfere).
Una volta vivevamo in base a grandi narrazioni, talvolta imposte con la forza, ma pur sempre inclusive. Narrazioni che hanno segnato la storia dell’umanità, da Omero a Tolstoj, da Sofocle a Shakespeare, raccontavano miti universali e trasmettevano le lezioni delle generazioni passate, lezioni frutto dell’esperienza accumulata. Oggi, invece, possiamo avere ognuno la nostra narrazione, individualizzata, personalizzata, fatta apposta per noi sulla base del nostro essere, della nostra identità. Narrazioni che, però, disegnano i comportamenti, orientano i flussi di emozioni, costruiscono ingranaggi narrativi secondo i quali gli individui sono portati a identificarsi in certi modelli e a conformarsi a certi standard (Salmon, Storytelling, la fabbrica delle storie).
Se un tempo era l’ambiente a fungere da protezione dell’individuo, a delimitare una zona di benessere contro gli invasori, a proteggerci e darci conforto, oggi la tecnologia ha determinato la fuoriuscita della vita privata dall’ambito domestico per estendersi agli spazi pubblici. Come la privacy si evolve in “data protection”, così gli individui creano uno spazio tutto loro, una sfera, che li isola da tutto ciò che pare estraneo o inappropriato e si evolvono non più insieme agli altri nella società, ma come traiettorie distinte e adattate alla loro identità (Peter Sloterdijk, Sfere). Ma siccome queste sfere si sono espanse a occupare spazi sociali, quando vengono in collisione tra loro si scatena la lotta per far prevalere la legge del singolo su quella comune. Un mondo atomizzato nel quale ci si preoccupa di raggiungere il proprio scopo, la massificazione dell’io senza preoccuparsi dell’andamento generale delle cose.
La nuova società, così progressivamente strutturata dall’economia capitalistica e competitiva, è caratterizzata da una dimensione fondamentalmente precaria e una serie di collisioni rapide e fugaci. Ed è il mondo economico, responsabile dell’instaurazione del nuovo ethos, che si preoccupa di fornire gli strumenti per la liberazione dalle limitazioni, per la realizzazione delle proprie identità individuali, per la soddisfazione dei propri personali desideri. Tali strumenti si sostanziano per lo più in forme di valutazione dei servizi e poi degli stessi esseri umani. Iniziò Uber con i voti dati ai conducenti, poi i credit score si sono estesi, fino a diventare quasi la regola nelle nostre società.
Per contrastare il rapido declino dei servizi pubblici, il regresso del principio di solidarietà, la “nuova economia” ci fornisce strumenti capaci di convincerci di aver raggiunto la massima autonomia, il dominio sulle nostre vite. Il fallimento dell’individualismo liberale che non è stato capace di offrire processi di compensazione alle discriminazioni sociali innescate dal liberismo, dalla ricerca incessante di profitto, dalla competizione sfrenata, trova la sua compensazione nella fornitura di tecnologie capaci – almeno in teoria – di far trionfare le proprie identità sugli altri (a scapito degli altri). Il segnale è chiaro, d’ora in poi gli individui dovranno contare esclusivamente su se stessi. E in una tale condizione gli “altri” spesso sono visti come ostacoli, non come propri simili.
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