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La battaglia di Harvard: vincitori, vinti e lo spettro della spaccatura dem

Che cosa succederà all’università di Harvard dopo le dimissioni della rettrice Gay. L’approfondimento di Gregory Alegi, storico e giornalista, docente alla Luiss Guido Carli

 

Tratto da Start Magazine

 

In attesa della scelta di un nuovo rettore (o rettrice, va da sé), si può tentare un primo bilancio dei vincitori e vinti della battaglia di Harvard, scatenata dal mancato contrasto all’antisemitismo dei filopalestinesi ma presto allargatasi alla ben più ampia questione dell’operato della rettrice Claudine Gay, la prima persona di colore a guidare l’antica università. Una battaglia senza esclusione di colpi, conclusasi con le dimissioni di Gay, alla quale non è bastata la protezione unanime del consiglio di amministrazione per difendersi.

Al primo posto tra i vinti è senz’altro Gay, che passa alla storia per il mandato più breve di sempre. Nella sua lettera di addio interna e nell’editoriale – pardon, guest essay – sul New York Times, Gay spiega gli attacchi alla sua gestione con il razzismo. Nessun passo indietro sui brani copiati, o comunque in violazione delle politiche anti-plagio di Harvard. Nonostante gli esempi pubblicati dal Washington Free Beacon e in internet, nonostante sia dimostrato il suo rifiuto di rendere pubblici i dati di un contestato articolo del 2003, l’editoriale parla di princìpi e non di casi concreti. Quanto la difesa sia credibile resta da vedere: sull’Harvard Crimson, il quotidiano dell’ateneo, uno studente che siede nel comitato anti-plagio ha scritto che per molto meno i suoi colleghi vengono espulsi. In compenso, secondo il New York Post, anche da semplice professore Gay manterrà lo stipendio da rettrice. La cifra non è nota, ma oscillerà tra gli $ 879.000 che prendeva nel 2021 come capo della Faculty of Arts and Sciences e gli 1,3 milioni annui del suo predecessore. Insomma, sconfessata ma non diseredata.

Altrettanto chiaramente, al primo posto tra i vincitori c’è Christopher Rufo, l’attivista conservatore che ha documentato i presunti plagi, scoperto la segnalazione del whistleblower, diffuso le notizie a orologeria, subito dopo la smentita precedente. Con la notorietà, Rufo sta ricevendo i primi attacchi dal versante progressista: la sua laurea magistrale, si scopre, non viene dalla “vera” Harvard, ma dal suo ramo telematico Harvard Extension, la sorellastra povera. In realtà, la sua triennale viene da Georgetown, non proprio l’ultima università americana. Cosa farà domani non è chiaro: dal giornalismo alla politica, fino ai think tank, Rufo è l’uomo del giorno.

Al secondo posto tra i vinti c’è Harvard, con danni all’immagine pari solo a quelli di bilancio. Questi sono i più facili da quantificare. Fermandosi alle notizie pubbliche, ha sospeso le donazioni la fondazione della famiglia Blavatnik, che all’università ha sinora donato $ 270 milioni. Sono in forse i 300 milioni promessi pochi mesi fa da Ken Griffin. Stop alle donazioni anche per la Wexner Foundation, che in 30 anni ha donato 56 milioni, e per Idan Ofer, che ne aveva donati 20. Cifra sconosciuta per Bill Ackman, a.d. di Pershing Square che ha alzato il profilo della campagna mediatica con lunghi post su Twitter/X.

Proprio per questo, Ackman è al secondo posto tra i vincitori. Ha dimostrato di saper fare da collettore di un mal di pancia tanto diffuso quanto silenzioso, da moltiplicatore della loro forza e da diffusore dei suoi contenuti tramite X. Forse per questo, da poche ore il miliardario è al centro di un contrattacco, rivolto contro la moglie Neri Oxman. Business Insider ha pubblicato alcuni screenshot di brani della sua tesi di dottorato, identici ad altrettanti passaggi di Wikipedia. Un siluro morale, dato che Oxman, fino a qualche anno fa professoressa al MIT, ha lasciato da tempo la cattedra. Per tutta risposta, Ackman ha rivelato che il Chairman del MIT, Mark Gorenberg, ha fatto transitare per il MIT una donazione grigia alla non-profit della propria moglie, con grosso beneficio fiscale proprio. Ackman ha anche velatamente minacciato di interrompere le proprie donazioni al MIT. Solo per completezza: quella del MIT è l’ultima ancora in carica delle tre rettrici dell’ormai famosa audizione della Camera del 5 dicembre.

Al terzo posto tra i vinti c’è Penny Pritzker, ex ministro del Commercio di Obama, da settembre 2023 Rappresentante Speciale degli USA per la ricostruzione dell’Ucraina. Quale membro anziano della Harvard Corporation, ha guidato la difesa di Gay e ora si trova a fronteggiare la richiesta di dimissioni dell’intero board. Le probabilità che ciò avvenga sono piuttosto basse, ma già doversi difendere arreca un danno al prestigio dell’università.

Terzo vincitore è l’Harvard Crimson, che sta trattando il delicato momento dell’università con il consumato equilibrio di un grande giornale. Basta andare sulla homepage per trovare sia una decisa presa di posizione a favore di Gay da parte della redazione, sia lo spazio per punti di vista diversi, a loro volta equilibrati e aggressivi. Fonti citate, spiegazione di quelle anonime, documenti ufficiali ripresi come tali e non come verità oggettive: un manuale di giornalismo che alcune prestigiose testate italiane potrebbero valutare di imitare.

Ma su tutto, svetta la sconfitta del dialogo politico negli Stati Uniti. L’asprezza della discussione e la messa in stato d’accusa della comunità accademica, in particolare delle scienze sociali, mettono in crisi la tradizionale divisione tra gli elettori. Negli ultimi anni, i laureati sono stati in maggioranza sostenitori di Obama e Biden mentre i non laureati bianchi erano schierati massicciamente per Trump. Oggi questa lettura va in crisi: Ackman e Pritzker sono entrambi laureati, entrambi ebrei, entrambi grandi donatori del partito Democratico. Lo scontro vero, allora, sembra essere quello notissimo agli italiani: da una parte il centro-sinistra, dall’altro la sinistra-sinistra. Da una parte il riformismo flessibile, dall’altro il massimalismo ideologico. Goodnight, and good luck.

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