Il ricorso di Meta al Tar mette in luce le fragilità del regolamento Agcom

Tratto da Huffpost, articolo di Elisa Giomi

Meta ha fatto ricorso al TAR contro il regolamento AgCom sull’equo compenso (Delibera n. 3/23/CONS), che impone alle piattaforme online come Meta di pagare gli editori di giornali quando utilizzano i loro articoli. L’iniziativa della big tech, a fronte della quale il TAR ha rimesso l’ultima parola alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, conferma molte delle perplessità che avevo sollevato all’epoca dell’approvazione del regolamento. Agcom ha scelto di ricorrere al Consiglio di Stato contro la decisione del TAR di “congelare” il regolamento in attesa che la Corte si pronunci. Anche questa scelta non è priva di criticità. Infine, perdura un equivoco di fondo: l’idea che il regolamento serva a tutelare pluralismo e qualità dell’informazione. Temi troppo delicati per utilizzarli in modo fuorviante.

Vediamo allora di fare chiarezza su tutto.

Nel 2019 è stata approvata la Direttiva europea sul “Copyright” (2019/790), con cui si estende il diritto d’autore alle pubblicazioni giornalistiche, per tutelarle dallo sfruttamento non autorizzato e garantirne così la “disponibilità” – si legge nella direttiva – ovvero l’abbondanza. Ma avere molta informazione – che è una misura quantitativa – non significa automaticamente avere informazione “pluralista”, che è invece una misura qualitativa: potremmo vivere in un paese con moltissimi editori diversi, ma tutti portatori dello stesso pensiero. E questo non sarebbe un problema risolvibile con il copyright. Sostenere che il regolamento Agcom, figlio di questa direttiva, tuteli il pluralismo e la qualità dell’informazione significa snaturare il principio stesso del diritto d’autore, che punta a favore l’abbondanza, appunto, delle opere dell’ingegno indipendentemente da valutazioni, inevitabilmente arbitrarie, di tipo qualitativo, estetico, morale.

Il regolamento, che applica la legge italiana con cui si recepisce la direttiva (D.lgs. n. 177/2021), stabilisce che sia AgCom a calcolare il compenso delle piattaforme agli editori sulla base di quanto esse guadagnano dalla pubblicità online sui contenuti giornalistici. In questo modo, si rischia di introdurre una distorsione per tutto il mercato – come se, entrando in un negozio, ci venisse richiesto di pagare un certo prodotto in base al nostro reddito anziché in base al prezzo richiesto dal venditore.

Si stabilisce inoltre che il compenso sia compreso tra 0 e 70% del guadagno pubblicitario delle piattaforme. È un massimo iniquo per le piattaforme ed un minimo che non tutela gli editori. Che piaccia o meno, dalla diffusione di articoli di giornale nell’ecosistema digitale (tramite aggregatori di notizie, condivisioni su social, indicizzazione su motori di ricerca) gli editori traggono più benefici economici di quanto facciano le piattaforme, per le quali la raccolta pubblicitaria online generata dai contenuti giornalistici rappresenta una minima parte dei ricavi complessivi. Quindi, se le piattaforme decidessero di inserire pubblicità online solo nei contenuti di intrattenimento e non più in quelli di informazione, potrebbero continuare a sfruttare questi ultimi senza dover alcun compenso agli editori: qualunque percentuale applicata a zero risulta zero.

Non solo: 0 e 70 sono una forbice molto ampia, che porterà le parti a nutrire false aspettative polarizzandosi sugli estremi a loro più favorevoli (vicino a 0 per le piattaforme e a 70 per gli editori): non a caso, prima di Meta è stato proprio un gruppo editoriale (CED) a chiedere all’Autorità di annullare in autotutela la delibera 221/23/CONS con la quale essa aveva determinato l’equo compenso a favore di quel gruppo.

Il ricorso di Meta, però, mette in luce alcune fragilità ancor più di fondo, sia del regolamento Agcom sia della legge di recepimento della direttiva europea. Questa guarda al compenso degli editori come a una “possibilità” (Art. 5, comma 4: “Member States may provide for fair compensation for rightholders for the use of their works”). Il senso è affermare il – sacrosanto – dovere di pagare laddove avviene l’utilizzo di opere protette da copyright. Ma la legge e il regolamento Agcom hanno trasformato questo dovere di pagare in obbligo di comprare. Il meccanismo introdotto prevede che se le parti non raggiungono un accordo entro 30 giorni devono ricorrere ad AgCom e se una delle due non accetta neppure il calcolo del compenso fatto dall’Autorità possono ricorrere al giudice. Durante questo periodo – che può essere anche molto lungo – né l’editore né la piattaforma possono abbandonare la trattativa, in contraddizione con l’auspicio della direttiva di un meccanismo negoziale che non pregiudichi “la libertà contrattuale delle parti”. Per esempio, se una piattaforma dovesse constatare che gli articoli di giornale rendono in termini pubblicitari molto meno dei video di intrattenimento, non potrebbe tuttavia rifiutarsi di utilizzarli. Le verrebbe così tolta la possibilità di determinare il proprio modello di business, il che contrasta anche con il principio della libertà di impresa ugualmente tutelato dalla normativa comunitaria.

Il TAR trova fondati questi (e altri) rilievi sollevati da Meta e li rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, perché di emanazione europea è la direttiva madre del regolamento. AgCom non ci sta e bussa alla porta del Consiglio di Stato chiedendo di “scongelare” il proprio regolamento ossia di fare in modo che possa continuare a produrre i suoi effetti – la corresponsione del compenso agli editori – fino alla decisione della Corte. Ma quale dovrebbe essere l’interesse pubblico di un’Autorità ad inoltrare ad un tribunale una richiesta simile relativamente ad un provvedimento su cui comunque la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dovrà pronunciarsi entro i prossimi mesi?

Non solo: nelle more di questo pronunciamento, editori e piattaforme dovranno cercare e verosimilmente troveranno accordi negoziali. Occorre infatti tenere a mente che il concetto di ecosistema digitale rimanda alla interdipendenza dei suoi attori. Motivo per cui le sfortune degli uni non faranno la fortuna degli altri. E al fine di una auspicabile quanto produttiva risoluzione della materia, ripensare il regolamento AgCom introducendo incentivi legati alla negoziazione in buona fede tra le parti è un’ipotesi ancora oggi percorribile. L’avevo proposta anche a suo tempo, prevedendo la lunga stagione di contenziosi che si è aperta.

 

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