IL MINISTERO DELL’UMILIAZIONE

L’elogio dell’umiliazione come dispositivo pedagogico è una triste novità: particolarmente grave, visto che proviene dal ministro che dovrebbe garantire una scuola libera e democratica per tutti

Tratto da ilMulino, di Roberto Farné

Le recenti “esternazioni” del ministro dell’Istruzione (e del Merito, come ora viene definito), relativamente al rapporto fra giovani percettori del reddito di cittadinanza (RdC) e abbandono scolastico meritano qualche riflessione. Dice il ministro che dei 364.000 percettori del RdC nella fascia compresa fra 18 e 29 anni, 11.000 hanno solo la licenza elementare (o nemmeno quella) e 129 mila appena la licenza di scuola secondaria di primo grado. La conclusione del ministro è chiara: occorre portare questi soggetti (per amore o per forza, ma questo è un nostro inciso) a completare l’obbligo scolastico poiché, sono parole sue: «Questi ragazzi preferiscono percepire il reddito anziché studiare e formarsi per costruire un proprio dignitoso progetto di vita». Inoltre, continua il ministro: «Il reddito collegato all’illegalità tollerata del mancato assolvimento dell’obbligo scolastico […] è inaccettabile moralmente: significherebbe legittimare e addirittura premiare una violazione di legge» (il video con l’intervista è su Youtube e il testo è sul sito del ministero dell’Istruzione).

Si delinea così una relazione diretta fra abbandono scolastico / RdC / illegalità (cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia). Tale relazione, che non neghiamo affatto possa esserci, andrebbe non solo “proclamata” ma dimostrata sulla base di dati, poiché in questi casi la quantità assumerebbe valore di qualità nel definire il fenomeno. Il quale fenomeno, anche se riguardasse poche decine di soggetti sarebbe comunque grave e andrebbe affrontato; ma come…? Facile togliere il RdC (questo è ciò che il governo comincerà a fare), più difficile riportare a scuola quei soggetti che la scuola l’hanno abbandonata anzitempo: che cosa è avvenuto nella loro vita da condurli a questa decisione?

<<Facile togliere il RdC, più difficile riportare a scuola quei soggetti che la scuola l’hanno abbandonata anzitempo: che cosa è avvenuto nella loro vita da condurli a questa decisione?>>

Non credo che il ministro pensi di rimandarli a scuola scortati dai Carabinieri. Questi processi vanno governati dal basso, non dall’alto. Vorrei ricordargli l’importante lavoro dei “maestri di strada” a Napoli e delle molte realtà del terzo settore che nel nostro Paese hanno lavorato e lavorano sul piano educativo per contrastare le condizioni di marginalità e devianza che portano spesso all’abbandono scolastico. Forse il ministro ignora che a queste realtà i fondi sono stati tolti in passato, e con il solo volontariato non possono sopravvivere, perché sono ambiti difficili in cui servono professionalità e continuità. Una proposta semplice: fare una ricognizione su queste realtà, individuare le migliori, promuoverne lo sviluppo, finanziarle adeguatamente, monitorarne i risultati, nel tempo necessario per avere risultati.

Quando alla fine degli anni Cinquanta del secolo passato ci si accorse che uno dei problemi dell’Italia era l’alto numero di adulti analfabeti o semianalfabeti, non si esitò a mettere in campo un progetto straordinario che coinvolgeva il ministero dell’Istruzione e la Rai: circa 2.500 Posti di Ascolto Televisivo sparsi nel Paese con altrettanti maestri-tutor e un programma TV affidato ad un maestro elementare, Alberto Manzi: si chiamava “Non è mai troppo tardi”. Ando in onda dal 1960 al 1968, si calcola che circa un milione e mezzo di italiani presero la licenza elementare grazie a quel progetto; a “Non è mai troppo tardi” nel 1965 fu assegnato il Premio Unesco come miglior programma televisivo per l’educazione. Intendo dire che se l’abbandono scolastico e i rischi conseguenti sono un’emergenza allora ci vuole coraggio, come si ebbe allora, il coraggio di un progetto che vada incontro a quelle persone, non che le punisca poiché la punizione, per chi la commina, non è un atto di coraggio e, per chi la subisce, assai spesso non è nemmeno efficace.

C’è poi un altro aspetto che il ministro evidenzia: «noi dobbiamo ripristinare non soltanto la scuola dei diritti, ma anche la scuola dei doveri». È vero, nessuno intende deprimere i diritti, anzi, la loro affermazione va continuamente ribadita. I diritti sono belli, si lotta e si combatte per conquistarli e per mantenerli, non altrettanto i doveri che hanno meno appeal: nessuno va in piazza a manifestare o fa uno sciopero della fame per i doveri. A chi tocca dunque affermare il valore dei doveri in relazione ai diritti? Tocca all’educazione che, anche per questo, come disse un eccellente pedagogista, Riccardo Massa: «l’educazione è una sporca e triste faccenda…», ma a qualcuno toccherà farla e sarà necessario farla bene, con professionalità e competenza psicopedagogica se parliamo di scuola e di ambienti dove si fa educazione.

<<L’umiltà, nel suo significato migliore, è una virtù, l’umiliazione è un atto di arroganza e di prevaricazione che degrada la persona che la subisce e la offende nella propria dignità>>

Il ministro pensa che l’educazione al senso del dovere e alla responsabilità da parte di chi si sottrae ai suoi doveri nella scuola non debba passare attraverso i dispositivi puniti estremi tipici dell’istituzione, come le sospensioni che aprono la strada del ragazzo o della ragazza al rifiuto della scuola e a ciò che ne potrebbe eseguire. Quel ragazzo, dice il ministro «deve fare i lavori socialmente utili, perché soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche, evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità. Di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto. Da lì nasce la maturazione. Da lì nasce la responsabilizzazione».

È la prima volta che mi capita di sentire l’elogio dell’umiliazione come dispositivo pedagogico, e il fatto che provenga dal ministro dell’Istruzione, non va sottovalutato. Con il rispetto che ho per le nostre istituzioni e per chi le rappresenta ai più alti livelli, mi permetto di dire che tale affermazione è gravissima, per due ragioni: la prima è assumere che i lavori socialmente utili siano una pratica punitiva, come dalle sue parole si configurano. Noi vorremmo che tali lavori fossero una normale attività a cui tutti i ragazzi e le ragazze si dedichino proprio come forma di “educazione alla cittadinanza attiva», un orientamento che esiste ufficialmente da almeno trent’anni nella nostra scuola e come Raccomandazione dell’Ue. Si tratta di buone pratiche (non di discorsi) con cui prendersi cura dei beni comuni. Questa è l’educazione alla responsabilità di ognuno e di tutti, non l’esito di una punizione. La seconda ragione riguarda l’umiliazione di cui il ministro tesse l’elogio. L’umiltà, nel suo significato migliore, è una virtù, l’umiliazione è un atto di arroganza e di prevaricazione che degrada la persona che la subisce e la offende nella propria dignità. Nessun educatore o insegnate dovrebbe umiliare un suo allievo: una semplice norma di deontologia pedagogica che il ministro dell’Istruzione, e del Merito, dovrebbe affermare, non negare.

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