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I comportamenti dei maschi ci costano 99 miliardi all’anno

Il 92 per cento degli imputati per omicidio è uomo e la componente maschile rappresenta anche il 98,7 per cento degli autori di stupri, l’83,1 per cento dei responsabili di incidenti stradali mortali. Due economiste hanno calcolato quanto risparmieremmo se i maschi si comportassero come donne

 

Tratto da Domani, articolo di Micol Maccario

 

«È un uomo, che ci vuoi fare» è la tipica frase rassegnata che si può sentire pronunciare di fronte a certi atteggiamenti maschili violenti. In realtà il sesso biologico non ha nessun rapporto con la proposizione di comportamenti antisociali o trasgressivi. L’economista Ginevra Bersani Franceschetti e la storica dell’economia Lucile Peytavin lo dimostrano nel loro libro Il costo della virilità. Quello che l’Italia risparmierebbe se gli uomini si comportassero come le donne (Il pensiero scientifico editore, 2023), vincitore dell’undicesima edizione del Premio nazionale di divulgazione scientifica di quest’anno.

Eppure, i dati sembrerebbero all’apparenza dire il contrario: il 92 per cento degli imputati per omicidio è uomo e la componente maschile rappresenta anche il 98,7 per cento degli autori di stupri, l’83,1 per cento dei responsabili di incidenti stradali mortali, l’87 per cento degli accusati di abusi su minori e il 95,5 per cento della popolazione mafiosa.

Tutti questi reati hanno un costo, che Bersani Franceschetti e Peytavin hanno indagato rispettivamente per l’Italia e per la Francia e che chiamano il «costo della virilità», definendolo come «la differenza che esiste, in ogni categoria di reato, tra l’importo speso per il comportamento degli uomini e quello speso per il comportamento delle donne».
Il risultato è una cifra che permette di capire a quanto ammontano i costi extra sostenuti per far fronte alle infrazioni maschili rispetto a quelle femminili ed è «quello che l’Italia risparmierebbe se gli uomini si comportassero come le donne». Secondo le analisi delle economiste, la somma raggiunge i 98,78 miliardi di euro all’anno, pari al cinque per cento del Pil italiano del 2019, una cifra che, se risparmiata, potrebbe essere investita in altri settori con benefici per tutta la popolazione.

«Il fatto che ci sia questa sovra rappresentazione degli uomini in tutti i fatti di criminalità e che non se ne parli è sintomo del fatto che è presente un punto cieco nelle politiche pubbliche e nella visione pubblica della violenza. Esistono tantissimi studi sulla delinquenza commessa in base all’etnia o alla classe sociale, ma nessuno sul sesso, anche se è il primo criterio che caratterizza i criminali nel nostro paese», dice Ginevra Bersani Franceschetti.

Proprio per questo motivo è difficile trovare dati relativi al fenomeno. «L’Istat pubblica ogni due anni un rapporto sulla violenza in Italia. Su trecento pagine di report la differenza tra uomo e donna nei delitti e nei crimini è citata appena una o due volte. Per questo sapevamo che quei numeri in realtà da qualche parte esistono. Il fatto che questo problema non si affronti è gravissimo perché bisognerebbe avere tutte le carte in mano per sapere come investire in modo efficiente i soldi pubblici».

L’ORIGINE CULTURALE

La motivazione alla base di questa differenza tra il numero di reati commessi dalle donne e dagli uomini non è il testosterone, e quindi più in generale la biologia, ma la cultura. «Si tende a giustificare il fattore culturale con un fattore biologico che in realtà non esiste». Le cause delle condotte violente, secondo le economiste, dipendono in primo luogo dall’educazione. La crescita dei bambini avviene anche tramite imitazione, se vedono che è unicamente la madre a occuparsi delle faccende domestiche e del lavoro di cura impareranno che quello è «un lavoro da donne». I bambini, in generale, sono abituati a giocare con le armi e i soldatini, o con i videogiochi violenti, mentre le bambine passano il loro tempo libero con la cucina giocattolo o le bambole. Tutte quelle abitudini influenzeranno la loro visione della realtà, il modo di vivere e comportarsi in comunità.

La società incasella fin dai primi anni di vita i maschi e le femmine in due universi differenti, dall’assegnazione del colore – rispettivamente blu e rosa – ai comportamenti da tenere. I primi devono crescere forti, determinati, tenaci e robusti. Le seconde devono essere altruiste, gentili, generose e accudenti. «La soluzione si trova nei dati. Le donne, che non sono una minoranza a livello numerico, non sono educate alla virilità, per questo hanno statisticamente comportamenti più pacifici e in linea con la società basata sui diritti in cui viviamo. Bisogna educare le femmine come i maschi. Questo non significa banalmente insegnare loro a mettersi lo smalto, anche se possono farlo, ma cercare di trasmettere un’educazione più attenta verso il prossimo», dice Bersani Franceschetti.

Nel Neuropsychiatrie de l’enfance et de l’adolescence, giornale della Société française de psychiatrie de l’enfant et de l’adolescent citato nel libro si sottolinea come di norma «i genitori hanno più contatti fisici con le bambine, incitandole a sorridere e a vocalizzare, mentre stimolano più fisicamente i maschi. Le femmine sviluppano così più capacità a comprendere ed esprimere emozioni, a interagire con gli altri. Mentre i maschi migliorano le loro capacità motorie e fisiche».

 

IL RUOLO DELLA SCUOLA

Proprio perché la motivazione alla base risiede nell’educazione questi atteggiamenti stereotipati si possono arginare agendo sulla scuola. L’istituzione scolastica, per come è strutturata oggi in Italia, è «il luogo dove si imparano e si perpetuano le differenze di comportamento tra i sessi», si legge nel libro. La scuola rappresenta il punto di partenza per lavorare sul costo della virilità perché «entrare in casa delle famiglie e agire direttamente sugli insegnamenti trasmessi è più complicato», dice Bersani Franceschetti. «Dovrebbe essere messa in atto una sensibilizzazione degli insegnanti. Anche loro, come i genitori, hanno interiorizzato pregiudizi maschili e femminili e li ripropongono inconsapevolmente».

A una sensibilizzazione dei docenti, dovrebbe seguire la creazione di corsi come quelli che si tengono nel nord Europa dagli anni 2000 e in Francia dall’anno scorso, «sono insegnamenti focalizzati sull’empatia, che hanno lo scopo di sensibilizzare e far capire a studenti e studentesse come si vive correttamente in una società civile».

L’educazione attraversa tutti gli aspetti della quotidianità, anche quelli che sembrano più marginali: dalla scuola ai programmi che si vedono in televisione, passando per il lavoro di cura e i giocattoli che si usano fin dall’infanzia.
Non sono elementi trascurabili, ma incidono direttamente sul livello di benessere delle persone perché in una società in cui i comportamenti violenti non sono indagati con il giusto peso, sia gli uomini che le donne, diventano vittime della trappola della virilità. Ed è per questo che chiunque può giocare un ruolo fondamentale nello scardinare gli atteggiamenti che incasellano le donne e gli uomini in due scatole differenti. «Mettiamo fine insieme alla virilità perversa che violenta, picchia, uccide e schiaccia», scrivono Bersani Franceschetti e Peytavin in conclusione al libro. «Il costo della virilità non è una fatalità».

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