14 Giu Giorgia Meloni e il femminismo di convenienza
Tratto da Valigia blu, di Giulia Blasi.
La nomina di una donna a una carica politica importante – sempre più frequente, per fortuna – è quasi sempre seguita da una domanda: è femminista? Qual è il suo grado di femminismo, se esiste? E se no, come facciamo a farla sembrare femminista, o ad appropriarci della qualifica per delegittimare chi il femminismo lo fa davvero, e proprio per questo può scordarsi di assurgere ai posti di comando?
Leviamoci il pensiero: no, Giorgia Meloni non è femminista. La sua nomina a presidente del Consiglio è sicuramente una conquista delle donne, ma non una conquista per le donne: la differenza è abissale. Meloni ha costruito la sua possibilità di diventare capo del governo sulla fatica, il sudore, le umiliazioni e il lavoro collettivo di migliaia di donne, a partire dalle madri costituenti, che si sono battute per avere il diritto di parlare in pubblico, di votare, di autodeterminarsi, di non essere considerate cittadine di serie B rispetto ai loro pari maschi. Senza di loro, e senza la loro capacità di organizzarsi in associazioni e gruppi di pressione, Meloni non avrebbe potuto fondare un partito, essere eletta, vincere le elezioni. La sua vittoria, però, non apre un nuovo capitolo nella storia collettiva delle donne: piuttosto, mira a chiuderlo.
Giova ripeterlo: i femminismi sono collettivi. Non esiste femminismo che non passi dalla collettività, dall’unione, dall’elaborazione di idee, pratiche e strategie, dal pensiero dell’impatto delle proprie azioni sulla società e sulle categorie marginalizzate. A Meloni tutto questo non interessa, non l’ha mai praticato: ha fatto politica fra gli uomini, come gli uomini, al di fuori di qualsiasi coscienza di genere. Del resto, la destra sul genere ha poche idee, tutte indirizzate alla normatività e all’irrigidimento dei ruoli stabiliti dalla società patriarcale: le donne madri, gli uomini condottieri, e anche quelle che decidono di assumere il comando lo fanno nel rispetto (almeno formale) di una divisione dei compiti molto netta. Certo, dai tempi di Mussolini si sono aggiornati, adesso le donne possono lavorare anche fuori casa, ma che non si dimentichino mai della loro missione: fare figli per la Patria.
La mancanza di coscienza di genere non è mai stata un problema per Meloni, che dell’essere donna (e della specificità dell’educazione impartita alle femmine) non sa che farsene, anzi: la femminilità la rifiuta in toto, arrivando a chiedere di essere chiamata “il” presidente, in barba alla grammatica della lingua italiana. Non starò qui a spiegare da capo perché la distinzione fra “ruolo” e “mestiere” sia insensata: non è importante (e ne ha parlato Vera Gheno più volte, cliccate sul link e andate direttamente al punto 11, se non volete leggere il resto). Quello che è importante è questo: Meloni non è femminista. Non lo è mai stata. Non le interessa, non le serve, va contro ogni suo principio e ogni sua idea, e soprattutto contro ogni sua convenienza. È una donna che se la sa cavare, e per una serie di circostanze più o meno fortunate è riuscita a ritagliarsi un ruolo importante: le altre possono fare altrettanto, o fare figli per la Patria. Non è affar suo.
L’ha detto lei, del resto, nel podcast di Diletta Leotta sulla maternità (un colpo da maestra, andare a parlare di maternità in piena campagna elettorale, sapendo che la sua principale avversaria non può fare altrettanto e che ogni tanto il suo essere Mamma di Ginevra va rinfrescato agli occhi dell’elettorato): Giorgia Meloni non crede nella solidarietà femminile. L’ha detto lei, nella sua solita maniera destrutturata e curiosamente depoliticizzata, trattando la “solidarietà femminile” non come un metodo di lotta, ma come un appiglio che le è sempre mancato.
Passano pochi giorni, e arriva l’episodio che rappresenta l’intero casus belli di quanto sto scrivendo: Giorgia Meloni incontra Vincenzo De Luca, governatore della Campania, che ripreso in video a sua insaputa aveva detto: “Lavora tu, stronza”. E si vendica. Il momento della vendetta era chiaramente pianificato, dato che è stato ripreso da molto vicino: Meloni ha atteso di essere in favore di telecamere per presentarsi come “quella stronza della Meloni”. E sul momento De Luca c’è rimasto di sale. Ce ne vuole, per sgambettare una vecchia lenza come il buon Vincenzo, la cui sagacia è nota almeno quanto la sua ferocia.
Poteva finire lì, con quel momento non proprio edificante e che ci faceva venire voglia di Prima Repubblica e politici in grisaglia. Invece no, Meloni è partita all’attacco, inquadrando l’insulto di De Luca nella matrice del sessismo e reclamando a gran voce “una parola dalle femministe”. Un giochino a cui non è nuova: di solito a cascarci sono sempre e solo le femministe di area liberale e le ex femministe votate a tempo pieno alla persecuzione delle persone trans, che immancabilmente accorrono a manifestarle solidarietà, senza che Meloni si disturbi mai a ricambiare. Delle altre donne sembra che si ricordi solo quando le servono a creare uno spauracchio, che siano le femministe stesse o gli stranieri autori di una violenza sessuale che lei ricondivide sui suoi profili senza alcuni riguardo per la vittima.
La parola “sorellanza” è di difficile comprensione fuori dal contesto femminista, e anche fra le femministe è oggetto di equivoci e rigetto. “Sorellanza” non significa che siamo tutte amiche e ci teniamo per mano danzando scalze in un campo di fiori: la sorellanza è un’azione, una costruzione che si fa, ancora una volta, insieme. È una scelta di condivisione, di lealtà anche nel disaccordo, di reciprocità, di rifiuto della concezione patriarcale del potere. È una costruzione valoriale che parte dall’idea che esista un’esperienza condivisa all’interno di un sistema che si nutre della nostra oppressione. E di quel sistema, Meloni è una colonna portante.
Non si può essere sorelle di chi non ti vuole come sorella, di chi non ti accetta, non condivide la tua visione e approfitta di ogni occasione per schernirti e sminuire il tuo lavoro. Non è possibile essere sorella di chi non ti accetta come interlocutrice. Meloni pretende la “solidarietà” delle femministe e le schernisce se non accorrono pronte in suo sostegno, in un atto servile che non prevede la reciprocità, ma solo la strumentalizzazione a fini politici: ecco, siccome non sono una di loro, allora non hanno interesse a difendermi dagli atti di sessismo. Ma dagli atti di sessismo Meloni si difende benissimo da sola, e sarebbe nella posizione perfetta per contrastarlo, il sessismo: fare in modo che non si presenti più, che scompaia insieme al sistema che si regge sulle spalle delle donne e delle persone marginalizzate. Sembra che a Meloni gli effetti del patriarcato interessino solo quando la colpiscono in prima persona, quando lei – donna benestante, potente, protetta – può giocarsi quella carta. Del sessismo nelle sue manifestazioni quotidiane, Meloni non si occupa. Ancora una volta: non è affar suo.
Il lavoro dei femminismi è molteplice, si muove sul fronte delle pratiche quotidiane come su quello dell’elaborazione del pensiero. Ma è – va ripetuto fino alla nausea – un lavoro collettivo, non un servizio pensato per risolvere il singolo problema della singola donna. Meloni potrebbe partecipare, se volesse: ha deciso di non farlo. Ha deciso di negarsi non solo alla sorellanza, ma anche al semplice ascolto del lavoro dei femminismi, che tuttavia è molto felice di sfruttare per quello che le fa comodo.
Ci sono altri modi di essere donna di potere, e molti ancora sono da sperimentare. Pochi giorni fa, il Messico ha eletto la sua prima presidente, Claudia Sheinbaum, che nel suo discorso di ringraziamento ha pronunciato queste parole: “Non sono arrivata qui da sola ma ci siamo arrivate tutte insieme, le nostre eroine che hanno creato la patria, le nostre antenate, le nostre madri, le nostre figlie e le nostre nipoti”. Parole che si collocano a una distanza enorme dall’elenco di nomi snocciolati da Meloni nel celebrare la sua vittoria, nomi senza cognome, Tina, Teresa, Nilde, donne che hanno fatto la storia con fatica e sacrifici, ma per tutte, non per una sola. Ci pensi, Meloni, quando ci chiede di essere solidali con i suoi piccoli fastidi: sarebbe bello sapere che è pronta a fare altrettanto per affrontare insieme i nostri grandi problemi.
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