Il relativismo culturale porta a difendere il simbolo dell’oppressione della donna. L’hijab, infatti, non è una prescrizione del corano, non appartiene alla tradizione, ma è lo strumento per controllare la sessualità della donna. Infatti, secondo i fautori dell’integralismo islamico, il velo deve essere portato dalla prima mestruazione fino a quando la donna è feconda. Se lo può togliere in casa anche in presenza di uomini con i quali, se avesse un rapporto sessuale, sarebbe considerato incesto.
La donna deve coprirsi quelle parti del corpo – in alcuni casi completamente, come in Afghanistan con il burqa – che potrebbero indurre in tentazione il maschio, del quale deve preservare l’onore! E se l’onore della famiglia viene infranto è sempre la donna a dover pagare, spesso con la morte. L’hijab è il simbolo della discriminazione e dell’inferiorità della donna – peraltro teorizzato anche da San Paolo nella prima lettera ai corinzi – che deve abbassare gli occhi, non fare rumore, non alzare la voce. Certo questi comportamenti vengono ignorati nella campagna che sponsorizza il giorno internazionale dell’hijab che dovrebbe essere provato anche dalle non musulmane!
In questo caso, se a prevalere non dovesse essere l’esotismo di qualche ora, l’esperienza dovrebbe convincere le donne che il velo priva di quella sensazione di libertà rappresentata dal vento tra i capelli. Quella sensazione che aveva portato milioni di iraniane a aderire alla campagna lanciata da Masih Alinejad “My Stealthy Freedom” (la mia libertà clandestina o furtiva) postando sui social una loro foto senza velo, una campagna contro il velo che ha portato all’esplosione di una vera rivoluzione dopo l’uccisione di Mahsa Jina Amini nel settembre dello scorso anno.
Una rivendicazione femminista che ha provocato la nascita di un movimento che oggi riassume tutti i problemi sociali ed economici della società iraniana a partire dalla discriminazione delle donne. Una rivolta che unisce classi, generazioni ed etnie diverse e diventa una vera rivoluzione con l’obiettivo di porre fine al regime teocratico degli ayatollah. Una rivoluzione che se avrà il successo che auspichiamo avrà effetti su tutti i paesi musulmani interessati dalla reislamizzazione iniziata proprio con la vittoria di Khomeini in Iran nel 1979. La solidarietà con le donne iraniane in occidente, tuttavia, non sembra aver scalfito la convinzione che la “libertà” stia nel portare il velo, una scelta molto più facile da sostenere per chi non è obbligata a portarlo.
Il velo accompagnato dalla “modest fashion”, che ha alimentato il business della moda negli ultimi anni, che di modesto ha solo il nome. Il velo, infatti, è stato sdoganato in occidente non solo dalle campagne pubblicitarie come quella del Consiglio europeo dallo slogan “La libertà è nell’hijab”, fortunatamente bloccata dalla Francia, ma anche sulle passerelle di moda. Ormai l’hijab è entrato nelle “capsule collection” di tutti i maggiori stilisti a cominciare dalla “Ramadan collection” di Dkny e l’”Abaya line” di Dolce e Gabbana. Un giro di affari di parecchi miliardi forse persino più difficile da intaccare dell’International hijab day.
Tuttavia, se non sono riuscite le iraniane con un coraggio straordinario, motivate dal fatto che se non riescono ad abbattere la repubblica islamica non potranno mai affermare i loro diritti, sarà difficile convincere le femministe di casa nostra che la libertà non è nell’hijab. Ma sono sempre di più la ragazze in Italia che non accettano l’imposizione del velo da parte dei genitori immigrati da paesi musulmani, queste ragazze devono essere protette e devono poter scegliere il loro futuro, dobbiamo garantire loro una scelta di libertà.
Tratto da MicroMega
Il 1° febbraio, Giornata internazionale dell’Hijab, le donne si raduneranno in una rivolta globale del corpo in difesa della rivoluzione delle donne in Iran e del motto “donna, vita e libertà”. Parteciperanno nelle strade e sui social media, con o senza reggiseno, per sfidare le leggi che impongono l’hijab, le stesse che hanno ucciso Mahsa Jina Amini il 16 settembre e che continuano a opprimere innumerevoli donne e ragazze in Iran, Afghanistan e in tutto il mondo.
A Londra, le donne si mobiliteranno alle 14.00 a Trafalgar Square.
Le donne che non potranno partecipare alle proteste in strada potranno postare foto sui loro account social, anche dall’Iran.
Lo slogan “rivolta del corpo” è tratto dai graffiti scritti sui muri in Iran. È ispirato anche alle foto che sono state condivise dalle donne iraniane, in cui mostrano il loro reggiseno a viso coperto e con slogan come “Tu sei il pervertito; io sono una donna libera”.
L’hashtag #BodyRiot è già stato soppresso da Instagram e Facebook, che continuano ad aiutare gli islamisti a mantenere le limitazioni e a suscitare vergogna per il corpo nelle donne e nelle bambine.
Sebbene le donne adulte abbiano il “diritto” di indossare l’hijab, su scala sociale di massa l’hijab è tutto fuorché un diritto e una scelta, in particolare perché è una prescrizione religiosa che le donne con retroterra musulmano devono seguire. È spesso imposto con forza brutale, violenza, minacce, ostracismo e intimidazione anche nelle nazioni non teocratiche.
Inoltre è importante notare che la Giornata internazionale dell’hijab è parte di un progetto islamico atto a normalizzare le restrizioni sull’autonomia corporale delle donne e non ha nulla a che vedere con la libera scelta personale.
Il 1° febbraio ci scateneremo contro l’hijab come strumento di restrizione e controllo del corpo delle donne. Rimaniamo in solidarietà con le tante donne e ragazze iraniane che si tolgono e bruciano i loro hijab. Celebreremo il corpo in rivolta contro le norme religiose e patriarcali.
La Rivolta del Corpo è sollecitata da One Law for All, FEMEN e il Concilio degli ex musulmani della Gran Bretagna.
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