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Contro il fascismo: ora, ragazze e ragazzi, tocca a voi!

Tratto da Volere la Luna

 

Gastone Cottino ci ha lasciati la mattina del 4 gennaio, pochi giorni prima del suo 99° compleanno. Giovanissimo, fu uno dei partigiani che, il 26 aprile 1945, assaltarono e liberarono il Palazzo di Città torinese. Da allora e fino a ieri è stato infaticabile testimone della Resistenza, senza sconti per nessuno e senza tentennamenti. Professore di diritto commerciale, ha affiancato l’attività di studioso con quella in difesa della Costituzione, dei diritti e delle libertà soprattutto dei soggetti più deboli e delle minoranze, politiche e non solo. Amico da sempre di Volere la Luna è stato ripetutamente partecipe delle nostre attività politico-culturali (di cui è traccia, in questo sito, l’intervento svolto il 19 settembre 2021 nella tavola rotonda “Allarmi son fascisti”: https://volerelaluna.it/allarmi-son-fascisti/2021/10/11/non-arrendersi-mai/ ) e anche conviviali. Nell’ultimo anno, ancora attivo e lucidissimo, ha contribuito, con molti di noi, alla realizzazione del Coordinamento antifascista torinese svolgendo anche l’intervento di apertura dell’assemblea costitutiva del 6 marzo (https://www.youtube.com/watch?v=YEaWyDPSxR0&t=12s). Nella primavera scorsa, suo fratello Amedeo, Marco Revelli ed io abbiamo avuto con lui alcune conversazioni sulla situazione politica, sul fascismo, sulla necessità di una reazione forte soprattutto da parte dei giovani. L’idea era quella di arrivare a un piccolo libro che desse risposta alle domande di ragazze e ragazzi che lo avevano specificamente interpellato. Le conversazioni, di grande interesse e profondità, sono state sbobinate e sistemate ma la mancanza di tempo e di energie gli hanno impedito quella revisione finale, a cui, da perfezionista qual era, non voleva rinunciare. Di quel testo – quasi un testamento politico – pubblichiamo qui alcune parti, con l’avvertenza che si tratta, appunto, di una trascrizione da me curata ma da lui non definitivamente licenziata. (livio pepino)

Alla soglia dei miei cent’anni (ne ho compiuti 98), un gruppo di ragazzi e ragazze mi ha chiesto un incontro ponendomi una domanda inquietante, che riassume il problema di oggi: «Tu hai partecipato alla Resistenza e alle tappe successive della Repubblica. La tua generazione e quelle immediatamente successive hanno avuto dei valori chiari a cui guardare e delle persone di riferimento. Noi a chi e a cosa facciamo riferimento?». È una domanda giusta, profondamente giusta, che rimanda alla necessità di ritrovare il filo e il senso di una storia. Una storia che i giovani non conoscono, o conoscono poco, perché negli ultimi decenni è stata stravolta e dispersa. Di un tratto di questa storia io sono stato, volente o nolente, per ragioni di nascita, partecipe (non dico protagonista perché non voglio ingigantire il mio ruolo). E avendo alle spalle quasi un secolo, tra l’altro neppure breve, sento la responsabilità di provare a dare una risposta a questa sollecitazione.

Sono passati 80 anni dal 25 luglio 1943, quando Benito Mussolini venne sfiduciato ed estromesso dal Governo, e gli eredi del fascismo sono tornati alla guida del Paese.

L’insediamento di Giorgia Meloni alla presidenza del Consiglio e di Ignazio La Russa alla seconda carica dello Stato (investito, quasi con un passaggio di consegne, da Liliana Segre) non è un semplice cambio di maggioranza (un’alternanza, come si dice) ma un fatto devastante, uno strappo grave, la maggior lacerazione della storia repubblicana. È stato angosciante anche il cammino che ha portato a questo esito: soprattutto gli ultimi mesi in cui, quasi fatalmente, ci si avvicinava. C’erano segnali univoci e non c’era dubbio che quello sarebbe stato l’approdo. Ma l’effetto è stato ugualmente devastante perché, persino in termini di immagine e di movenze, personaggi come La Russa evocano le figure dei peggiori gerarchi del Ventennio. Alla Starace, per intenderci. Di quei gerarchi che erano il segno tangibile, giornaliero del pugno di ferro che il regime aveva imposto al Paese. Mi risuona nella mente e nelle orecchie lo slogan di quegli anni bui: “All’armi, siam fascisti!”. Un’espressione che mi fa venire qualche brivido, perché ancora sento, dentro di me, quelle parole e quel canto. Di quando mi affacciavo, ragazzo, in via Garibaldi, a Torino, richiamato dalle squadracce fasciste che sfilavano con in testa Piero Brandimarte (pluriassassino e incendiario della Camera del lavoro) e percuotevano chi, incautamente, non si era subito levato il cappello. Un’espressione e un comportamento rievocati oggi dalle bravate squadristiche di Casa Pound, di Forza nuova e dei vari gruppi eversivi che agiscono impunemente e che noi abbiamo tardato a denunciare.

Siamo, dunque, di nuovo in un regime? E in che senso si può parlare di fascismo? Più che di un regime in atto si deve parlare dell’incombenza del fascismo. Cioè siamo in un cammino, in una deriva sapientemente amministrata. In una rete che si sta tacitamente estendendo, che parte dai simboli, dalle date e arriva allo spoil system e all’inserimento di uomini fidati in posizioni nevralgiche nella scuola, nella magistratura e via seguitando. È una rete che si sta costruendo pezzo per pezzo e a cui – questo è il fatto che più mi colpisce – gli italiani sono totalmente insensibili, non si rendono conto di quel che li aspetta.

C’è chi dice che non si possono fare paragoni tra il fascismo di ieri e quello di oggi perché sono fenomeni tra loro molto diversi. È il solito falso problema e posso ben dirlo io che il fascismo del ventennio l’ho vissuto. Certo i due fascismi non si presentano allo stesso modo, perché, almeno per il momento, non c’è un regime che limiti, ad esempio, la libertà di stampa. Ma ciò accade anche perché è diverso il contesto e forse di limiti di quel tipo non c’è bisogno. Oggi, infatti, il sistema dei mass media, controllato dal potere economico, è quanto di più insidioso ci sia e spesso sostituisce la propaganda del ventennio, quando, ricordiamolo, non c’era la televisione con la sua enorme capacità di influenza. Sappiamo benissimo quanto l’informazione è stata ed è tradita dai giornalisti embedded con notizie manipolate (o addirittura false) ma anche con silenzi e omissioni. Pensiamo alla guerra in Iraq e all’invenzione delle armi chimiche di distruzione di massa pronte per l’uso da parte di Saddam Hussein o all’apartheid cancellato della Palestina. E pensiamo a come è stata ed è deformata la guerra ucraina, di cui vengono presentate solo la drammatica invasione russa e le evidenti colpe di Putin mentre vengono ignorati il nazionalismo e il bellicismo di Zelensky (trasformato in una star internazionale), gli antecedenti della guerra, la presenza in Ucraina di milizie di dichiarata derivazione nazista e, soprattutto, non si dice che la guerra poteva essere evitata e che la pace è ancora oggi possibile se la si vuole raggiungere. Così, l’indottrinamento attraverso i mass media, che ti fanno perdere la capacità di giudizio e la libertà di valutazione, rende in parte superflua la stessa propaganda diretta.

Ma torniamo alle identità e alle differenze tra il regime fascista e la situazione odierna. È chiaro che non ci sono sovrapposizioni automatiche. Ci sono, però, evidenti equipollenze. E, poi, anche il fascismo storicamente esistito tra gli anni venti e quaranta del secolo scorso non è mai stato uguale a se stesso. Non in Italia, non in Europa e non nel mondo. In Italia la violenza squadrista delle origini, l’assassinio politico, l’olio di ricino si sono alternati con un’azione di governo apparentemente in doppiopetto. Quanto all’Europa c’è stato il nazismo in Germania, il fascismo di Salazar in Portogallo, il fascismo di Franco in Spagna, e ci sono stati il fascismo di Horthy in Ungheria e la galassia fascista della Finlandia e della Polonia, fino, in tempi più recenti, ai colonnelli greci. E in Francia il fascismo di Pétain non è stato lo stesso dell’Italia o della Spagna anche se gli ingredienti erano molto simili. Poi ci sono i più recenti fascismi dell’America latina. Sono tutti movimenti con un fondo autoritario, molto spesso duramente repressivo, ma variamente modulato. Insomma, un caleidoscopio di manifestazioni che hanno, peraltro, una identità comune: l’instaurazione, in modo variamente autoritario, di quello che Gramsci chiamava un regime reazionario di massa. Ebbene questo riferimento è lo stesso della destra oggi al governo. Lo si vede nei personaggi, in quel che dicono, nella volontà di cambiare radicalmente la Costituzione, nel clima che si sta instaurando. Un clima in cui tu non sei obbligato a tacere, ma taci perché non hai più conoscenza, non capisci più le cose, non le afferri, non hai più il senso della storia. E allo stesso tempo sei indottrinato. Poi, certo, ci sono differenze. Ma insistere sul fatto che il fascismo di oggi non è quello di ieri è un modo capzioso per distrarci. Aggiungo: il fascismo di oggi non è ancora il fascismo di ieri, ma se non è adeguatamente contrastato non è affatto sicuro che non sia quella la prossima tappa. Del resto, se si vuole riprodurre nel nostro Paese il regime polacco o quello ungherese, come pure è stato detto, che cosa si fa?

C’è chi, anche a sinistra e in particolare nel Partito democratico, dice che queste posizioni sono esagerate, che è sbagliato gridare “al lupo, al lupo!”, che gli antifascisti irriducibili sono arroccati su vecchi pregiudizi, che Giorgia Meloni non può essere ricollegata al fascismo perché nel ventennio non era ancora nata e che, comunque, ha fatto significative autocritiche e si sta dimostrando capace e responsabile. Non è così.

Anzitutto. Giorgia Meloni non è spuntata dal nulla. Al contrario, è nata e cresciuta nel vivaio del Movimento sociale. È stata dichiaratamente e orgogliosamente fascista, ha avuto come punto di riferimento Giorgio Almirante (fondatore del Movimento sociale dopo essere stato redattore della rivista antisemita e razzista La difesa della razza e esponente di rilievo della Repubblica di Salò), si è collocata a destra di Gianfranco Fini e dei cosiddetti fascisti in doppiopetto. Alcuni dei suoi amici e collaboratori sono stati dei picchiatori. E, quanto al dato generazionale, va casomai sottolineato che avere aderito al fascismo dopo la Liberazione è più grave dell’averlo fatto durante il ventennio. Perché nel dopoguerra si sapeva tutto sugli orrori del fascismo, sulle leggi razziali, sulle deportazioni e chi aderiva alla forza politica che ne faceva l’apologia e ne invocava il ritorno non può chiamarsene fuori. Ciò rende anche del tutto inadeguato dire: «Io la Meloni la giudico da quello che fa». Certo, si dovrà fare attenzione alle sue scelte e ai suoi comportamenti ma intanto la sua biografia e la sua cultura sono ben note e impongono di valutarla per quel che è. Né vanno sopravalutate le sue prese di distanza dalle leggi razziali e dall’antisemitismo. È stata, infatti, un’autocritica limitata, insufficiente e, soprattutto, obbligata ché oggi una mancata presa di distanza da quegli aspetti del fascismo sarebbe del tutto impresentabile. Ma l’insufficienza è data dal contesto, a partire dal permanere dei simboli, che hanno un significato profondo. Tu fai l’autocritica e nel frattempo hai nel simbolo del tuo partito la fiamma trasmigrata dallo stemma del Movimento sociale italiano, diretta ed esplicita continuazione del fascismo. Attenzione a non cadere nel tranello. Anche gli ebrei, i superstiti di quella mostruosità, rischiano di cadere in questa terribile trappola. La spregiudicatezza dei neofascisti e la nostra ingenuità può portare addirittura alla loro partecipazione alle manifestazioni del 25 aprile. Ciò non sarebbe un riconoscimento ma un oltraggio, un elemento che depotenzia subdolamente tutto ciò che è rappresentativo della nostra storia e della rinascita del nostro Paese.

Certo oggi, con l’arrivo al governo, prevale, a fronte della violenza (parte integrante del fascismo storico) il doppiopetto. Ma anche qui occorre essere chiari. Per il momento la Meloni non ha bisogno di Casa Pound: per il momento, ripeto. E del resto – come ho già ricordato – anche il fascismo storico, dopo il primo orribile scatenarsi di violenze, giocò su due tavoli. Né si può dimenticare che negli scorsi decenni ampi settori della galassia fascista hanno continuato a coltivare il culto della violenza e, in alcuni casi, a praticarla addirittura in versione stragista, in significativa collaborazione con apparati dello Stato: basti ricordare Freda e Ventura, la strage di piazza Fontana, Ordine nuovo, gli attentati ai treni e via seguitando. E ci sono anche tanti altri recenti episodi, a cominciare dall’assalto alla sede della Cgil a Roma del 9 ottobre 2021 guidata da esponenti di Forza Nuova.

In ogni caso, se la pratica della violenza è passata in secondo piano, restano evidenti la violenza culturale e il culto della forza. Nella cultura politica di questa destra è la forza la legittimazione del successo. È giusto, in altri termini, che i più forti vincano, da un punto di vista genetico, da un punto di vista sociale, da un punto di vista comportamentale: basti ricordare la visione della scuola del ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara. È questo, del resto, un tratto comune delle destre radicali a livello planetario e non solo in Italia: Trump e Bolsonaro, nella loro protervia e volgarità, insegnano. […]

A differenza che negli anni trenta e nei primi anni quaranta del secolo scorso noi sappiamo tutto. Conosciamo sia la storia che l’attualità del fascismo. Sappiamo tutto della Resistenza. E i barconi, e la disperazione dei sopravvissuti che piangono quelli che sono annegati li vediamo ogni giorno in televisione. È tutto dispiegato, eppure non c’è quel soprassalto di empatia che ti fa schierare con le vittime di questa gigantesca ingiustizia. La tragedia, oggi, è l’accettazione passiva che cresce anche se non c’è un velo di ignoranza da strappare. E non so se parlare di indifferenza o di servitù volontaria. Mi chiedo: dove sono le magliette a strisce del luglio ’60 e i camalli? Dove sono le tute blu di piazza del Duomo dopo piazza Fontana? Dov’è l’eterogenea marea di Milano del 25 aprile 1994 contro Berlusconi? Dove sono finiti i 3 milioni convocati dalla Cgil il 23 marzo 2002 al Circo Massimo a Roma, vero e potente contrappeso al berlusconismo? Dove sono finiti? La soglia della tollerabilità è stata ampiamente superata ma non si innesca alcuna scintilla di rivolta.

Si torna così alla domanda di quei ragazzi e di quelle ragazze che ho citato all’inizio. Che fare? E con quali riferimenti? Le reazioni al fascismo sono state in questi ultimi anni inconsistenti e quasi sempre giocate sulla difensiva. A volte – per esempio di fronte alle violenze di Forza Nuova o di Casa Pound – si sono limitate a proteste di maniera e a comunicati stampa che lasciano il tempo che trovano. Superfluo dire che l’antifascismo dei comunicati stampa è destinato al fallimento e a non contare nulla. Io credo che il punto di partenza, il primo riferimento per voi giovani stia in un prezioso monito di quella grande figura che fu Nuto Revelli. Nuto diceva, in quel leitmotiv che fu suo costante assillo: capire e non arrendersi. Capire ciò che siamo stati e ciò che dobbiamo essere; capire e non arrendersi: mai. Ci sono, in quel monito, due aspetti strettamente connessi: la necessità di conoscere e, per questo, di studiare e la connessa necessità di impegnarsi. […]

Non dobbiamo, non possiamo essere concilianti come sono, purtroppo i vertici della Repubblica, che sembrano inseguire una impossibile neutralità. Chi è stato per tutta la vita insieme a chi fucilava i partigiani o ha tessuto l’elogio del fascismo e della Repubblica di Salò non può pretendere di partecipare alle celebrazioni e di portare corone ai monumenti ai caduti che, anzi, in quel modo oltraggia. Non si può accettare una simile doppiezza. Bisogna dirlo e non cadere nell’imboscata di mettere insieme, per un malinteso senso di unità, gli opposti. Bisogna pretendere che i fascisti stiano lontani dalla Resistenza e dire che se ci saranno loro alle celebrazioni ufficiali non ci saremo noi. Solo così si potrà rompere la barriera di narcosi, di anestesia dei sentimenti che è stata costruita in questi anni. Perché le persone – i giovani ma anche i meno giovani – hanno bisogno di chiarezza. Ché altrimenti sono naturali l’incomprensione, l’indifferenza, l’allontanamento. Aggiungo che non basta guardare al passato. Bisogna guardare anche al presente. Un antifascismo vero deve estendere il suo impegno a realizzare una società opposta a quella che il nuovo fascismo – in continuità con il vecchio – ci propone: una società in cui si persegua la partecipazione e non il culto del capo, in cui si metta al centro il pubblico e non gli interessi privati, che concentri i suoi sforzi sulla salute e sull’istruzione, che persegua l’uguaglianza e condizioni di vita accettabili per tutti e tutte «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (come vuole l’articolo 3 della Costituzione). Una società aperta e solidale capace di accogliere e di respingere le politiche contro i migranti, che sono la frontiera razziale del nuovo millennio.

Non è mai troppo tardi per reagire. Non possiamo aspettare ancora. Per chi appartiene a quelle classi del ‘23, ‘24, ‘25, ’26 che nella Resistenza credettero non soltanto di riscattarsi e di ritrovare la dignità di cittadino, ma di contribuire a costruire un mondo nuovo, quello di oggi è uno spettacolo veramente amaro e rivoltante. Dà la sensazione a noi pochi superstiti, ormai alle soglie del commiato, di lasciare il nostro Paese in una condizione di decadimento politico e sociale, di un fallimento: che, non a caso, si accompagna alla reazione padronale, al ristabilimento di quel capitalismo selvaggio che la pandemia sembrava dover accantonare per sempre, con la caduta dell’ultra liberismo e dei falsi ideali che esso porta con sé. Ecco, io non posso accettarlo! Ci sono, nonostante tutto, segnali di resistenza e di riscossa. Segnali, non a caso, provenienti dalla classe operaia in lotta contro le delocalizzazioni e le chiusure delle fabbriche e dal mondo variegato dell’associazionismo. Sono, però, in genere manifestazioni in ordine sparso, che potranno avere un risultato se si riuscirà a coagulare e a mobilitare i giovani. Il cammino è lungo, però la bussola c’è. Ed è nel recupero della memoria, dell’intransigenza e del rigore di Gobetti e di Gramsci, nell’esempio e nell’enorme lascito etico e politico – non è retorica ricordarlo – dei nostri compagni caduti, feriti, deportati, nell’insegnamento di chi ci ha guidato al ritrovamento di noi stessi.

Io sono pronto a metterci la faccia, le energie sono quello che sono, ma la faccia sono disposto a metterla, non ho paura di espormi, in nessun modo. Ma ora, ragazzi e ragazze, tocca a voi. Non arrendetevi mai!

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