Sacra rota

Alimenti negati, ricorsi e rimpalli. Sembra l’Italia, ma è la Sacra rota

Una donna libanese, sposata con rito cattolico e poi separata, da vent’anni cerca di ottenere giustizia. Nonostante le sentenze il marito non le paga gli alimenti. I silenzi del Vaticano e le scelte dei vescovi


Tratto da Domani, articolo di Federica Tourn

 

Una donna libanese, sposata in chiesa con rito cattolico e separata dal marito, sta lottando inutilmente da vent’anni per ottenere gli alimenti per sé e per suo figlio. Alimenti che le spettano di diritto, come sancito da diverse sentenze del tribunale della Sacra rota e del Supremo tribunale della Segnatura apostolica.

Sentenze che non sono mai state applicate, né dal tribunale ecclesiastico in Libano, né dal Vaticano, lasciandola in un limbo giuridico (è ancora formalmente sposata) e, soprattutto, in serie difficoltà economiche. È una storia di carte bollate, ricorsi, domande ignorate, sentenze contraddittorie o inapplicate quella di Miriam (nome di fantasia). Il tutto segnato dalla sfiancante attesa di avere finalmente giustizia.

Per scrivere questo articolo sono stati necessari nove mesi. Fino a poche settimane fa Miriam era determinata a testimoniare con il suo vero nome, ma le ripetute minacce ricevute l’hanno convinta a usare uno pseudonimo.

Dal Canada, dove vive oggi, Miriam denuncia l’abuso di potere di alcuni tribunali ecclesiastici e non smette di chiedere alla Sacra rota e alla Segnatura apostolica, il supremo tribunale della Santa sede, perché non le sono stati pagati gli alimenti arretrati dopo l’abbandono del marito. Inutilmente.

In Libano vige il sistema dello statuto personale, secondo il quale, in materia di diritto di famiglia, i cittadini dipendono non dalla legge statale ma dalle legislazioni della religione di appartenenza. Si tratta di un pluralismo giuridico che accorda alle diciotto comunità di fede riconosciute dallo stato, l’autonomia in fatto di matrimonio, divorzio, filiazione, eredità. Per i cattolici libanesi, quindi, il tribunale ecclesiastico presiede alle richieste di annullamento del matrimonio (dato che il divorzio non è previsto dal codice di diritto canonico).

IN TRAPPOLA

Tutto è iniziato nel 1990, quando Miriam si è sposata. Marito e moglie appartengono entrambi alla comunità greco-melchita, una chiesa cattolica di rito bizantino che ha conservato le proprie tradizioni cristiane orientali ma è in piena comunione con la Santa sede.

Dopo tredici anni sono apparsi i primi segni di rottura a causa di una relazione extraconiugale del marito, che se ne è andato di casa chiedendo al tribunale ecclesiastico greco-melchita di Beirut l’annullamento del matrimonio e l’affidamento del figlio per «l’incapacità psicologica della moglie di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio».

Secondo l’articolo 3 della legge 818 del Codice canonico delle chiese orientali, l’infermità mentale di uno dei due coniugi è un motivo valido per sciogliere il vincolo matrimoniale. Nel 2003 la donna ha fatto ricorso allo stesso tribunale chiedendo la separazione legale: il 4 giugno 2007 la corte le ha riconosciuto il diritto al sostentamento e ha imposto al marito di darle 5.000 dollari al mese, decisione confermata da un ulteriore decreto del novembre dello stesso anno.

La decisione del tribunale, però, non è stata rispettata e la somma stabilita non l’è stata corrisposta, se non in minima parte e in valuta libanese. Miriam ritiene che l’arcivescovo della diocesi di Sidone Élie Béchara Haddad, presidente della corte d’appello della chiesa greco-melchita, si sia intromesso e abbia bloccato il procedimento.

«Il vescovo – dice – ha bloccato l’esecuzione di quanto disposto dalla corte e ha deciso di farmi avere solo pochi spiccioli, del tutto insufficienti a mantenere me e mio figlio».

Miriam allora si è rivolta a Roma, denunciando l’accaduto al tribunale della Segnatura apostolica che, l’anno successivo, ha revocato la decisione illegale del vescovo Haddad e gli ha ordinato di far eseguire la sentenza, obbligando il marito a pagare gli alimenti dovuti.

Nessuno, né da Roma né da Beirut, ha però informato la donna. «In tutto questo tempo – dice Miriam – ho inviato richieste di informazioni e depositi legali al Vaticano chiedendo che fine avesse fatto il mio reclamo alla Segnatura, ma non ho mai ricevuto risposta».

Intanto, il 20 maggio 2009 il tribunale ecclesiastico libanese, accogliendo i risultati di una perizia psichiatrica falsificata, ha dichiarato Miriam instabile mentalmente e nullo il matrimonio. «Come ho capito in seguito, comprare una perizia falsa che certifichi problemi mentali nella donna è una prassi diffusa in Libano», denuncia Miriam.

Il suo non è l’unico caso: sono decine le testimonianze raccolte da Khalas, un gruppo di sostegno alle donne libanesi, che parlano di unioni annullate e figli sottratti alle madri grazie a false dichiarazioni di instabilità mentale.

RIMPALLO DI RESPONSABILITÀ

Intanto la saga continua. Miriam ha presentato un ricorso in appello contro l’annullamento al tribunale della Sacra rota che, più di cinque anni dopo, il 26 gennaio 2015, le ha dato ragione, asserendo che non si riscontrava incapacità mentale, ma senza affrontare l’annosa questione degli alimenti.

Soltanto nel 2016 Miriam ha appreso che già nel 2008 la Segnatura aveva deciso in suo favore: la donna ha ricominciato a scrivere a Roma, e in particolare al supremo tribunale del diritto canonico, perché facesse eseguire la sentenza e obbligasse il marito a pagarle quanto doveva.

La Segnatura, però, ha ripassato la palla alla Sacra rota. Nel 2015 arriva un altro colpo di scena: il marito di Miriam si converte all’islam per potersi risposare. «Una pratica ingannevole a cui alcuni uomini ricorrono quando il matrimonio cristiano è ancora valido, come nel mio caso», spiega Miriam.

Non solo, dopo aver appreso che la Rota avrebbe deciso di far valere gli alimenti retroattivi, il marito ha presentato un’altra causa di annullamento alla Rota vaticana, sostenendo stavolta di essere lui quello mentalmente incapace. Inspiegabilmente, il tribunale vaticano ha accettato di prendere in considerazione il caso, anche se l’uomo ora non solo non è più cattolico ma ha addirittura due mogli. Un’ulteriore sentenza del giugno 2021 del tribunale della Rota ha riconfermato la validità del matrimonio con Miriam (senza, ancora una volta, menzionare gli alimenti).

A questa sentenza è seguito l’ennesimo ricorso del marito, che ha continuato a dichiararsi «mentalmente incapace». Un tira e molla tra Libano, Canada e Roma che, tra conversioni e certificati di problemi mentali, sembra destinato a proseguire all’infinito, o almeno “finché morte non li separi”.

Miriam non si è data per vinta. Ha scritto a papa Francesco, al segretario di stato vaticano, Pietro Parolin, e al suo sostituto, l’arcivescovo Edgar Peña Parra, al decano della Sacra rota Arellano-Cedillo, al nunzio apostolico in Canada, al prefetto della Segnatura apostolica, il cardinale Dominique Mamberti: nessuno le ha risposto.

In solidarietà con Miriam, si è mossa anche la Catholic Network for Women’s Equality, un’organizzazione canadese che difende i diritti delle donne nella chiesa, ma anche in questo caso gli appelli sono caduti nel vuoto. «Perché dopo due decisioni da parte del Vaticano di confermare la validità del matrimonio, si continuano a fare tentativi di annullamento? – chiede Miriam – è un’offesa al mio diritto di difendere i miei interessi in modo tempestivo. Il risultato è che la responsabilità degli alimenti viene continuamente elusa».

UMILIAZIONE

A maggio 2022, la Segnatura apostolica ha ribadito la competenza della Sacra rota nel decidere degli alimenti di Miriam ma, manco a dirlo, nessuno ha pagato. È intervenuto però il decano della Rota che, prima di procedere con il saldo del denaro dovuto, ha preteso delle scuse da Miriam per il suo linguaggio, ritenuto non appropriato ed «eccessivo».

Miriam, pur perplessa per la richiesta insolita, ha scritto la lettera di scuse pur di vedere conclusa la vicenda. Incassata la lettera, a Roma tutto è ripiombato nel silenzio. La donna, esasperata, lo scorso febbraio ha scritto un’ultima volta al cardinale Parolin. «Ancora una volta il decano e la Rota stanno utilizzando scuse procedurali per ritardare la mia ultima petizione urgente – si legge nella lettera – Le circostanze suggeriscono che sono stata costretta dal Decano a inviare queste scuse per altri scopi».

Interpellati da Domani, né il cardinale Parolin, né il decano della Sacra rota hanno risposto. Il Supremo tribunale ha invece detto che la causa di Miriam, «per quanto competenza di questa Segnatura apostolica, è stata opportunamente trattata e la decisione è stata a suo tempo notificata alle parti».

Il vescovo Haddad si era detto disponibile a un’intervista via mail ma, una volta comunicate le domande, non ha più risposto.

La storia, però, non è ancora finita. Pochi mesi fa i giudici rotali hanno deciso di disfarsi della questione degli alimenti arretrati, ormai arrivati alla considerevole cifra di 620mila dollari, e di rimetterla nuovamente al tribunale ecclesiastico libanese. In una parola l’hanno consegnata proprio nelle mani del vescovo da cui tutto ha avuto inizio, monsignor Haddad. Oltre al danno, per Miriam è arrivata anche la beffa.

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