27 Gen Quel molo di Lampedusa
Tratto da ilpost
Nel posto dove avviene gran parte degli sbarchi di migranti in Italia le responsabilità sono distribuite fra molti, ed è un problema.
Quando si parla di sbarchi di migranti a Lampedusa spesso si immagina che le imbarcazioni arrivino un po’ ovunque sulla piccola isola italiana, che dista appena 120 chilometri dalle coste della Tunisia e poco meno di 300 da quelle libiche. In realtà le imbarcazioni che riescono a raggiungere l’isola da sole sono pochissime. La stragrande maggioranza viene intercettata al largo dell’isola dalle navi della Guardia di Finanza o della Guardia Costiera, e scortata nel porto nuovo di Lampedusa, nella zona sud-est dell’isola. Qui le imbarcazioni vengono fatte attraccare su una lingua di cemento lunga circa 150 metri, sempre la stessa, stretta fra un hotel e un ristorante. Si chiama molo Favaloro.
Secondo dati dell’Agenzia ONU per i rifugiati, nel 2022 sono arrivati via mare a Lampedusa circa 45.800 migranti, cioè il 44 per cento del totale di quelli sbarcati in Italia. Tranne sporadiche eccezioni, sono sbarcati tutti sul molo Favaloro, l’unico vero molo dell’isola (per “molo” si intende una costruzione artificiale per ormeggiare le barche). Nel 2022 hanno messo piede sul molo Favaloro più o meno lo stesso numero di migranti arrivati via mare in Spagna e in Grecia, messi insieme.
Il flusso di migranti a Lampedusa è ormai stabile da una ventina d’anni. Eppure il molo Favaloro sembra un molo come tanti: spoglio, delimitato da blocchi di pietre che scendono verso il fondale, e costantemente spazzato dalle onde del mare nei giorni di vento. Nel tempo sono state realizzate alcune piccole e parziali migliorie per accogliere le migliaia di persone che sbarcano qui ogni anno. Ma il molo continua a essere assai poco adatto per un flusso del genere. Così come, più in generale, non è adatto il resto delle strutture dell’isola dedicate alla prima accoglienza dei migranti, la cui competenza è condivisa da diverse istituzioni. Nessuno, quindi, ne è pienamente responsabile.
«Qui sul molo tutto succede una tantum, la gestione eccezionale di una situazione strutturale è la norma», spiega camminando sulla superficie scivolosa del molo Giovanni D’Ambrosio, responsabile sull’isola di Mediterranean Hope, il programma per migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia.
Gli operatori e i volontari di Mediterranean Hope sono le uniche persone che non fanno parte delle forze dell’ordine, delle autorità sanitarie o delle organizzazioni internazionali come l’Agenzia ONU per i rifugiati a cui viene permesso di partecipare agli sbarchi, per via di un’autorizzazione ricevuta una decina d’anni fa dal ministero dell’Interno. A loro si aggregano anche i volontari del Forum Lampedusa Solidale e della parrocchia locale.
Come tutte le persone dell’isola coinvolte nell’accoglienza, quelli di Mediterranean Hope vengono allertati di un nuovo sbarco su un’apposita chat di WhatsApp dalla Guardia di Finanza o dalla Guardia Costiera. Ogni anno partecipano a centinaia di sbarchi, piccoli e grandi: portano coperte termiche, merendine, e tutto quello che può alleviare le sofferenze delle persone appena soccorse. In alcune giornate passano più ore sul molo che nel loro piccolo ufficio, lungo il corso principale dell’isola.
Il molo Favaloro è interamente compreso in una zona militare: del resto è in una posizione strategica, all’ingresso del porto principale dell’isola, rivolto verso sud. Qui sono ormeggiate le due navi della Guardia di Finanza di stanza a Lampedusa. Nei giorni senza sbarchi non c’è molto che faccia pensare che abbia un utilizzo diverso. L’ingresso è delimitato da un cancello arrugginito. Subito dopo, sulla sinistra, c’è una struttura in cemento che ospita 6 gabinetti.
Le altre strutture permanenti del molo sono tre gazebo di legno e altrettante cisterne per il carburante della navi della Guardia di Finanza. L’acqua corrente si ferma all’inizio del molo, e ci sono soltanto un paio di prese elettriche, spesso rotte. Non c’è modo di ripararsi adeguatamente dalle onde, dal vento e dal freddo.
In un martedì di metà gennaio sul molo c’erano molte altre cose: sacchi di spazzatura che strabordano da un cassonetto, oggetti dimenticati da chissà chi, decine di taniche di benzina e gasolio sequestrate dalle imbarcazioni dei migranti. Alcune sono transennate da una striscia di plastica: su un cartello sbiadito si legge che sono sotto sequestro. Lo spazio sotto i gazebo è occupato da alcune panchine piuttosto malmesse, su cui si possono sedere una decina di persone. Attraccati ad alcune corde, in mare, ci sono ancora i relitti degli ultimi sbarchi.
«È un posto che cade a pezzi e andrebbe messo in sicurezza», dice D’Ambrosio. Invece quasi ogni giorno ospita persone traumatizzate dal viaggio in mare, spesso ferite o disidratate, che per essere accolte e soccorse al meglio avrebbero bisogno di ben altre strutture.
Sull’isola ci sono appena due ambulanze, e fino all’anno scorso ce n’era una sola: e nonostante la sua presenza sia obbligatoria per procedere allo sbarco non sempre ce n’è una presente, racconta al Post un mediatore culturale che lavora da tempo a Lampedusa e che preferisce rimanere anonimo.
Dopo un rapido e sommario controllo medico le persone sbarcate vengono fatte sedere per terra, sul pavimento bagnato del molo, all’aperto, oppure fatte aspettare in piedi in fila indiana. I funzionari della polizia, che coordinano la gestione di ogni sbarco, urlano indicazioni in italiano e dicono alle persone di rimanere al proprio posto, per controllarle e contarle. Alcuni funzionari particolarmente severi ordinano perquisizioni individuali sul posto, anche se spesso le persone sbarcate non si reggono in piedi per la stanchezza, la fame, la sete, le ferite.
Non c’è alcuna riservatezza: le perquisizioni vengono fatte davanti a tutti. Chi vuole cambiarsi i vestiti impregnati di acqua salata deve farlo all’aperto, oppure fare una fila interminabile per i bagni (che peraltro secondo Mediterranean Hope sono quasi sempre intasati e senz’acqua). Dopo un lasso di tempo che può durare da alcuni minuti a svariate ore, le persone sbarcate vengono caricate su un pullman per essere trasportate al centro di prima accoglienza dell’isola, il cosiddetto hotspot. «Il pullman che viene usato ha 9 posti, ma ci caricano sopra 25 persone per volta, a volte mettendole anche nel bagagliaio», racconta D’Ambrosio.
Secondo D’Ambrosio e altre persone che sull’isola si occupano dell’accoglienza, la gestione emergenziale degli sbarchi, «come se il flusso fosse iniziato ieri», e l’assenza di strutture più adatte va attribuita alla gestione condivisa dell’accoglienza fra i molti organi statali e parastatali attivi sull’isola, nessuno dei quali ha le risorse, la volontà o il mandato politico di farsi carico dei migranti dal momento in cui sbarcano a quello in cui lasciano l’isola. Né di vigilare sul pezzo di responsabilità che spetta ad altri.
Il molo, facendo parte di una zona militare, ricade sotto la competenza della Guardia di Finanza, della Guardia Costiera e dell’Esercito. Gli sbarchi sono gestiti dalla polizia con la supervisione della prefettura, cioè del ministero dell’Interno. La cooperativa che gestisce l’hotspot – su incarico della prefettura, che l’ha scelta tramite un bando pubblico – si occupa invece di mettere a disposizione il pulmino e di tenere puliti i bagni, che però sono stati realizzati dalla Protezione Civile. La raccolta dei rifiuti speciali, tra cui i vestiti dei migranti, le coperte termiche e le taniche di carburante, così come lo smantellamento delle imbarcazioni dei migranti, spetta all’Agenzia delle dogane e dei monopoli, che gestisce l’intero porto di Lampedusa.
Se tutti hanno un pezzetto di responsabilità, nessuno ce l’ha davvero. È una dinamica che si può osservare in molti aspetti dell’accoglienza dei migranti a Lampedusa. L’hotspot dell’isola viene ciclicamente criticato per le condizioni in cui vengono ospitate le persone soccorse: in un rapporto redatto qualche mese fa dopo una visita all’hotspot, una delegazione dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) ha parlato di un costante «sovraffollamento», di «assenza di attrezzature per dormire», «insufficiente approvvigionamento di cibo» e «condizioni igienico sanitarie degradanti».
La cooperativa che gestisce il centro rimanda le critiche alla prefettura di Agrigento, la quale a sua volta nelle sue dichiarazioni pubbliche si concentra sui propri sforzi per trasferire i migranti nei centri di accoglienza più grandi in Sicilia. Che però dipendono dalla disponibilità delle navi della Marina Militare, della Guardia di Finanza o di traghetti commerciali che vanno noleggiati per l’occasione.
Tornando al molo Favaloro, gli operatori e i dipendenti di Mediterranean Hope si chiedono spesso se la loro storica presenza abbia indotto le istituzioni statali, negli anni, a «ritirarsi» e dare per scontato che qualcun altro si faccia carico di alcune attività. «È per questo motivo che a un certo punto abbiamo smesso di portare bottiglie d’acqua al molo: quando noi non c’eravamo, le persone non ricevevano da bere. Abbiamo tenuto il punto e oggi le bottiglie le porta l’ente che gestisce l’hotspot», spiega D’Ambrosio.
D’Ambrosio descrive ogni piccola miglioria realizzata sul molo negli anni come un «tira e molla» con le istituzioni competenti. La più avvicinabile, per molte ragioni, è quella del sindaco di Lampedusa: che sulla carta non ha alcun ruolo nella gestione degli sbarchi, ma di fatto ha un piccolo margine per cambiare le cose, essendo il referente sull’isola delle varie forze dell’ordine coinvolte nella gestione dell’accoglienza.
Da qualche mese il sindaco di Lampedusa è Filippo Mannino, 39enne avvocato ex leader del Movimento 5 Stelle sull’isola, oggi capo di una coalizione civica alleata col centrodestra. Il suo vicesindaco è un attivista locale della Lega molto noto tra gli isolani per la sua ostilità agli sbarchi: due anni fa nuotò nei pressi del molo Favaloro durante uno sbarco per sventolare una bandiera con scritto “Prima gli italiani”.
Qualche settimana fa Mediterranean Hope aveva mandato a Mannino un elenco di alcune piccole migliorie da realizzare sul molo, per rendere appena più agevoli gli sbarchi: per esempio uno smaltimento più rapido dei rifiuti, o l’installazione di una rete wi-fi aperta per dare la possibilità alle persone sbarcate di avvisare parenti e amici di essere vive. Mannino non ha ancora risposto punto per punto alle richieste di Mediterranean Hope, ma ha fatto sapere, informalmente, che non è possibile attrezzare una connessione wi-fi aperta sul molo Favaloro per ragioni di sicurezza. Più in generale, Mannino ha spiegato che al molo «si possono fare piccoli aggiustamenti, ma rimane il fatto che siamo su una lingua di terra di venti chilometri quadrati in mezzo al Mediterraneo».
Mannino è stato eletto a giugno dopo una campagna elettorale in cui si è parlato pochissimo di immigrazione e accoglienza, e dopo anni in cui i suoi precedessori, Salvatore Martello e Giusi Nicolini, eletti col centrosinistra, avevano preso spesso posizione a favore dell’accoglienza diventando personaggi noti a livello nazionale e internazionale. Mannino, piuttosto che parlare di come rendere strutturale l’accoglienza al molo Favaloro, preferisce citare quelle che chiama «conseguenze indirette» degli sbarchi sulla comunità di Lampedusa.
«Non abbiamo un ospedale, ma un piccolo pronto soccorso che riesce appena a sopperire alle esigenze del territorio, e le due ambulanze spesso sono impegnate al molo Favaloro. Ho 16 dipendenti e la metà di questi spesso e volentieri lavora su tutto quello che riguarda l’immigrazione», racconta Mannino: «Nella prima settimana di gennaio abbiamo avuto tremila persone all’hotspot, a cui è stato dato un cambio di vestiti, poi diventato rifiuto. Quei vestiti hanno creato la stessa quantità di rifiuti tessili che noi facciamo in un anno». «Il Comune per come può corre in soccorso: abbiamo messo noi le panche che oggi si trovano al molo. Ma è impensabile che Lampedusa possa far fronte a questa marea umana che chiede aiuto», dice Mannino.
Due settimane fa Mannino ha incontrato il ministro dell’Interno del governo di Giorgia Meloni, Matteo Piantedosi, per chiedergli di anticipare i fondi che il governo versa a Lampedusa per quelle che Mannino definisce «conseguenze indirette»: per esempio per i costi altissimi che il Comune paga per smaltire i rifiuti speciali dell’hotspot e del molo Favaloro. Mannino dice che Piantedosi si è impegnato a dare una risposta entro metà febbraio.
Nelle sue rare dichiarazioni pubbliche Mannino insiste molto sul fatto che il governo italiano e l’Unione Europea dovrebbero impedire che a Lampedusa ci sia un flusso costante di migranti, per esempio riformando il cosiddetto Regolamento europeo di Dublino o abolendo la controversa legge Bossi-Fini sui permessi di lavoro per gli stranieri.
È una posizione su cui concordano molti esperti di immigrazione, che pensano che solo aprendo canali legali a livello italiano ed europeo si ridurrebbero gli ingressi irregolari organizzati dai trafficanti di esseri umani.
Questo però non significa che nel frattempo non si possa intervenire sul molo Favaloro e sull’hotspot per rendere più strutturata la prima accoglienza sull’isola, come chiedono Mediterranean Hope e altre persone attive nell’accoglienza sull’isola. Ciclicamente a Lampedusa si discute per esempio della possibilità di chiedere al governo di nominare un commissario straordinario a cui affidare poteri speciali di gestione sulle varie forze dell’ordine e sulle autorità sanitarie dell’isola. Ma si tratterebbe comunque di ricorrere a meccanismi e procedure di emergenza per risolvere una questione, la gestione degli sbarchi, che invece è strutturale.
Giusi Nicolini, sindaca dal 2012 al 2017, rivendica il fatto di avere migliorato le condizioni del molo Favaloro, per quanto possibile: i bagni furono costruiti durante la sua amministrazione – prima c’erano solo dei bagni chimici – così come i lampioni nei gazebo. Ma Nicolini pagò care queste attenzioni, e la percezione che ne derivò: e cioè che si occupasse più dei migranti che degli abitanti dell’isola: «Dopo questi lavori fui lapidata sui social network da moltissimi lampedusani, compreso il mio successore Martello e l’attuale sindaco, Mannino». Nel 2017 si ricandidò ma non fu eletta.
«Sicuramente oggi si potrebbero fare altre migliorie, e farle subito: raddoppiare i pulmini verso l’hotspot, creare delle stanze in cemento al posto dei gazebo, o comunque chiudere quegli spazi per evitare che siano all’aperto», dice Nicolini. Né il governo né il sindaco, per ora, sembrano particolarmente interessati a farlo.
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