22 Set Mahsa un anno dopo e le donne indomabili che non si piegano al regime dell’Iran
Su Internet e nelle piazze la protesta delle donne che non si arrendono
Tratto da La Stampa
«Non preoccupatevi per me. Questa è una battaglia e, nel nome di mio figlio, la combatterò fino alla morte». A cinque giorni dall’anniversario dell’assassinio di Mahsa Amini rimbalzano dall’Iran le parole di Mahsa Yazdani, arrestata due settimane fa a Sari semplicemente perché mamma dello studente ventenne Mohammad Javad Zahedi, una delle prime vittime della rivoluzione “Donna, vita, libertà”. Mohammad è stato ammazzato dalla polizia religiosa il 22 settembre 2022 durante una manifestazione per l’emancipazione delle ragazze dal velo, ma, come quella degli oltre 500 morti dall’inizio delle proteste, la sua presenza grava sul regime minacciosa come fosse reale. Ecco perché i pasdaran braccano in queste ore le madri, gli amici e i parenti di chi è ormai un’icona di libertà. Prima è toccato a Safe Aeli, uno zio di Mahsa Amini rinchiuso preventivamente nel carcere di Evin, poi al padre e alla sorella di Mohammad Hassan Zadeh, al fratello quindicenne di Esmail Barahouei, ai genitori di Javad Rouhi: una cella per ciascun seme, il buio impenetrabile contro la luce che non si spegne.
Da settimane in Iran incombe il conto alla rovescia. Il 16 settembre è là, dietro l’angolo, il giorno in cui il malcontento sociale ha assunto il volto livido di Mahsa Amini e a distanza di dodici mesi proietta la sua ombra sul presente, appuntamento catartico del cambiamento in potenza. Sebbene per le strade non si vedano più i cortei massicci di un anno fa la protesta è tutt’altro che domata e le ragazze a capo scoperto sono sempre più numerose, a Teheran come nelle provincie remote del Sistan-Baluchestan e del Kurdistan. Prova ne sia la morsa che la teocrazia ha stretto intorno al Paese ribelle. Una morsa doppia.
Da una parte c’è il pugno di ferro vero e proprio, l’autoconservazione sanguinaria della Repubblica islamica: almeno mille impiccagioni eseguite dall’estate scorsa a oggi (solo 7 delle quali ufficialmente legate alle proteste), un record anche per gli ayatollah; il nuovo regolamento che prevede fino a 15 anni di reclusione per trasgressione del codice di abbigliamento islamico e il divieto ai tassisti di trasportare passeggere senza hijab; la chiusura imposta ai locali più accomodanti come il parco acquatico Mojhaye Khoroushan, reo di aver tollerato la clientela meno osservante. Dall’altra c’è l’offensiva diplomatica con cui Teheran cerca di divincolarsi dalla condanna internazionale: l’annunciata nuova cooperazione con Riad, l’asse con la Russia e il dialogo energetico con la Turchia, la mano tesa all’Europa (come ribadito domenica al rappresentante speciale dell’Ue per il Golfo Persico Luigi di Maio) in vista dall’imminente fine dell’embargo sulle armi secondo l’accordo sul nucleare del 2015. Eppure, per quanto il governo iraniano sigilli il Paese per soffocarne le voci, come di fronte ad ogni sfida interna dal 1979, l’impressione è che stavolta la terra continui e continuerà a tremare.
Sono le donne a scuotere il sistema, le giovanissime e le loro madri, vinte dall’audacia di una generazione satura di compromessi e utopie riformiste. Sono gli uomini, quelli che si schierano a testuggine in difesa delle compagne e muoiono. È la giornalista ventitreenne Nazila Maroufian, arrestata e rilasciata a singhiozzo per mesi dopo aver intervistato il padre di Mahsa Amini e oggi di nuovo in carcere, dove ha iniziato lo sciopero della fame e ha denunciato di essere stata stuprata dalle forze di sicurezza («rivelo questo abuso per me stessa e per tutte quelle che sono state soggette a violenza e abusi sessuali durante il loro arresto ma hanno paura di parlarne»). È Suzan Eid Mohammad Zadegan, rapita dai pasdaran in quanto donna disobbediente e in quanto baha’i, una delle minoranze più perseguitate in Iran insieme ai beluci, agli azeri e ai curdi come la stessa Mahsa Amini e come Soheila Mohammadi, detenuta politica nella prigione di Urmia dove si è cucita le labbra per denunciare le umiliazioni impostale e la persecuzione dei curdi, ai quali territori quest’estate il governo negava l’acqua per spegnere gli incendi come rappresaglia contro il sostegno alla rivoluzione. È Zaynab Kazemi, condannata a 74 frustate per aver parlato a un evento dell’Assemblea degli ingegneri di Teheran scoprendosi il capo e puntando l’indice contro i colleghi attoniti («Non riconosco un’assemblea che non permette alle donne di essere candidate se non portano il velo”). E sono gli uomini, tantissimi, uomini come Mehdi Yarrahi, il musicista quarantunenne che canta l’epopea delle “donne libere della sua terra” e che, accusato di “sfidare la morale e i costumi della società islamica”, è stato prelevato dalle forze di sicurezza ed è scomparso. Sue sono le parole che in queste settimane segnano il ritmo del countdown nelle mille clip delle ragazze danzanti sulle note di “RooSarito”, in farsi “il tuo velo”. I social consentono di identificare i ribelli, ma i social tengono tuttora in vita la ribellione.
«Non so se di questi dodici mesi siano stati più crudeli e cinici l’assassinio dei manifestanti spacciato per suicidi o incidenti, lo stupro delle detenute, le minacce ai genitori di chi è stato ucciso, ma è comunque una sequela di crimini che dovrebbe concludersi in un tribunale di qualche Stato che voglia esercitare la giurisdizione universale, portando a processo le più alte cariche dell’Iran» ragiona il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury. Ce ne vorrà di tempo, se solo una settimana fa la Fondazione Nobel aveva pensato bene d’invitare i rappresentanti della Repubblica Islamica d’Iran (oltre a quelli russi e bielorussi) alla cerimonia di consegna dei premi salvo poi revocare il tutto dopo le «forti reazioni della società svedese». Ce ne vorrà. Ma intanto c’è il 16 settembre
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