10 Mar RIPENSARE IL REGIONALISMO
Tratto da volerelaluna di Giovanni Caprio
La differenziazione prevista in Costituzione e insita nell’autonomia non può non essere messa in stretta relazione con tutti gli altri principi fondamentali con cui la Costituzione segna in modo irrevocabile la nostra Repubblica, in particolare con quello di uguaglianza sostanziale, che chiama in causa il pieno sviluppo della personalità di ciascuno e l’effettiva partecipazione di tutti alla vita economica, politica e sociale del Paese. Stiamo parlando del collante che consente alla nostra Repubblica di essere una e di restare indivisibile, di rendere permanente il processo di unificazione nazionale tramite la lotta alle diseguaglianze tra persone, tra gruppi e tra territori. Il regionalismo, dunque, pur se basato sulla differenziazione, non può assolutamente trasformarsi in un moltiplicatore delle diseguaglianze, pena il venir meno dell’adempimento dei «doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale» di cui all’art. 2 della Costituzione. C’è bisogno, quindi, di un regionalismo ripensato e organizzato su base solidaristica in grado di ridurre sempre più le disuguaglianze territoriali e non già di “fughe in avanti” verso differenziazioni territoriali ulteriori che potrebbero irrimediabilmente compromettere l’unità del Paese. Una unità che già scricchiola pesantemente sotto il peso delle attuali differenziazioni territoriali. A partire dalla scuola.
«Nel nostro Paese ci sono due bambini, nati lo stesso anno. Una si chiama Carla e vive a Firenze, l’altro Fabio e vive a Napoli. Hanno entrambi dieci anni e frequentano la quinta elementare in una scuola della loro città». Ma mentre la bambina toscana, secondo i dati Svimez, ha avuto garantita dallo Stato 1226 ore di formazione; il bambino cresciuto a Napoli non ha avuto a disposizione la stessa offerta educativa, perché nel Mezzogiorno mancano infrastrutture e tempo pieno. Secondo la Svimez, infatti, un bambino di Napoli, o che vive nel Mezzogiorno, frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord che coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del sud. È questa la drammatica fotografia emersa in occasione del recente incontro “Un paese due scuole” (https://www.youtube.com/watch?v=IFyCPnlVsic), organizzato a Napoli da Svimez e L’Altra Napoli onlus, in cui ci si è confrontati sui divari di cittadinanza, tra istituzioni, esperti della scuola, della cultura e del terzo settore.
Come evidenzia l’ultimo Rapporto Svimez, infatti, i servizi socio-educativi per l’infanzia sono caratterizzati dall’estrema frammentarietà dell’offerta e da profondi divari territoriali nella dotazione di strutture e nella spesa pubblica corrente delle Amministrazioni locali. Nel Mezzogiorno, circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184 mila (88%), in Puglia 100 mila (65%), in Calabria 60 mila (80%). Nel Centro-Nord, gli studenti senza mensa sono 700 mila, il 46% del totale. Per effetto delle carenze infrastrutturali, solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48% del Centro-Nord. La Basilicata (48%) è l’unica regione del Sud con valori prossimi a quelli del Nord. Bassi i valori di Umbria (28%) e Marche (30%), molto bassi quelli di Molise (8%) e Sicilia (10%). Gli allievi della scuola primaria nel Mezzogiorno frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro-Nord. La differenza tra le ultime due regioni (Molise e Sicilia) e le prime due (Lazio e Toscana) è, su base annua, di circa 200 ore. Circa 550 mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano inoltre scuole dotate di una palestra. Solo la Puglia presenta una buona dotazione di palestre, mentre registrano un netto ritardo la Campania (170 mila allievi privi del servizio, 73% del totale), la Sicilia (170 mila, 81%), la Calabria (65 mila, 83%). Nel Centro-Nord, gli allievi della primaria senza palestra, invece, raggiungono il 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado.
Sono anni che si ammonticchiano studi e ricerche relativi ai ritardi accumulati nel sistema educativo del Sud. Nel 2022, secondo i dati di Openpolis, le regioni dove la quota di studenti di V superiore con competenze inadeguate in tutte le materie è risultata più elevata sono state Campania (19,8%), Sardegna (18,7%), Calabria (18%) e Sicilia (16%). Spesso si tratta dei territori in cui anche l’abbandono scolastico precoce incide maggiormente. Tutte le regioni citate si collocano infatti sopra la media anche per quota di giovani che hanno lasciato la scuola con al massimo la licenza media. Una tendenza che segnala come dispersione implicita e abbandoni scolastici precoci non siano altro che due espressioni diverse di uno stesso fenomeno. Un fenomeno che si può sintetizzare nel progressivo allontanamento dal sistema educativo. In alcuni casi esplicito: con l’interruzione del percorso di studi. In altri implicito: i giovani terminano gli studi ma senza competenze adeguate. Questa situazione colpisce soprattutto ragazze e ragazzi con alle spalle le famiglie più fragili. Quelle che per motivi diversi hanno meno risorse, non solo economiche, ma anche culturali e sociali, da investire sull’educazione dei propri figli. Danneggiando quindi le aree del paese più deprivate e maggiormente segnate dalle disuguaglianze. A partire dal collegamento tra povertà materiale e educativa in Italia, il rapporto Save the Children Alla ricerca del tempo perduto. Un’analisi delle disuguaglianze nell’offerta di tempi e spazi educativi nella scuola italiana mette in luce la relazione effettiva tra disuguaglianze di offerta sui territori e esiti scolastici, evidenziando come le disuguaglianze territoriali nel nostro Paese si configurano come un fil rouge in negativo.
Un filo rosso negativo che neppure l’occasione del PNRR (con i 19,44 miliardi di euro mobilitati per il potenziamento dei servizi di istruzione, infanzia e adolescenza) rischia di poter definitivamente spezzare. A chi sono andati, per esempio, i fondi PNRR per il piano “Scuola 4.0”? Stiamo parlando del piano con cui l’Italia punta a trasformare le aule in ambienti innovativi e connessi e a creare laboratori per le professioni digitali. Al netto delle difficoltà che si incontrano nella ricostruzione di tutti i passaggi amministrativi che hanno portato all’attribuzione delle risorse, Openpolis sottolinea che «l’attribuzione delle risorse ha seguito per la maggior parte un criterio demografico. Le risorse sono state cioè assegnate in base al numero di scuole presenti e di classi attive. Questa scelta però sembra andare in direzione opposta rispetto all’obiettivo di ridurre i divari tra i diversi territori. Finalità che invece dovrebbe essere tra le principali del PNRR». Sull’intervento che ha l’obiettivo di creare 264.480 nuovi posti pubblici negli asili italiani entro il secondo semestre del 2025, la Corte dei conti a dicembre 2022 ha invece accertato il mancato rispetto dell’obiettivo intermedio (milestone) nazionale relativo alla selezione degli interventi da ammettere a finanziamento (scaduto il 31 marzo 2022), evidenziando il rischio che il ritardo accumulatosi pregiudichi l’obiettivo intermedio europeo di aggiudicazione dei lavori, da raggiungersi entro il secondo trimestre 2023 e individuando nelle spese di gestione una delle principali cause dell’inadeguata risposta degli enti locali all’avviso pubblico per l’aumento dei posti negli asili nido. E proprio nelle regioni del Sud, quelle che hanno più bisogno di posti pubblici di asilo nido, si sono registrate le maggiori difficoltà e la mancata partecipazione.
Prima di parlare di “autonomia differenziata” si dovrebbe ritornare seriamente a occuparsi del nostro Mezzogiorno,si dovrebbe ridimensionare non poco anche il dibattito di queste settimane sui LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) e ci si dovrebbe interrogare senza pregiudizi se per l’Italia in questo momento più autonomia regionale sia una priorità.
Uno degli obiettivi dell’ambizioso “Piano Sud 2030 Sviluppo e Coesione per l’Italia” presentato dal Governo appena tre anni fa (https://www.governo.it/sites/new.governo.it/files/PianoSUD2030.pdf) era proprio rivolto alla scuola e ai giovani: investire su tutta la filiera dell’istruzione, a partire dalla lotta alla povertà educativa minorile, per rafforzare il capitale umano, ridurre le disuguaglianze e riattivare la mobilità sociale, mediante: scuole aperte tutto il giorno; il contrasto alla povertà educativa e alla dispersione scolastica; la riduzione dei divari territoriali nelle competenze; il potenziamento dell’edilizia scolastica; l’estensione No Tax area; l’attrazione dei ricercatori al Sud. Un piano già consegnato sostanzialmente all’oblio.
Sui tanto discussi e attesi LEP, che in tanti invocano come passepartout per l’autonomia differenziata, non si tarderà a essere costretti a prendere atto che la loro definizione sarà alquanto ardua per non dire impossibile, considerato che non tutti i diritti costituzionali possono essere “scomposti” in prestazioni effettivamente misurabili. D’altra parte anche quando sono già stati fissati come per il diritto alla salute con i LEA (livelli essenziali di assistenza), il risultato è stato quello di non aver perseguito il livello minimo al di sotto del quale non si può assolutamente andare, ma di aver solo fissato un obiettivo verso il quale tendere. Lo confermano i dati più recenti, per i quali ben dieci regioni su venti non riescono a soddisfare tali parametri essenziali.
Anche i limiti che si riscontrano in ordine all’autonomia regionale che già c’è andrebbero maggiormente analizzati prima di procedere con più autonomia. Per fare un esempio tra i tanti possibili: il Codice del terzo settore (decreto legislativo n. 117/2017) lascia la facoltà alle Regioni e alle Province autonome di prevedere per tutti gli Enti del terzo settore, ad eccezione delle imprese sociali costituite in forma societaria, l’esenzione o la riduzione dall’Irap con un minor aggravio di spesa per il mondo del Terzo settore (articolo 82, comma 8). Ad oggi, delle venti Regioni italiane solo la Valle d’Aosta si è adeguata in maniera conforme a quanto previsto dall’articolo 82 del Codiceprevedendo un’esenzione Irap per gli Enti del terzo settore senza nuovi o maggiori oneri per il bilancio regionale. Un quadro che, come evidenziato dal MEF, mostra come non solo tra le diverse Regioni vi siano evidenti differenze di aliquote agevolate (si passa dalla Regione Campania che per Onlus e Coop prevede il 4.40% all’Umbria che prevede rispettivamente un’aliquota del 2,98% per le prime e 1,50 per le seconde) ma anche la necessità di rivedere il trattamento Irap per gli Enti del terzo settore e per tutte le realtà del mondo non profit in generale
Nelle conclusioni di un recente, interessante Rapporto di Stefan Fina, Bastian Heider e Francesco Prota intitolato “Italia diseguale. Disparità socioeconomiche regionali in Italia” (https://www.fes.de/it/politica-per-leuropa/italia-ineguale) si legge: «Le disuguaglianze territoriali provocano tensioni sociali e politiche. Studi recenti mostrano che le quote più alte di voti per i partiti anti-establishment sono circoscritte ad aree che hanno meno beneficiato delle recenti evoluzioni come la globalizzazione e il cambiamento tecnologico (Rodríguez-Pose 2018; Dijkstra et al. 2020). Il fallimento delle precedenti politiche volte a ridurre le disuguaglianze regionali è da attribuire alle limitate risorse dedicate a questo tema rispetto alla portata stessa delle disuguaglianze, all’influenza negativa esercitata da altri campi della politica pubblica, tesi a favorire le regioni più prospere, e a una serie di interpretazioni alquanto parziali della natura del problema regionale. Ora la sfida politica è trovare meccanismi che diversifichino ampiamente i dividendi demografici, della digitalizzazione e della globalizzazione senza lasciare indietro nessuno. In caso di fallimento, le tensioni sociali e la polarizzazione politica già esistenti finiranno per aumentare, dando vita a uno scenario di soli perdenti».
L’Italia ha un enorme problema di diseguaglianze: tra persone, generi, generazioni e territori. Nell’agenda politica, “in alto a sinistra”, non può che essere scritto il superamento delle diseguaglianze come assoluta priorità, affinché tutti i cittadini abbiano effettivamente le stesse opportunità, indipendentemente da dove sono nati o risiedono e dal loro reddito. Una priorità che mal si concilia con le ulteriori differenziazioni che si vanno prospettando.
Sorry, the comment form is closed at this time.