27 Gen Il garage di Biden
Di Silvio Lavalle
La vicenda che sta mettendo l’attuale presidente statunitense Joe Biden in seria difficoltà e che potrebbe pregiudicare la sua ricandidatura alle prossime elezioni presidenziali ricalca un’analoga vicenda molto recente al centro della quale c’è l’ex presidente americano Donald Trump, attualmente sotto inchiesta.
Entrambi sono stati colti in flagrante violazione delle severe norme di sicurezza che prevedono che i documenti di interesse nazionale, classificati, cioè segreti, non possano uscire dal palazzo del Congresso e dagli uffici in cui sono custoditi.
Trump ne aveva in gran quantità nella sua smisurata dimora di Palm Beach. A margine si può osservare che la suddetta dimora non è affatto un luogo dalla privacy gelosamente custodita, come si potrebbe credere. Infatti di questa specie di Disneyland miliardaria in riva al mare Trump, per salvare un po’ le spese, affitta parti ad altri ricconi al prezzo di 200.000 dollari all’anno, come un qualunque ragioniere di Albenga farebbe con la sua casetta. I documenti trovati a casa Biden (che secondo lui erano stati declassificati, dunque proibiti ma non top secret) risalgono al tempo dell’amministrazione Obama, in cui lui era vicepresidente, e stavano in un suo vecchio ufficio nel Delaware, nel garage per l’esattezza.
L’unica differenza apprezzabile tra il repubblicano e il democratico sembra essere una qualche maggior sobrietà del secondo.
Nonostante la società dell’informazione ci abbia tolto ogni residuo di innocenza, mostrandoci i metodi del potere, nonostante la pervasività dei media ci consenta talvolta di entrare nelle stanze in cui si decidono, con la legge o col crimine, i destini di altri uomini, certe derive di questi “uomini di Stato” non cessano di sorprendere. Sorprende di meno la notizia di un omicidio ordinato direttamente da questi presidenti cui, nel nome della ragion di Stato, è dato potere di vita o di morte (purché poi ci assicurino che il morto era davvero molto cattivo), che non questo genere di arbitrii.
In questa vicenda coloro che sono o sono stati, “l’uomo più potente del mondo”, hanno dimostrato sovrano disprezzo per l’istituzione su cui proiettano la propria ombra padronale, invece di servirla con la stessa abnegazione con cui, si dovrebbe supporre, si sobbarcano il fardello morale degli omicidi di stato. Sorge forte a questo punto il dubbio che nel sacrificare vite umane, siano altrettanto leggeri che nel maneggio dei documenti segreti. Peraltro questi uomini sono gli stessi che da 13 anni cercano con ogni mezzo di stringere le mani attorno al collo di Julian Assange, inquisito anche lui per una storia di documenti “classificati”, ma ben diversamente gestita e motivata.
Tra i faldoni segreti trovati nel garage di Biden (nel garage, mica in mezzo alla strada, si difende lui) erano conservate carte concernenti il matrimonio di suo figlio, Beau, a riprova che gli affari dello Stato sono affari suoi, come il regalo di nozze.
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