Luigi Manconi

Lgbtq+, nel nome dei diritti

Tratto da Repubblica, di Luigi Manconi.

Se non sono io a dire il mio nome, chi altri può farlo in mia vece? E se non sono io a definire la mia persona — bisogni, ragione, sentimento — chi dovrà farlo al posto mio? Non le istituzioni, che tendono immancabilmente a fornire classificazioni generali e immobili, e non la collettività, il cui senso comune alimenta preconcetti e stereotipi. Sono io il solo legittimato ad affermare la mia identità e a esigere che gli altri — mentalità comune e amministrazione pubblica — la riconoscano.

Uno degli episodi più meschini della recente vita parlamentare fu quello che vide un ministro della Lega ostinarsi a chiamare pubblicamente Vladimir Luxuria con il nome anagrafico, per imporre a ogni costo il proprio ordine mentale e la propria disciplina sessuale. Era la reazione dozzinale di chi vive nel panico dell’altro da sé.

In termini certo più moderati è ciò che trovo in una intervista della ministra Eugenia Roccella rilasciata a Mario Ajello su Il Messaggero, dopo la mancata approvazione da parte dell’Italia (unitamente a Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) della Dichiarazione del Consiglio Ue per la promozione di politiche a favore della comunità Lgbtqia+.

Secondo Roccella, l’espressione di genere di cui parla quella Dichiarazione corrisponderebbe a «come io comunico all’esterno il mio genere auto-percepito. Per esempio: i pronomi, come una persona vuole essere chiamata e considerata all’esterno». E ancora: queste materie, in alcuni Paesi europei, sono diventate cose molto prescrittive: «Tu pretendi che gli altri ti considerino e ti chiamino solo secondo la tua auto-percezione, la tua volontà, che naturalmente può anche cambiare nel tempo e magari può cambiare più volte. Noi questo non lo abbiamo accettato».

Eugenia Roccella è consapevole — credo abbia letto abbastanza libri per saperlo — che qui risiede il cuore della questione e di tante altre questioni. Qui si trova il fondamento del principio di libertà e del sistema dei diritti fondamentali della persona.

Tra i primi diritti rivendicati e affermati dagli esseri umani, vi è quello di darsi un proprio nome. Il diritto, cioè, a nominarsi, a scegliere la definizione di sé che si vuole comunicare agli altri e che si vuole che gli altri riconoscano. Quanto dolore sarà costato allo schiavo per affrancarsi e per ottenere di essere chiamato con un nome proprio? Un nome diverso da quello servile e da quello che lo qualificava in base alla sua condizione di merce.

In altri termini, la lotta per il nome è lotta per l’identità. Il diritto, cioè, a non essere chiamato attraverso il nome — e lo stereotipo e il pregiudizio e il disprezzo — imposto dall’altro, da chi detiene tutto il potere, compreso quello di nominare cose e persone.

Non è solo quanto suggerisce un approccio storicistico alle vicende umane. È anche l’esito di un’analisi filosofica e antropologica che incrocia percorsi imprevedibili e sorprendenti, come quello del liberalismo cattolico e del pensiero di Antonio Rosmini. Questi così scriveva «il diritto suppone primieramente una persona, un autore delle proprie azioni», perciò «la persona dell’uomo è il diritto umano sussistente». Dunque, anche secondo il cosiddetto “illuminismo cattolico” la persona nella sua prima costituzione, fondata su corpo e psiche, è la fonte e la sede dei diritti inalienabili dell’individuo e la radice stessa della libertà umana.

I diritti non sono qualcosa di astratto, riconducibili esclusivamente al pensiero politico e all’elaborazione filosofica: sono qualcosa di terribilmente fisico. I diritti riguardano un organismo sensibile, capace di provare piacere e di patire, di amare e di odiare, di decadere e di riprendere forza, di emanciparsi e di liberarsi. Se questo è vero, il corpo con i suoi bisogni e con i suoi desideri va ascoltato e tutelato, avendo come esclusivo limite quello di non ledere gli altri e gli altrui diritti.

È la base stessa del principio di autodeterminazione, che trova la sua prima espressione proprio nel dirsi e definirsi, nel dichiarare il proprio nome e cognome e la propria identità. È l’esatto opposto della concezione intimamente e irrevocabilmente autoritaria della destra. Ed è quanto, in ultima istanza, spiega la mancata approvazione della Dichiarazione della Ue.

Certo, è sempre possibile che l’affermazione di quei diritti fondamentali si traduca in «cose molto prescrittive» (così Roccella) o in disposizioni totalmente superflue o addirittura controproducenti. Ma sono, appunto, i rischi propri del dispiegarsi delle libertà.

O può accadere, ancora, che la legittima richiesta di un riconoscimento dell’identità e anche di una identità in movimento e in trasformazione si esprima in una successione di pretese volubili, di garanzie estemporanee, di prerogative speciose. Ma anche in questo caso si tratta di un rischio da correre.

In gioco c’è un concetto di libertà che muta a seguito dei mutamenti sociali, culturali e delle forme di vita e di relazione. Possiamo solo osservare tutto ciò con il massimo rispetto e adoperarci perché la società e le istituzioni siano capaci di com-prenderlo: ovvero di accoglierlo al proprio interno, di prestargli cura e offrirgli tutela.

Immagine tratta da gaypost.it con licenza Creative Commons

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