26 Gen Una parola al giorno – Specismo
Tratto da Una parola al giorno, di Salvatore Congiu
spe-cì-smo
SIGNIFICATO Concezione per cui la specie umana è superiore alle altre specie animali, e che giustifica lo sfruttamento degli animali da parte dell’uomo
ETIMOLOGIA calco dell’inglese speciesism a partire da specie, voce dotta recuperata dal latino species, propriamente ‘aspetto, forma esteriore’, derivato di spècere ‘guardare’.
«Non ha alcuna considerazione per gli animali, è smaccatamente specista.»
Per il vocabolario Treccani questo termine, definito come la «convinzione secondo cui gli esseri umani sono superiori per status e valore agli altri animali, e pertanto devono godere di maggiori diritti», è ancora un neologismo. L’originale inglese speciesism, però (coniato dallo psicologo britannico Richard D. Ryder), risale al 1970, ed è forse per questa maggiore ‘antichità’ e dimestichezza che la definizione dell’Oxford Dictionary of Philosophy appare decisamente più centrata di quella del Treccani: «In analogia col razzismo e il sessismo, l’errato atteggiamento del rifiutare il rispetto per la vita, la dignità o i bisogni di animali di specie diverse da quella umana».
Con buona pace del nostro venerabile dizionario, infatti, ben pochi filosofi morali antispecisti dubitano che gli umani siano «superiori per status e valore» agli animali (farlo implicherebbe sostenere che in caso di emergenza salvare la vita di una persona sia importante quanto salvare quella di un topo), e che debbano «godere di maggiori diritti» (anche perché certi diritti gli animali non saprebbero utilizzarli). Anzi, Peter Singer – il filosofo che più ha contribuito a propugnare l’antispecismo col suo saggio Liberazione animale, uscito nel 1975 e ripubblicato nel 2023 in versione riscritta e ampliata – non solo pensa che attribuire un diverso valore a specie differenti non sia necessariamente specismo, ma non ama affatto parlare di diritti. Da buon utilitarista, dubita che esistano ‘diritti naturali’ oggettivi e assoluti, e comunque non li ritiene concettualmente indispensabili per difendere gli animali.
Il punto di partenza di Singer è un ben preciso concetto di eguaglianza, intesa non come trattamento identico bensì come uguale considerazione degli interessi. I filosofi discutono da tempo sul significato da attribuire all’idea di uguaglianza: poiché gli esseri umani sono evidentemente differenti per molti aspetti, si tratta di trovare delle qualità così basilari da essere possedute proprio da tutti (compresi neonati e persone con gravi disabilità cognitive). Così facendo, però, emerge che questo denominatore comune – essenzialmente, la capacità di provare piacere e dolore – non è proprio solo degli umani ma anche di altre specie animali. Se un essere può soffrire, perciò, non è moralmente giustificato ignorare questa sofferenza: «dolori della stessa intensità e durata sono ugualmente cattivi, che siano provati da animali o da umani».
Questo semplice principio rende immorali certi trattamenti che infliggiamo agli animali, causando loro sofferenze enormi (maggiori, scrive Yuval Noah Harari nell’introduzione, «di tutte le guerre della storia messe insieme») a fronte di un godimento inessenziale per noi: l’uso degli animali per divertimento (zoo, circhi, corride); la degradazione e gli orribili patimenti negli allevamenti intensivi per produrre carne a basso costo; l’impiego di cavie nella ricerca per esperimenti anche di dubbia o nulla utilità. Opporsi a queste pratiche, ad esempio rifiutando di acquistare carne da allevamenti industriali, secondo Singer è il minimo che ogni persona coscienziosa dovrebbe fare. Quanto alla questione se sia lecito cibarsi di animali allevati eticamente e uccisi in modo indolore, invece, la risposta a suo avviso è moralmente più complicata e sfumata (altri autori, ovviamente, sono più netti anche su questo punto).
Se la maggior parte delle persone, quindi, nonché diventare vegetariana o vegana, neppure compie il passo di rifiutare le più palesi ingiustizie verso gli animali – e così facendo, secondo Singer, non ha basi per «criticare, senza ipocrisia, il razzismo o il sessismo» – è essenzialmente per due ragioni: la nostra tradizione culturale, che dall’antica Grecia al cristianesimo ha sempre considerato gli animali come funzionali e subordinati agli scopi umani, e l’ignoranza in cui è tenuto il grosso dell’opinione pubblica sul trattamento riservato quotidianamente a miliardi di animali.
Naturalmente, poi, c’è anche chi tenta di giustificare lo specismo con argomentazioni razionali, ma Singer le smonta ad una ad una: a chi motiva il carnivorismo osservando che anche gli animali si mangiano tra loro, obietta che questi non hanno scelta e agiscono per istinto, mentre noi possiamo scegliere e abbiamo alternative; a chi accampa le nostre superiori capacità intellettive chiede se, adottando questo criterio, troverebbe lecito infliggere a persone con gravi menomazioni cognitive le stesse sofferenze che ritiene giustificabili per gli animali; a chi obietta che gli animali non sono capaci di reciprocità in campo etico, risponde che neppure i bambini piccoli e le persone con profondi danni cerebrali lo sono; infine, a chi sostiene ‘realisticamente’ che ogni morale è sempre relativa ad un determinato gruppo, dunque è normale che gli umani privilegino la propria specie, oppone che l’etica dev’essere imparziale e razionale, altrimenti vigerebbe la legge del più forte.
Alla fine del libro, l’autore si chiede amaramente: «Continuerà la nostra tirannia, provando che la moralità non conta nulla quando si scontra con l’interesse egoistico, come i cinici hanno sempre sostenuto?». Poi però prevale l’ottimismo, affidato ad una nota (e spuria) citazione di Gandhi che secondo Singer descrive bene l’evoluzione del movimento animalista: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci».
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