UNA PAROLA AL GIORNO: PRAGMATISMO

Tratto da una parola al giorno

prag-ma-tì-smo

SIGNIFICATO Dottrina filosofica per cui l’affermazione teorica ha validità solo se confermata dalla sua applicazione pratica; atteggiamento volto alla concretezza; tendenza alla spregiudicatezza

ETIMOLOGIA prestito dall’inglese pragmatism, dal greco prâgma‘fatto’.

  • «Non ha di questi scrupoli, è una persona di indubbio pragmatismo.»

Come l’, che nell’uso comune ne rappresenta l’opposto, anche il pragmatismo ha una natura ambivalente. Da una parte, sembra che essere pragmatici sia una virtù: in greco i prágmata (dalla radice del verbo prásso ‘fare, adoperarsi’, da cui anche la nostra prassi) erano i fatti, gli atti, gli affari; ed essere pragmatikós significava essere saggio e avveduto nelle faccende concrete, negli affari politici, giuridici ed economici. Tutte cose lodevoli e rispettabili, certo; ma se consideriamo a cosa si opponga la prassi del pragmatico, si profila subito qualche ombra, perché non si tratta certo di bazzecole: la teoria, i principî, gli ideali. Infatti sui nostri dizionari, alla voce pragmatismo, oltre ad «atteggiamento improntato all’azione e al raggiungimento di risultati concreti» si legge anche «tendenza a comportarsi in modo spregiudicato», puntando «solo al raggiungimento dei propri fini». : troppa praticità porta alla morale.

La dimensione pragmatica sembra per natura estranea alla filosofia, da sempre attività teoretica, : come ha scritto Aristotele, gli umani iniziarono a filosofare «per la conoscenza in sé, e non per trarne un utile […] quando ormai possedevano quasi tutte le cose (…) occorrenti per un’esistenza confortevole e piacevole». Questo cambiò, inevitabilmente, con la rivoluzione scientifica, e infatti Bacone auspicava che contemplazione e azione procedessero «più strettamente congiunte». Nessuno, però, si era spinto in là quanto l’americano Charles Sanders Peirce (1839-1914), che sintetizzò così la massima del pragmatismo: «Consideriamo quali effetti, che possono avere concepibilmente conseguenze pratiche, noi pensiamo che abbia l’oggetto del nostro concetto. , il concetto che abbiamo di questi effetti è tutto il nostro concetto dell’oggetto». Il significato di qualsiasi idea, cioè, sta nel come interagisce concretamente con la nostra esperienza e ci spinge ad agire. Se non dà luogo a nessuna conseguenza effettivamente , un concetto è vuoto, insignificante.

Non possiamo capire la visione pragmatista senza la intellettuale del secondo Ottocento, in cui – col positivismo e il darwinismo – l’ottimismo scientifico dei secoli passati aveva ceduto il passo all’idea di un mondo e scientifico, ostile, in preda a leggi naturali , in cui gli esseri umani devono lottare e competere per la sopravvivenza. Secondo Peirce, quindi, la conoscenza, lungi dall’essere fine a sé stessa, deriva dalla necessità di procurarsi delle convinzioni che ci orientino, liberandoci dallo «stato d’irrequietezza e insoddisfazione» del dubbio e facendoci «passare allo stato della credenza», una credenza che funga da regola d’azione pratica. Da qui la tendenza umana ad accontentarsi di un’opinione qualsiasi, purché stabile e rassicurante, senza preoccuparsi della sua verità effettiva.

Ma per Peirce non ogni credenza, anche se ci rassicura e «l’irritazione del dubbio», è perciò vera. Dal punto di vista dell’utilità individuale qualunque convinzione può funzionare; ma la verità esiste, e non si identifica con l’utile – men che meno con quello individuale. L’unico metodo per ottenere credenze corrette è quello scientifico, basato sul fallibilismo, sull’idea che ogni conoscenza vada considerata sempre e discutibile, sottoposta a verifica sperimentale e dipendente dall’accordo, in ogni momento revocabile, della comunità scientifica.

Un tale approccio oggi ci pare abbastanza ragionevole, tanto che fatichiamo a comprendere le reazioni severe e talora sprezzanti che suscitò in Europa. Per Max Horkheimer, ad esempio, il pragmatismo «riflette con un candore quasi disarmante lo spirito della cultura affaristica, quello stesso atteggiamento ‘pratico’ in contrapposizione al quale nacque la meditazione filosofica», tanto che neppure andrebbe presa sul serio una dottrina che fa «della del soggetto l’unico criterio di verità». In breve: un’americanata filosofica.

La ragione di tanta durezza è che il pragmatismo ottenne notorietà internazionale non certo per le (poche) opere di Peirce, che visse misconosciuto e morì in miseria, bensì per quelle – assai più fortunate – dell’amico William James (1842-1910), che però aveva una prospettiva assai differente. Mentre il pragmatismo di Peirce era un «metodo per i significati dei concetti», quello di James era effettivamente un criterio di verità: «Un’idea è vera fin quando ci consente di andare avanti», dunque dire che una cosa sia «utile perché vera» o «vera perché utile» è «la medesima cosa». Quanto all’esistenza di Dio, ad esempio, se quest’idea si dimostrasse ‘vantaggiosa’, «come potrebbe il pragmatismo negarla?».

Un pragmatismo spirituale, popolare e consolante, quindi, ben lontano da quello logico ed di Peirce, al quale – nella sua tenuta in Pennsylvania, dove campava compilando voci enciclopediche e mangiando il pane vecchio regalatogli dal fornaio – non restava che il più famoso a «cercare di imparare a pensare con maggiore esattezza». Finché nel 1905, non riconoscendo più la sua creatura nelle opere di James e altri che ne avevano seguito le orme, compì l’estremo passo: cambiarle nome, inventando la parola pragmaticismo, «brutta abbastanza per essere al sicuro dai rapitori di bambini». Severo, ma giusto.

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